conoscenza come concretezza e percorso, per nutrire la mente e favorire libero pensiero per la ricerca della consapevolezza, più semplicemente, rendersi conto di ciò che ci circonda ed usarlo come specchio per conoscere meglio se stessi
lunedì 2 luglio 2012
domenica 1 luglio 2012
Quando vuoi cogliere un fiore
Qualche giorno fa sono stata in campagna e in mezzo al verde, sulle pendici della collina, c'erano tantissime ginestre fiorite e profumate. Un guizzo veloce del pensiero mi ha fatto desiderare di cogliere qualche ramo fiorito per portarlo con me a casa in città. Poi mi sono soffermata a pensare che sarebbe stato bello solo per me. Spesso capita di agire così, pensando solo a ciò che è bello per noi, dimenticando che ogni azione che non coinvolge solo noi stessi ha delle implicazioni che il più delle volte non riusciamo a vedere o sentire. Quando hai in mano quel fiore che volevi perché bello, colorato, profumato, che ti mette gioia, tu hai qualcosa ma la pianta dalla quale lo hai colto non lo ha più con sé. I fiori sono ciò che permette alla pianta di continuare a riprodursi, non sono solo qualcosa di piacevole da vedere, pronto per l'essere umano che passa di là. Quello che mi ha fatto pensare è stato il mio stesso non pensare. E come sia incredibilmente facile mettere da parte i buoni propositi quando ci si entusiasma per qualcosa, quando si innesca il volere qualcosa. A volte avere ciò che si desidera è possibile e non danneggia nulla e nessuno ma qualche altra volta non è così. E questo vale anche per altre cose della vita, non solo per i fiori. E' l'atteggiamento che è universale, al di là del dove lo applichiamo. E' il prendere senza dare in cambio. E' fare il proprio interesse senza curarsi delle conseguenze. E' pensare solo a noi stessi senza mettere in conto di pensare contemporaneamente anche a ciò su cui interveniamo. Tutto questo non è forse la descrizione di ciò che accade spesso nella vita quotidiana? E se voler cogliere un fiore ne rappresentasse lo specchio non avremmo forse una risposta in più alle varie domande di chi ricerca saggezza?
Dimenticare o ricordare?
L'atto più facile è rispondere che si ricordano le cose belle, è naturale che sia così, e che si dimentica con altrettanta naturalezza qualsiasi cosa brutta o che ci fa stare male. Questo se non si insiste sui pensieri che accompagnano i sentimenti che proviamo. E' altrettanto vero che spesso si riesce a dimenticare qualcosa di positivo magari perché lo si dà per scontato o che si ricordi ciò che fa stare male proprio perché non riteniamo giusto farlo scivolare via. Ma la domanda vera, quella che impone di riflettere bene per riuscire ad intendere la risposta, si presenta quando l'evento che ci coinvolge non è di natura superficiale. Tali eventi sono quasi sempre sconvolgenti perché sanno rivoltarci senza che ci sia possibile controllarli. E quasi mai sono cose belle. Il dolore che proviamo profondamente per una ferita nel cuore, qualsiasi sia il punto di origine del dardo scoccato che ci ha raggiunti, può richiedere di fare questa domanda, soprattutto se la mente rimane sveglia quando il cuore è ferito. Una mente sveglia in questo caso non significa brillante ma solo attiva e stimolata a tale attività dal turbinio dei sentimenti che si provano. Non è facile placare una mente che risuona del dolore provato da tutto il resto del nostro essere. Penso ai sensi di colpa che vengono a galla, a ragione o insensatamente, quando qualcuno non è più con noi. I sensi di colpa permangono con maggiore facilità in coloro che usano molto la mente perché nel continuo ripassare l'evento alla ricerca di un perché che plachi il tutto ancora sconvolto, la radice del sentirsi in qualche modo responsabili scende in profondità. Ecco che dimenticare potrebbe salvare dall'impazzire dal dolore e per qualcuno è la scelta migliore. Magari questo stratagemma cosciente o inconscio che sia placa finché non si ristabilisce l'equilibrio che permette di gestire il ricordo dell'accaduto. Attuabile se si ha cura di evitare tutti quei piccoli promemoria che si potrebbero incontrare lungo il cammino scelto. Ecco perché c'è chi sceglie di cambiare vita anche spostandosi in qualche altro luogo. Si fa per prendere le distanze dal punto dolente, talvolta dimenticando che la ferita ce la portiamo dentro. E se si è consapevoli di questo fatto spostarsi perde i suoi colori di nuova libertà per assumere l'aspetto di ciò che è in realtà, solo una fuga, utile forse, ma pur sempre una fuga. A chi vede questo non basta dimenticare, serve qualcosa di più, serve trovare l'equilibrio mentre si cammina nel dolore. C'è brutalità in questo abito di consapevolezza ma se non si riesce a chiudere gli occhi, se non si riesce a far scivolare via tutto con facilità, allora ricordare è l'unica scelta. Parlo di scelta comunque, anche se sembra un passaggio obbligato dall'incapacità di fare il contrario, cioè dimenticare in qualche modo, perché rimanere svegli pur nel dolore fornisce abbastanza energia al potere decisionale. La mente attiva e ragionante si muove incessantemente alla ricerca di quegli appigli necessari per recuperare la posizione di stabilità dell'animo sconvolto. Però più vedi più è difficile trovare tali appigli perché i collegamenti che rimandano al ricordo sono innumerevoli. Non è un percorso facile scegliere di ricordare perché comunque, come in ogni cosa, non è tutto male o tutto bene, dal momento che ci saranno sempre dei particolari da salvare in mezzo alle cose brutte o particolari da dimenticare in mezzo alle cose belle. Immagino le risate di qualcuno più pragmatico che leggendo questo potrebbe dire che sono un mucchio di cavolate per filosofi e che le cose si possono ben risolvere da sé, basta lasciarle scorrere senza badarci troppo. Vero anche questo ma non essendo tutti uguali qualcuno che si interroga potrebbe esserci. Se dimenticare è la strada intuitivamente più facile da imboccare, ricordare insegna a confrontarsi costantemente con ciò che si prova, insegna a rivedere i propri punti di vista per valutare, ogni volta che se ne presenta l'occasione, la loro validità relativamente al nostro passo nella vita. Pur tuttavia ricordare come dimenticare è solo uno dei possibili percorsi da scegliere e quello che preferiamo dipende da cosa vogliamo ottenere e l'uno o l'altro ci raccontano chi siamo. Se è più importante stare bene in assoluto allora la scelta migliore, al cospetto di un dolore è tentare di dimenticare, ma se è più importante amare ogni cosa vissuta, per tutto ciò che insegna o ha insegnato nonostante tutto, allora ricordare è la strada più adatta anche se fa dannare ad ogni passo.
giovedì 28 giugno 2012
La folle pretesa di voler essere compresi
Normalmente alla base di ogni dialogo, o di una situazione che prevede comunicazione in genere, la comprensione reciproca è basilare. Se non c'è, viene meno il senso del dialogo. In amicizia il valore della comprensione viene sottinteso, nel senso che lo si dà per scontato al momento dell'instaurarsi della simpatia. Si sa che ci si può contare quasi al cento per cento in ogni occasione così non ci si preoccupa se davvero si riesce a comprendersi reciprocamente in modo corretto. Qualche volta è vero che basta intendersi anche non troppo profondamente, magari scegliendo di rimandare la comprensione profonda ad occasione più calma o più propizia. In amicizia questo si può fare perché fa parte del pacchetto la consapevolezza che domani ci si rivedrà. Qualche volta però, in quella piccolissima percentuale che sottrae qualcosa alla totalità, c'è un mondo altrettanto completo. A volte si crede che l'altro riesca a comprenderci veramente, se ne ha l'illusione perché nessuno dei due manifesta dubbi in proposito. Si tace, si sorvola, si rimanda concentrando l'attenzione su questioni diverse che al momento vengono giudicate più importanti, così la percezione sottile che ci sia incomprensione in germe si placa nel silenzio mentre si va avanti. I giorni passano, non si può pretendere che si fermi il tempo per dare la possibilità di chiarimenti eventuali, soprattutto se ancora non si capisce bene se la comprensione è in pericolo di vita. Ma chi dei due non comprende bene l'altro? Ciascuno avrà il suo punto di vista da difendere. La sensazione di non essere compresi appieno è spiacevole specialmente se l'incomprensione punta il dito sui sentimenti o su qualcosa che ci tocca profondamente. Se vediamo che l'altra persona non ci ha trattato come ci aspettavamo che facesse, scatta dentro l'amarezza. Amarezza che viene alimentata dal ripetersi della mancata comprensione. Se poi vediamo che non c'è proprio verso che l'altro accetti di smuovere qualcosa nel suo processo mentale ci arrabbiamo. E ci arrabbiamo con un'intensità direttamente proporzionale ai sentimenti in gioco. Se ci si fermasse qui si otterrebbe solo dolore. E il dolore non produce mai pace se non viene accompagnato dalla comprensione di qualcosa che sta nel passo successivo. Buttare giù il boccone assai indigesto del non essere compresi è difficile perché in realtà questo boccone ferisce l'orgoglio, null'altro che quello. Ciò che proviamo non viene intaccato né modificato in alcun modo dall'incomprensione altrui. C'è quasi da meravigliarsi di non essere capaci di capirlo subito, specialmente se ci si ritiene delle persone che non guardano al giudizio altrui in nessun campo di applicazione materiale. Estendere questa consapevolezza al campo di ciò che custodiamo dentro dovrebbe essere ben più facile da mettere in pratica ma, come accade spesso, paradossalmente non è così. Il passo successivo, dopo la reazione di generazione della rabbia è quello di accettare di non fermare tutto chiudendo le vie di accesso alla comunicazione residua, perché residua sembrerà. Ultimamente, in preda a questo dolore, ho lasciato che rabbia e amarezza si mescolassero fino al punto di voler cancellare tutto quello che mi faceva soffrire, isolandomi verbalmente e cercando di farlo fisicamente. Le circostanze della vita, però, mi hanno richiesto quella presenza che non volevo più dover esercitare. Desideravo fortemente potermi allontanare almeno per un po'. Un amico mi ha suggerito di ritrovare la serenità prima di prendere una qualsiasi decisione. Saggiamente, prima di fare un danno irreparabile del quale ci si potrebbe pentire provando un dolore maggiore dell'essere incompresi, si dovrebbe magari scegliere il silenzio ma non con brutalità, bensì con dolcezza, per il tempo necessario a rivedere le cose sotto una luce diversa. Le cose costruite insieme nel tempo hanno un valore che non può essere spazzato via dall'impuntarsi dell'orgoglio che vuole soddisfazione. Se si accetta che nel mondo esistiamo per come siamo e ci esprimiamo dovremmo accettare il fatto che possono esserci delle zone di ombra dove la comprensione non riesce ad arrivare. E non è che smettiamo di provare ciò che proviamo solo perché qualcuno non ci capisce, non è mai davvero sufficiente un altro essere umano a cancellare le cose nelle quali crediamo o che sentiamo anche se siamo spesso indotti a pensare il contrario. E' solo un po' più difficile convivere con le lamentele dell'ego. Incontrare qualcuno che riesce a comprenderci davvero, senza storpiare nulla di ciò che gli diciamo, o confidiamo, solo perché non crede alle nostre parole, è un dono del quale non dovremmo andare alla ricerca, specialmente se non abbiamo la pretesa di essere compresi. Un giorno qualcuno potrebbe capirci perfettamente ma, nell'attesa, si dovrebbe provare ad esercitarsi nell'accettare il non essere compresi. Io mi sto esercitando.
venerdì 1 giugno 2012
Sbagliando
Un bimbo piccolo si muove e non sa ancora come muoversi, così ogni sua mossa è il suo esperimento nella vita. Sbatte le mani sugli oggetti o sbatte gli oggetti stessi solo per testare la sua forza, in tal modo riesce a capire e assimilare l'informazione. Una volta cresciuto, quel bambino, saprà come muoversi tra gli oggetti e forse saprà fare anche di più ma, qualche volta, e non temo di affermare che invece sia più spesso di quel che si crede, questo bimbo cresciuto porta con sé una imperfetta gestione dei movimenti della sua parte interiore. Gran parte degli sbagli che commettiamo nascono dai tentativi di capire qualcosa. Il metodo più semplice e diretto è gettarsi allo sbaraglio proprio perché si avverte che non si può stare fermi per sempre a pensare se una data cosa è meglio farla o no. Un bambino sa di avere un tempo lunghissimo a disposizione (e questo lo attingo dalla mia memoria poiché ricordo che era così per me) per camminare anche in modo incerto. O almeno così dovrebbe essere. Ho ripensato alla mia infanzia, all'adolescenza e allo sviluppato senso di responsabilità che sentivo in me, essendo stata lasciata libera di svilupparmi senza costrizioni o imposizioni di sorta da parte dei miei genitori. Conoscevo le basi importanti e irrinunciabili del vivere con onestà, sincerità di parola, e rispetto, per il resto l'esperimento dei miei genitori è stato quello di lasciarmi molta carta bianca, sorvegliandomi da lontano per vigilare che non esagerassi in qualcosa. Il rovescio di questa preziosissima medaglia delle opportunità lo sento venire su adesso, quando mi rendo conto che l'autocontrollo che ho esercitato su me stessa mi ha ridotto un po' la disinvoltura nei piccoli sbagli quotidiani. Il risultato è una perfezionista che si rilassa poco e tende a vedere l'errore, seppure infinitesimo, nell'operato altrui, oltre che nel proprio, in primis. Metto sempre in conto tutto prima di agire così da ridurre al minimo il rischio di errore. La cosa positiva in tutto questo lavorio mentale è un discreto allenamento a pensare con chiarezza. Quello che mi manca, come dicevo, è però la capacità di essere meno dura con me stessa. Riconoscendo infatti che gli altri non sono noi sto imparando ad essere comprensiva e meno rigida. Quello che ancora non so fare è rivolgere a me stessa questa comprensione. Se guardo indietro però degli sbagli enormi li trovo, nati dalla cecità provocata dall'accentramento del pensiero su di me ma vedo anche che il terreno sul quale sono stati depositati era di competenza dell'amore. In quel campo avevo abbandonato la severità con la quale mi autocontrollavo perché il cuore splendeva e mi insegnava a buttarmi allo sbaraglio. In quel frangente, quando ho accettato di buttarmi, ho solo dimenticato una cosa essenziale, che quando ti innamori smetti di essere un perno solitario al quale fanno capo tutti i fili del sentire, dello scegliere, del desiderare, del riconoscere dove sta il bene e dove il male, così mi sono ritrovata con nulla in mano e molto nel cuore. Solo che nella realtà fa fede il nulla in mano e non il molto nel cuore. Così, sempre riflettendo, ho capito che la licenza di sbagliare, nella vita, ce l'hanno tutti indistintamente, con dei bonus per potersi salvare fatti della comprensione degli altri che capiscono che tu, in quel momento, se non hai commesso un errore mortale, sei nelle vesti di un bimbo che impara a muoversi. Solo che non è così semplice, perché da adulti entrano in gioco molti altri fattori legati anche alla consapevolezza, che porta con sé non soltanto il grado di apertura degli occhi ma anche quello del cuore. Se non comprendiamo, o non ci proponiamo neppure l'idea di farlo, il perdono che crea i bonus scarseggerà e la durezza dell'animo ci sopravviverà. L'intransigenza non crea spazi dove il cuore può esercitare se stesso a crescere, delimita solo spazi angusti e freddi. Così, osservando una bimba che fa tutto quello che un adulto che sa non farebbe, mi trovo a pensare di avere fatto la scelta giusta quando mi sono arrabbiata con me stessa per il mio supponente modo di trattare gli altri, soprattutto chi mi è vicino, tirando fuori l'alibi a mia discolpa che è perché a tali persone voglio bene. Con chi amo sono stata dura così come ho imparato ad esserlo con me stessa da ragazzina, perché allora sapevo che non potevo né dovevo sbagliare per rendere onore alla grande libertà ricevuta. Quello che so oggi è che l'amore può smuovere le rocce quel tanto che basta a trasformarle in qualcos'altro. E' pur vero che qualche volta il polso di ferro è servito a risolvere una qualche situazione ma se mi guardo bene penso che sia altrettanto importante imparare a trattare con dolcezza, senza scatti d'ira fuori luogo, con più flessibilità possibile per ricordare in ogni momento di essere capaci di comprendere e di venire incontro. Comprendere è meno difficile di quel che si crede, è fatto da domande rivolte a se stessi con il cuore e con sincerità e di ascolto delle risposte con gli stessi. Ogni pretesa si assottiglia e si trasforma nella comprensione che è un'assurdità mantenere se stessa in vita per la mera soddisfazione che può ottenere in cambio quando viene scagliata contro qualcuno o qualcosa. La chiarezza e la comprensione valgono molto di più. E se questo non è proprio il seme del perdono, almeno ne rappresenta il terreno.
venerdì 25 maggio 2012
Quando si ricorda ancora
Ci sono date del calendario che hanno un significato profondo legato alle storie personali. Ogni persona ne ha nella propria memoria e sono così legate al cuore da non riuscire a distinguere i capi del filo che forma questo legame. E' un tutt'uno, come una circuito chiuso su cui scorre il pensiero senza fine. E in questo flusso c'è tutto, quello che riusciamo a vedere bene e quello che ci sfugge. Ogni volta che entriamo in questo circuito ci lasciamo andare perché è giusto che sia così e perché non ne possiamo fare a meno poiché ancora si sente tutto con intensità. Il cuore batte forte innescato dal promemoria di un qualsiasi ricordo che si presenta. E ci si trova catapultati in quel punto più sensibile, quello che riconosce in un soffio leggero una mano pesante che soffoca o ferisce, non la carezza che è. Un filo scoperto che vibra più intensamente non sa fare diversamente. Così, quando entriamo e ci lasciamo trasportare dal flusso che va, si pensa, non creando nuovi pensieri ma usando tutti i ricordi a disposizione. L'equivalente di un album di fotografie sul quale soffermarsi sperando di trovare l'equilibrio che ti permetta di camminare senza scivolare. Di sotto, a tratti, c'è il vuoto dove non c'è lo specchio delle proprie lacrime. Perché unire la realtà presente al ricordo può creare sia l'uno che le altre. Tuttavia, all'interno del Ricordo, quello con la maiuscola, quello intriso di cose buone e amore, c'è una pace particolare, anche se non è ancora dentro di noi. Quando un ricordo è dentro di noi non è sempre facile lasciare che si espanda abbastanza da comunicarci la sua speciale pace, fatta del momento al quale si lega, perché rimane il tormento del ricordo della realtà. Ma se riuscissimo a svincolarci per un istante dalla realtà, potremmo provare ad entrare dentro al ricordo, così vedremmo tutto come se fosse lì, a nemmeno un passo da noi. Se non riusciamo a darci pace, ogni pensiero che ci sfiora nel quotidiano e porta con sé un qualsiasi aggancio al ricordo, ci ferirà anche se non ce ne rendiamo conto o se non lo crediamo possibile. E darsi pace da soli non è semplice, serve una forza sovrumana per tentare anche solo di vederne un po' attraverso ciò che fa male. E solitamente quello che fa male è proprio il pensiero della realtà e di ciò che in essa manca. Il Ricordo porta con sé anche questo. La pace qualche volta però riesce a nascere anche in posti inospitali specialmente se si riesce a comprendere che il ricordare è davvero la misura del nostro amore nonostante tutto. Quando il riverbero del colpo nell'anima è ancora a poca distanza, stare in equilibrio è faticoso quanto l'imparare di nuovo a camminare. Ma qualcosa che scalda c'è, ed è fatto dello stare su quel circuito della memoria insieme a chi la condivide, senza avere timore di mostrare che in questo giorno del ricordo si torna vulnerabili e si annaspa ancora nonostante i chilometri fatti, che avrebbero dovuto garantire una forma migliore. Una data di nascita è, e rimarrà sempre, tale anche se la realtà ci metterà del suo per rubare la scena al pensiero positivo. Così, insieme al ricordo nutrito dal cuore invece che dalla tristezza, ci sarà sempre vita, anche se quello che resta non sarà più parte della tangibile quotidianità ma solo di un luogo parallelo, comunque ugualmente accessibile. Così si accetta ciò che rimane, perché si ha solo questo oltre al ricordare ancora con tutto il cuore. Per N.
lunedì 14 maggio 2012
Dentro e fuori dall'abisso del dolore
Ultimamente non sono stata bene in salute e il dolore fisico mi ha riaperto in profondità un'altra ferita, non fisica, ma dolorosa che non ha mai smesso di fare male davvero. Quando si sta male, qualsiasi sia la causa, qualsiasi tipo di dolore si provi, si cerca di fare in modo che tutto si plachi per non sentire più male. E' naturale cercare di stare bene, anche se la propria soglia del dolore permettesse di sopportarlo non fa bene permanere troppo a lungo nello squarcio che il dolore crea. Se guardo indietro nel corso di tutta la mia vita fin qui, forse ancora con la mente annebbiata dall'ennesima botta dolorosa, mi sembra di riuscire a vedere solo le lunghe attese immersa nel dolore, attese di momenti meno dolorosi, fisicamente e non. Quando ero adolescente i momenti di dolore fisico ricorrente erano il terreno della mia sfida, mi sentivo forte abbastanza per resistere perché volevo temprarmi. Ero una combattente... Sapevo che comunque passava e accettavo di viverlo come esperienza. Poi è venuto il tempo in cui non ne potevo più di tutti quegli anni trascorsi così e ho usato tutti i rimedi possibili per smettere di stare male. Qualche medicina funzionava, qualcuna no. Prima di questo, però, in contemporanea, ho avuto un altro carico di dolore fisico da affrontare, di diversa natura, ma ugualmente snervante. Anche in quel caso raccolsi il guanto della sfida e andai avanti con resistenza, forza e fiducia. Ho rischiato ma ne sono uscita discretamente vittoriosa e da anni senza dolore. Tutti percorsi lunghi, incredibilmente lunghi che, devo ammettere, mi hanno, sì, forgiata ma anche mi hanno consumato un po' dell'energia, o forse è solo un'impressione che sia così, non ho certezza di questo... Adesso, pur consapevole che c'è chi sta peggio di me, mi ritrovo stanca di questo abisso. Non voglio credere che non ho più forza in me, non voglio credere di avere paura anche se ammetto che ne ho, così cerco febbrilmente nella memoria tutte le volte in cui sono riuscita a sconfiggere quel tipo di stare male che ti tira a fondo come un piombo. Questa volta è tutto più difficile perché una volta scomparso il dolore fisico resta quello nell'anima. Quello che crea l'abisso, o quantomeno la percezione di esso. Questo tipo di dolore infinito lo riesce a provare solo il cuore e ben poche sono le medicine che migliorano le cose. Quando ci sei, dentro l'abisso, non vedi il fondo, non vedi pareti, non vedi nulla che possa offrire un appiglio per uscire di lì, vedi solo il dolore e se non provi rabbia né incolpi alcuna persona che non sia tu non crei nemmeno un po' della forza propulsiva necessaria a muovere qualcosa. Forse questo dolore grande è la mia ennesima sfida perché non vorrei mai che la mia pace venisse fuori riversando su qualcuno o qualcosa il mio malessere. E pur tuttavia vorrei smettere di sentirmi in colpa io almeno per interrompere un attimo il circolo vizioso che si forma. Un abisso è pur sempre un abisso e come tale sa inghiottire in profondità se gli si permette di farlo. Come si riesce a combattere immersi in un materiale inconsistente che però ti circonda e ti avviluppa, che armi si usano? Nessun arma materiale puoi portare lì dentro, perché è interno a noi. Solo la mente può divenire abbastanza affilata per tentare di trovare una qualche soluzione, se non definitiva, almeno temporaneamente valida. Così l'atto di forza è stato fare il contrario di come ho sempre fatto fin'ora. L'onda d'urto del capovolgimento mentale ha generato uno stop che mi ha permesso di vedere e dunque di dominare il pensiero tutto insieme, nella sua quasi totalità. Ho semplicemente smesso di scappare mentalmente, ho ammesso che il dolore c'è e ce n'è una quantità smisurata, invece di cercare di convincermi che non fa così male. Ho pianto tanto e tanto a lungo da sentire il sapore delle lacrime nello stomaco e ogni volta che mi sale su il dispiacere risento quel sapore che mi fa piangere di nuovo, ma se la mia nuova sfida è accettare questa convivenza, senza negarne l'esistenza, so che ho iniziato a essere più forte della pressione dell'abisso. Scrivo perché non so parlare, chiedo, mendico perdono ma sono vane parole se nessuno le raccoglie e mi dà una mano perdonandomi, così sono da sola, spietatamente da sola a guardare come meglio posso questo dolore in più. Così il dolore fisico questa volta ha portato con sé in superficie il suo simile e mi ha gettato il suo guanto. Lo raccolgo ma con lentezza perché non ho più l'energia infinita di una volta. Riuscire a vedere l'abisso del dolore anche per un solo istante permette di uscirne in qualche modo e anche se capiterà di caderci dentro di nuovo sembrerà, da quel momento in poi, meno grande. Questo è l'effetto del pensiero in un mondo fatto della sua stessa materia. Come le cose che si credono e quelle che non si credono e che hanno un forte impatto sulla vita reale quotidiana.
Pensare di sconfiggere l'abisso del dolore, qualora capitasse di sperimentarlo, non è la mossa vincente, non inizialmente perlomeno. Se non lo si circoscrive ammettendo che esiste, non si inizia neppure a domarlo. Solo che non trattandosi di un cavallo selvaggio l'atto del domare in questo caso non è finalizzato al successivo utilizzo bensì ad un passo ulteriore nella direzione della consapevolezza della propria forza interiore. E non è sempre vero che un dolore domato sparisce da solo, talvolta serve l'aiuto di circostanze positive che confermino la fiducia in se stessi. Non a tutti è riservato il silenzio dall'altra parte ma, comunque sia il caso, quello che conta di più, in mancanza d'altro, è resistere per non soccombere al dolore. Non è garantito che una volta usciti dall'abisso poi non ci si ricada per un qualche motivo, o per una sola sciocca memoria nostalgica, serve provare a tenere a mente che ammettere con se stessi come si sta, cosa si sente dentro, è una possibile chiave per trovare l'uscita da un luogo oscuro interiore dove non si sta mai bene, anche se si crede che il permanerci possa far sì che qualcuno, un giorno, abbia compassione e ci venga incontro per darci una mano. La nostra storia personale la facciamo da soli, coloro che sono gli altri e che, se si è fortunati, ci sono vicino, non sono l'ossatura portante, pur contribuendo ad essa in modo significativo con la loro presenza e il loro amore per noi.
Pensare di sconfiggere l'abisso del dolore, qualora capitasse di sperimentarlo, non è la mossa vincente, non inizialmente perlomeno. Se non lo si circoscrive ammettendo che esiste, non si inizia neppure a domarlo. Solo che non trattandosi di un cavallo selvaggio l'atto del domare in questo caso non è finalizzato al successivo utilizzo bensì ad un passo ulteriore nella direzione della consapevolezza della propria forza interiore. E non è sempre vero che un dolore domato sparisce da solo, talvolta serve l'aiuto di circostanze positive che confermino la fiducia in se stessi. Non a tutti è riservato il silenzio dall'altra parte ma, comunque sia il caso, quello che conta di più, in mancanza d'altro, è resistere per non soccombere al dolore. Non è garantito che una volta usciti dall'abisso poi non ci si ricada per un qualche motivo, o per una sola sciocca memoria nostalgica, serve provare a tenere a mente che ammettere con se stessi come si sta, cosa si sente dentro, è una possibile chiave per trovare l'uscita da un luogo oscuro interiore dove non si sta mai bene, anche se si crede che il permanerci possa far sì che qualcuno, un giorno, abbia compassione e ci venga incontro per darci una mano. La nostra storia personale la facciamo da soli, coloro che sono gli altri e che, se si è fortunati, ci sono vicino, non sono l'ossatura portante, pur contribuendo ad essa in modo significativo con la loro presenza e il loro amore per noi.
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