conoscenza come concretezza e percorso, per nutrire la mente e favorire libero pensiero per la ricerca della consapevolezza, più semplicemente, rendersi conto di ciò che ci circonda ed usarlo come specchio per conoscere meglio se stessi
sabato 31 marzo 2012
Sotto la pelle della gelosia
Nello specifico vorrei dire qualcosa a proposito di quello che ruota attorno alla gelosia che prova una donna nei confronti di un'altra donna, in campo sentimentale. Parlo dunque analizzando qualcosa che mi appartiene, poiché l'ho provato, ma ci è voluto del tempo per inquadrarlo abbastanza bene da non irritarmi ogni volta che sfioravo il pensiero. La padronanza del sentimento e della comprensione acquisita è ancora imperfetta e ammetto che potrebbe accadermi ancora di soffermarmi in superficie, senza andare oltre, senza esplorare tutto quello che si trova sotto la pelle della gelosia, ossia in quel luogo dove alcuni pensieri, e di conseguenza i punti di vista che li generano, si modificano un po'. Tutto parte da come vediamo noi stessi in relazione alla situazione. Provare dei sentimenti per qualcuno, a parte ammettere la complessità di ciò che si prova dovendola raccontare, mette anche in discussione chi siamo e come siamo. Per qualcuno questo fatto è più consapevole, per qualcun altro rimane a livello più inconscio. Però tutti quanti reagiamo con un moto dell'animo dando voce al dolore, con più o meno eleganza, gridando o agendo anche malamente laddove la forza delle parole non ci sembra poter rappresentare al meglio ciò che stiamo provando, un po' come fanno i bambini piccolissimi che riescono ad esprimersi solo tramite il pianto in tutte le sue gamme di strepiti. Questo moto dell'animo che si manifesta sotto forma di gelosia è formato da più di un sentimento. Finché lo si vive perché la ferita fa male, si vede tutto di un colore solo, quasi uniforme. Se si riesce ad avere abbastanza forza interiore, e si riescono a domare l'animo irrequieto e l'ego apparentemente umiliato, può crearsi una fessura che permette di vedere oltre la superficie. Sostanzialmente, nella mia gelosia, si nascondeva il dispetto nei confronti di me stessa per l'invidia, in parte inconsapevole, nei confronti dell'altra che ho poi compreso essere, a sua volta, lo schermo di un diverso sentimento, strano doverlo ammettere, ma ciò che ho sempre provato era ammirazione. Questa ammirazione fa scatenare una rabbia contro tutto e tutti perché porta a galla la consapevolezza della percezione di noi stessi per come sappiamo essere davvero. E certi guizzi inconsci, sapendoli leggere senza mentire a se stessi, parlano con una sincerità disarmante, raccontandoci come siamo anche quando non lo vogliamo ammettere. La reale sofferenza di una donna non è davvero l'essere messa da parte, quello è solo l'alibi per non mettersi a guardare che, se si perde l'ammirazione di qualcuno, è perché abbiamo smesso noi per prime di farlo nei nostri confronti. La stima di se stessi non la si perde quasi mai volontariamente, ci sono sempre migliaia di cose in mezzo che ci fiaccano e ci fanno così dimenticare come si fa a splendere da dentro. Io sono sempre stata sgraziata nei movimenti e spesso anche nei modi, disattenta al mio involucro esterno perché perennemente concentrata ad ascoltare e decifrare il mondo di dentro così, anche solo immaginare la competizione con una donna che incarna una sorta di modello al quale inconsciamente si vorrebbe tendere, ha scatenato la reazione. E vedere l'altra essere se stessa emanando la sua bellezza interiore, mentre tu ti senti una palla piena di spigoli, fa deragliare il pensiero. E' qui che nasce l'invidia ed è qui che, contemporaneamente, si dimentica che ciò che si sta vedendo è una cosa bella che suscita ammirazione. Se l'invidia e l'ammirazione fossero prese come riferimento per comprendere, senza cedere al lato oscuro di vendette o mere imitazioni, si avrebbe un modello al quale guardare per rendersi conto di come siamo e di come vorremmo essere. Il segreto, nemmeno poi così segreto secondo me, poiché di semplice constatazione, è l'essere se stessi davvero. Ed è nella parola "davvero" tutto il valore della consapevolezza. Una donna, così come un uomo, che comprende la sua peculiarità, inizia a distinguersi e, se vuole, può così competere con gli altri poiché nel suo bagaglio ci sarà qualcosa di unico che nessun altro avrà. Così si compete davvero e con sincerità, anche se va messo in conto che proprio per queste peculiarità, che portiamo alla luce accettandoci come siamo, potremmo anche essere scartati. Da notare che è la paura di essere scartati che ci fa desiderare di assomigliare a qualche modello preesistente, facendoci rimandare il confronto con noi stessi e facendoci ignorare come siamo e ciò che potremmo valorizzare di quel che abbiamo in dotazione per natura. Il mio percorso è ancora in costruzione ma sono riuscita a vedere cosa c'è sotto la pelle della gelosia e questo non è poco. Se ciò che si scopre e si capisce riesce a rimanere accanto a noi alla luce del sole, senza tornare in qualche meandro nascosto delle cose sapute ma dimenticate, allora in piccola parte si rende giustizia alla persona che non potevamo sopportare a causa della gelosia provata, perché è stata per un istante il nostro specchio per l'anima. La stima di se stessi è il valore che ci diamo e nessuno dovrebbe avere la forza di abbatterlo.
mercoledì 28 marzo 2012
Due viandanti con lo zaino sulle spalle
Il dono che la sintesi fa agli esseri umani è quello di poter vedere qualcosa di complicato, da descrivere tramite le sole parole, mediante un'immagine rappresentativa. Ogni tanto aggiungo un pezzo all'immagine come fosse il tassello di un disegno intarsiato. In questo modo porto avanti la comprensione delle cose, ovviamente secondo il mio punto di vista. In questi giorni ho finito di leggere un libro che mi ha fatto vedere meglio l' immagine che porto con me da molto tempo a proposito di come vedo la coppia. L'immagine è quella del titolo di questo post. Un viandante è una persona che procede a piedi lungo un cammino che può comprendere una meta oppure no. La cosa principale è dunque il procedere lungo un percorso e questo il viandante lo fa. La scelta di camminare a piedi significa che non si ha fretta di arrivare da qualche parte e che si accetta il percorso con tutte le sue difficoltà. Si spera in un buon paio di scarpe robuste ma si potrebbe procedere anche a piedi nudi, se fosse necessario, per comprendere meglio la pelle del pianeta o per mettere alla prova il coraggio personale o la resistenza fisica. Una specie di partita leale con la vita. I due viandanti sanno che non troveranno sempre un percorso in pianura e sanno che insieme potrebbero arrivare dove ciascuno dei due da solo non potrebbe arrivare. Anche se non è detto, ma questa è un'altra storia. Comunque sia qui su questa strada ci sono due viandanti che procedono fianco a fianco, talvolta prendendosi per mano, talaltra stando semplicemente vicini. Procedere insieme in questo modo permette a entrambi di vedere la strada davanti a loro, così nessuno dei due impegna esclusivamente lo sguardo dell'altro con la sua presenza. Eppure possono camminare guardandosi negli occhi per scrutare reciprocamente nell'animo altrui e, magari, perché no, potrebbero parlarsi, senza proferire parola, solo tramite lo sguardo. Davanti a loro si apre la strada e il cuore la illumina quando la luce intorno si affievolisce. Dietro di loro c'è il percorso fatto e negli zaini, oltre al carico personale, si aggiunge la memoria. Cosa contengano gli zaini ciascun viandante lo sa ma, qualche volta, uno di loro potrebbe dimenticarlo così, nell'incessante procedere, il compagno di viaggio che può vedere lo zaino sulla schiena dell'altro può anche aiutarlo a ricordare o a gestire parte del carico che ha. Entrambi sanno che lo zaino che ciascuno ha in dotazione da sempre fa parte della stessa vita e del cammino perché lì dentro c'è tutto ciò che serve per andare avanti. Talvolta ci si può scambiare il carico per un breve tratto o si può avere il permesso di aprirlo per attingere da esso anche se non è il nostro zaino. E se accadesse un giorno di esser disperati, perché si crede di aver perduto qualcosa di importante, ci si potrebbe sorprendere nell'ascoltare, dal compagno di viaggio, che ciò che stiamo cercando è appeso allo zaino. Così i due viandanti si amano, proteggendosi a vicenda rammentando e indicandosi l'un l'altro ciò che momentaneamente non si riesce a vedere solo perché viene portato dietro da tanto tempo. E' così che, secondo me, la vita e il suo cammino assumono un senso speciale e rendono le cose più vive e ricche di significato, per continuare ad imparare donandosi qualcosa reciprocamente. Tutto il resto non è fatica a meno che non si classifichi ciò che si prova come un peso, è il respiro della vita assieme al battito del cuore o, meglio, dei cuori di chi condivide il cuore più grande del percorso.
Momento
Un momento è definito come un minimo lasso di tempo. Entro questo tempo può accadere qualsiasi cosa mentre la memoria scrive il suo appunto mentale. Come si dice, ci sono momenti belli e momenti brutti. Eppure, cercare di descrivere una porzione così breve di tempo, potrebbe richiedere centinaia di parole e altrettanti pensieri concatenati. La ricchezza di un momento, così come quella del più breve istante, è fatta di ciò che riusciamo a comprendere di esso e di tutto quello che ricordiamo. Procediamo camminando nella vita portando con noi la valvola dei sentimenti sempre attivata, quindi ogni momento che ci sembra più intenso di altri si lega alla memoria tramite ciò che proviamo. Normalmente si tende a vivere notando alcuni momenti particolari solo dopo che sono esistiti, poche volte mentre esistono, e questo forse perché non mettiamo costantemente in conto che ogni momento che viviamo è innegabilmente irripetibile. Ci sono sempre una marea di altre cose da fare e da pensare e si vive proiettati sempre un passo oltre quello realmente presente, così il momento smorza i suoi colori, si fa ugualmente ricordo in noi ma con meno nitidezza. E quanto riusciamo a ricordare dipende dal valore che diamo al momento stesso che si sta vivendo. Se lo giudichiamo cosa da poco ce ne scordiamo quasi subito. Poi però accade qualcosa e si comprende il valore di ogni momento già trascorso, che non tornerà mai più, e si darebbe qualsiasi cosa per rivivere il momento che ci lega, tramite la memoria, a qualcosa o a qualcuno di importante. Ci si sente così stupidi per esser stati disattenti, impotenti a cambiare il corso di ciò che è stato e, nel presente, si ha solo un sentimento con mille diramazioni che vibra di malinconia, di vuoto, di senso di colpa, di dispiacere, di consapevolezza dello scorrere impietoso del tempo. Se avessimo la possibilità di conoscere in anticipo il futuro, come ci relazioneremmo con gli altri? E, soprattutto, come tratteremmo le persone che amiamo? Quando provo a immaginare questa scena vedo cosa non vorrei fare. Non vorrei trovarmi a vivere pensando ad altro mentre sto facendo qualcosa o sto avendo a che fare con chi amo. Un abbraccio, il semplice condividere un qualsiasi momento che fa parte del quotidiano, anche fosse la solita routine, non è mai privo di valore né di peso dentro alla memoria del cuore. Oggi ci siamo, perché non approfittarne per godersi il momento?
lunedì 26 marzo 2012
Brivido di consapevolezza
Solitamente la consapevolezza è un fluire di energia che nasce nel momento in cui il frutto che abbiamo curato giunge a maturazione, tanto per esprimersi metaforicamente. E' un fatto positivo in genere, più o meno di impatto, più o meno in profondità. Ma quando, come nel caso di un fatto violento che avviene vicino a noi, nasce un brivido per la consapevolezza, si resta interdetti. Va bene, oggi non sono passata da quella strada, ma di solito ci passo. Va bene, una volta accaduto ci sono pochissime probabilità che accada di nuovo proprio lì. Va bene, la vita espone continuamente a qualsiasi tipo di pericolo però... però mi scorre lo stesso un brivido leggendo la notizia che oggi, proprio nella strada che capita di percorrere, un uomo ha sparato ad un altro uomo, le notizie dicono che era il fratello. Oggi ero da tutt'altra parte ma sconvolge questo soffio che sfiora così da vicino. Al di là del chiedersi cosa sia questa strana cosa della casualità che un giorno, all'improvviso, un atto così violento passi e porti via la vita di qualcuno, resta una consapevolezza che vibra in un modo particolare. Una consapevolezza che in certi casi dovrebbe svegliare un po' tutti per interrogarsi urgentemente se va bene risolvere le questioni per mezzo di una qualsiasi arma. La prima volta che ho visto una pistola dal vero, non in tv, è stato nemmeno tanti anni fa, nella fondina di un poliziotto. E anche se quel pezzo di metallo, dalla potenzialità mortale, stava in silenzio dentro una fondina, alla vita di un uomo che difende la giustizia, un brivido c'è stato anche quel giorno. Il brivido era il pensiero legato all'ipotesi di ciò che potrebbe accadere. Come si fa a non accorgersi del dolore che scaturisce dall'impatto di un colpo rapido, più di quanto un uomo lo potrebbe naturalmente essere mai, di un pezzo di metallo dentro la carne. E se vi state contorcendo dentro a leggere queste parole come fate a non combattere ogni istante della vostra vita contro qualsiasi forma di rabbia e violenza? Come si fa a non cercare soluzioni alternative pacifiche? Perché non si cerca il dialogo che permetta di combattere su di un campo di battaglia fatto di conoscenza e comprensione reciproca, soprattutto ricordando che può essere successo a noi in passato o potrebbe accadere a noi in futuro, di trovarsi nel punto di lotta per il motivo considerato. E che importa se le questioni si prospettino da risolvere in un tempo lungo? Un colpo di pistola è rapido e veloce e segue lo scoppio di dentro ma non è mai la soluzione. Mai, perché se si uccide la vita non resta più nulla per cercare la soluzione. La soluzione facile, da sempre, è quella che piace di più, e mi chiedo perché. Perché piace di più la meta del percorso? La ricchezza di informazioni è nel cammino, la meta è cosa secondaria. Comunque, per non uscire dal tema, torno a dire che vivere in un mondo dove si debba sentire spesso un brivido di consapevolezza come questo non è un mondo sano. Soprattutto se percorrendo quella strada non sono sola, perché con me c'è una piccola vita che dovrebbe avere diritto a imparare solo i colori della consapevolezza, non le ombre dei brividi di una paura causata da qualcuno di cui, normalmente, ci si dovrebbe fidare, perché parte del gruppo umano al quale si appartiene.
venerdì 23 marzo 2012
Cos'è un figlio
I più attenti dovrebbero aver già notato qualcosa sulla quale discutere, leggendo il titolo. Se, come me, pensate che un figlio sia "chi" invece di "cosa", ci sarete arrivati. E la definizione vale, con la sua sfumatura, anche per gli adulti. Prima di essere "cosa", siamo "chi", ossia creature vitali con una personalità ed unici e irripetibili, con potenzialità da riconoscere e sviluppare. A maggior ragione questo vale per un figlio, che è un nuovo essere umano e non un oggetto che abbiamo creato. Non fraintendetemi, mettendo al mondo dei figli, il fatto di averli prodotti materialmente permette di credere che ci appartengano, ma qui deve nascere la distinzione, che diviene l'anima del rispetto per il nuovo nato. Il senso di appartenenza è viscerale ma la mente, che controlla alcuni concetti, dovrebbe suggerire che la parola "mio", per un figlio, comprende solo un riferimento. Tutto ciò che discende dal concetto di possedere, appartenere come oggetto, inquina il rapporto con un altro essere umano. Un figlio è dunque un essere umano che esiste poiché qualcuno ha favorito la sua esistenza e qui si dovrebbe vedere la grandezza del dono della vita che si dà e che ci viene dato. Spesso mi esprimo tramite metafore, immagini che sintetizzano dei concetti, in questo caso mi piace pensare che ogni essere vivente che partecipa alla vita, accettandola, e dandola a sua volta, sia come un magico giocoliere luminoso dai colori dell'arcobaleno, che mantiene in volo tutte le cose che deve gestire, toccandole senza mai farle cadere, mantenendo così il ritmo più grande della vita stessa. E questo lo sanno fare tutti e tutti lo fanno comunque, in un modo o nell'altro, anche se la vita talvolta ci priva di alcune capacità. Dare alla luce un figlio può avere molteplici radici, può essere molte cose, nel bene e nel male, però quello che esiste alla fine del percorso è un altro essere umano, su questo non ci sono dubbi. E se di questo essere umano che arriva in un luogo che non conosce, che tutto deve imparare, pensiamo che sia un oggetto, non sapremo aiutarlo a crescere né ad imparare a vedere se stesso come un essere umano, un individuo che partecipa alla vita insieme a chi c'era prima di lui e a chi verrà dopo. Un figlio non è una moneta di scambio, non è un pacco da spedire né da scartare, non è un fastidio né un giocattolo rumoroso, non è il bersaglio di qualsiasi voglia di vendetta o di rivalsa, non è uno contenitore dove riporre i propri desideri da realizzare se a noi non è riuscito, non è un errore da cancellare, semmai un dono da valorizzare che insegni all'adulto a rapportarsi con un evento di tale sconvolgente portata, comunque sia, poiché un figlio induce anche lo sviluppo del cuore di un genitore. E se un figlio crescendo non può, per qualsiasi motivo, produrre a sua volta un figlio, nel cuore e nell'anima di questo figlio cresciuto, nascosto dal dolore credo ci sia anche un seme di consapevolezza ricco di speranza, magari dimenticato, magari incrostato di dubbio e paura, però, questo seme, che potrebbe essere infinitamente piccolo, non è assente, perché è in dotazione ad ogni creatura vivente. Esso è fatto della forza che fa vedere le cose dolorose in modo da piegarle verso raggi di luce che provengono dalla conoscenza di ciò che si ha, e dal fatto che un "figlio" può essere qualsiasi cosa che noi stessi diamo con tutto il nostro cuore. E in questo è compreso l'impegno per creare benessere per un altro essere umano, anche se questo non è carne della nostra carne. Si potrebbe quasi dire che ogni prodotto del cuore è un figlio perché dove c'è amore, ci sono forza e luce sufficienti per sviluppare anche il sogno più impossibile da realizzare. Ciò che nutriamo con impegno ha la nostra forza e vibra di essa, così come accade per un figlio, quando lo mettiamo al mondo. Anche se un figlio è innegabilmente un parte di noi, ciò che gli dobbiamo è l'impegno a riconoscere che una volta venuto al mondo, sviluppandosi, non reclameremo, né rivorremo indietro il dono che abbiamo fatto, così quella parte di noi non ci apparterrà più e nemmeno ci mancherà perché si sarà trasformata in un frutto che può ancora insegnarci qualcosa. Se non lo lasciassimo sviluppare, favorendolo nei suoi bisogni, se fossimo ancora troppo attaccati alla sua forma così come l'abbiamo conosciuta, e volessimo continuare a vederla senza modifiche, il dono non sarebbe più totale e l'egoismo prevarrebbe. Ma un figlio, sintesi del concetto della discendenza che lasciamo a chi verrà dopo di noi, in qualsiasi forma sia, se lo avremo ben curato e amato, ci mostrerà un giorno, chi siamo noi stessi e qual'è il nostro sogno.
giovedì 22 marzo 2012
Non esistere più per qualcuno
Qualche volta accade. E' accaduto anche a me, tempo fa. Quello che non mi fa dimenticare l'impatto non è mai stato il sentimento dell'offesa, del tipo "come osa tizio o caio eliminarmi, chissicredediessere!" con conseguente pensiero di spedire il tizio o caio di turno in uno di quei luoghi sempre menzionati quando qualcuno ci fa arrabbiare, ho provato solo dolore, sempre. Questo dolore profondo ha assunto molte sfumature come il passaggio cromatico degli ematomi con il passare del tempo. Oggi, non so bene per quale congiunzione astrale, se volessimo crederci, ho ripensato per l'ennesima volta a questo fatto. Oggi, però, questo pensiero è stato accompagnato dalla consapevolezza che capita anche ad altre persone, così come è già accaduto in ogni tempo e luogo. Non che prima non ne fossi consapevole, prima ero solo più concentrata sul dolore che provavo io. E lo stesso non è diminuito il dolore ma ho un po' più forza per poterlo gestire, anche attraverso queste parole che sto scrivendo. E quello che vedo è sempre lo stesso, il pensiero di fondo che accompagna anche la mia esperienza, al di là dei motivi che sono diversi per ciascuno, è il tempo e come esso si piega in questa occasione. Quando i giorni iniziano a trascorrere dal fatto che decreta la non esistenza, il tempo, se la ferita del cuore non riesce a rimarginarsi, cambia il suo ritmo. La Terra ancora girerà, vedendo il sole alba dopo alba e tramonto dopo tramonto ma coloro che non esistono più per qualcuno hanno un sottilissimo filo che li tiene legati al ricordo del litigio. E percorrono questo filo più spesso di quanto vorrebbero, avanti e indietro da quel giorno al momento presente, per capacitarsi, per interrogarsi, per capire quanta colpa si ha, quanto si è ferito l'altro che non ci vuole mai più vedere né sentir nominare, chiedendosi all'infinito come sia possibile che non si possa farsi perdonare e si sbatte contro una roccia talmente dura da sfinirsi. E mentre si sbatte contro questi pensieri con tutto il carico di dolore e colpe, e con la speranza praticamente inesistente di recuperare un qualsiasi dialogo, ci si sente impotenti e stupidi per non riuscire a convincere il cuore dell'anima a smettere di sperare. E mentre si pensa questo, emerge la convinzione che il massimo del rispetto che si deve all'altro, sia lasciare le cose come stanno, rispettando il desiderio altrui. Poi si scivola in un altro pensiero, che suggerisce alla mente che, in questo infinito silenzio ad oltranza, ci siano due sole note per noi, che ancora combattiamo nel dolore, l'una è l'indifferenza che l'altro può provare nei nostri confronti mentre l'altra è l'odio, o qualcosa che gli si avvicina. E a questo punto non sai cosa preferire e, quando ci pensi, ti senti anche peggio. Se non esistono gesti e non esistono parole che possono essere dette, neppure quando il cuore mette in gioco tutto se stesso, non esistono porte né finestre né speranze. E, credetemi, non è un bell'ambiente. Così il tempo passa, passa, passa. E paradossalmente non passa mai veramente, anche se intorno ci sono cose che ne scandiscono l'andare e sono ben visibili e riconoscibili. Parte di questo dolore che provo io, al di là dello specifico, è la consapevolezza che aggiungiamo giorni su giorni vivendo ma, non essendo la vita eterna, ne restano sempre meno per vivere l'esperienza della pace. Quella pace che vorrebbe nascere nel punto più impervio dell'esperienza umana, dove si scontrano gli uomini su questioni importanti. Eppure, quando ripenso alla mia esperienza, mi chiedo se questo silenzio sia la misura del dolore che ho procurato in un cuore, o sia la misura della mia mostruosità fatta di incomprensione degli altri. E se, come oggi, capita di sentire che un'altra persona si chiede "cosa posso fare o posso dire per rimediare", da spettatore, la sofferenza riemerge, e vorrei gridare, non solo piangere. Com'è possibile che non si riesca a vedere che tutti, assolutamente tutti possiamo sbagliare, pur manifestando ciascuno le proprie ragioni nel momento del confronto. Ed è chiaro come il sole che entrambi hanno la propria ragione da difendere, altrimenti non esisterebbe il confronto, ma poi? Poi cosa si fa, cosa si prova dopo aver voltato le spalle con veemenza a qualcuno? Io so solo cosa prova chi resta a guardare la schiena di chi se ne va...
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