domenica 12 febbraio 2012

"Nel bene e nel male"

Oggi un amico mi ha dato lo spunto per una riflessione a proposito del rapporto di coppia. Mi è venuto in mente ciò che si promettono gli sposi sull'altare e mi sono soffermata sul concetto espresso nel titolo. Nel bene e nel male sembra solo una frase di rito ma credo che rappresenti bene l'essenza dello stare insieme a qualcuno seriamente. La profondità dei sentimenti reciproci dovrebbe essere il fulcro su cui tutto il resto ruota e si adatta mentre si naviga nella vita. Avrei potuto dire anche "si cammina nella vita" ma ho scelto appositamente il termine naviga per rendere meglio l'idea del movimento alternante quando il mare si ingrossa mentre arriva la tempesta. Tempesta che può essere un litigio o un periodo della vita in cui ci si perde un po' rispetto alla rotta normale. Non è detto che la tempesta porti sempre al naufragio specialmente se si può contare sulla robustezza dell'imbarcazione. La forza che tiene unite le assi di questa imbarcazione è la volontà di superare gli ostacoli insieme e più è il convincimento di ciò maggiore è la capacità di resistere alle intemperie. Le assi che ogni coppia usa per la propria imbarcazione sono le cose che essi condividono, ciò che hanno e ciò che sognano insieme. Se accade che un'onda più forte delle altre arrivi a sconquassare lo scafo, se non entrambi, almeno uno dei due dovrebbe provare a ricordare che in un angolo al riparo dalle onde, ancora all'asciutto, c'è ciò che si sta cercando per salvarsi. E questo qualcosa credo sia la capacità o anche solo il desiderio che vibra nel cuore di non ristagnare nell'ovvio, o anche solo la memoria di ciò che ha unito entrambi la prima volta che si è detto di sì. Il mio amico mi parlava del potere di sopportazione, del limite che talvolta si raggiunge in determinate occasioni di stress continuativo, della riflessione sul salvare se stessi dal patimento quando la misura si colma o le forze si assottigliano. Io ho controbattuto perché credo nell'andare oltre non ignorando o lasciando correre ma mettendosi lì, con tutto l'amore che proviamo per il compagno in questione, a vedere cosa si può fare o non fare, dire o non dire, ma soprattutto a vegliare se l'altro è stanco o arrabbiato o sofferente. Entro questa dose di amore è compresa la pazienza che non si esaurisce mai poiché è l'amore profondo che la alimenta. Due compagni di vita spesso sono anche l'uno il migliore amico dell'altra quindi, a maggior ragione, sono due volte legati sentimentalmente e questo, secondo me, non è cosa da poco. Quando qualcuno mi dice che sta rasentando un limite mentale mi trovo a pensare che non trovo scritto da nessuna parte che esso non possa essere modificato. Certe rotture o incomprensioni varie sono quasi sempre originate da questo fatidico limite che sappiamo essere in noi, e lo sappiamo perché quando qualcosa sfiora certi punti nevralgici si mette in moto un meccanismo che ci fa dire che più in là non si può andare. I più attenti avranno notato che ho scritto "può" e non "vuole", perché il volere o meno oltrepassare un limite implica una consapevolezza più approfondita di ciò che attende una nostra decisione in merito, ove si sappia già cosa c'è oltre il limite. Pensare che un limite non può essere oltrepassato rientra in una categoria lievemente diversa, fa parte di ciò che crediamo di noi e si basa spesso sulla percezione delle proprie forze. Laddove si pensi al non potere superare il limite credo si possa allora collocare un terreno che permette esplorazione per il semplice fatto che non si sa per certo cosa ci sia al di là, mentre la forza per affrontare tale esplorazione dovrebbe essere ciò che si prova per la persona amata. Laddove non si voglia superare il limite vedo un freno che esclude a priori il germogliare ex novo di un guizzo del cuore affievolito per colpa del mare mosso. Le guerre nascono a causa di incomprensioni, non ultima quella che riguarda la valutazione del proprio limite di sopportazione. Eppure, ogni volta che ci penso, se vedo comparire il termine sopportazione mi domando inevitabilmente dove sia andato l'amore vero e profondo, quello che si ricorda sempre nonostante tutto, in qualsiasi occasione. Che davvero la stanchezza possa lasciare che venga rubato dalle frasi della vita? Non riesco a crederlo, mi spiace... Debbo però, come spesso accade, domarmi da sola, ricordando che ciascuno ha il suo punto di vista e che questo è la sua stessa vita, mentre io posso soltanto accalorarmi per l'argomento quando vedo che i marosi tentano di affondare qualcosa di bello. Credere nell'amore sincero e profondo che lega due persone vorrei che fosse sempre il mio bastone magico che mai si piega né si spezza.

mercoledì 8 febbraio 2012

Con te non ci gioco più!

Questa è la migliore arma che hanno i bambini per difendersi. Prendere le distanze da chi ti fa stare male, ristabilire i propri confini per non soccombere, si riassume bene così anche da adulti, sebbene la vita non sia un gioco. Un bambino non sa ancora come districarsi nella lettura delle proprie emozioni, ma sa che ciò che prova in quel preciso istante è di vitale importanza e a quello rivolge tutta la sua attenzione per proteggere se stesso. Poi si cresce, o almeno così dovrebbe essere, ma molte volte l'età anagrafica non garantisce che certe reazioni si modifichino. Alcune restano e fanno parte del bagaglio che ci portiamo dietro nel corso della vita. Ma da adulti, nonostante il fatto che si possano usare le reazioni di quando eravamo bambini, entrano in gioco altri fattori a complicare le cose. Crescendo dovremmo essere capaci di distinguere tra i vari fattori che portano al determinarsi di una data situazione, tra atti volontari e involontari compiuti dalle persone con le quali ci relazioniamo, cosa che da bambini non accade. Da piccoli sappiamo a chi vogliamo bene e chi ci sta antipatico e sappiamo che se è l'amico a farci uno sgarbo o a procurarci dolore il sentimento di rabbia o perfino di odio che proviamo è più intenso perché siamo delusi. Da bambini, arrabbiarsi fino a questo punto, porta in sé anche la capacità di riprendere a giocare da dove si era smesso bruscamente, magari non subito, ma in breve c'è speranza che i due che erano amici tornino ad essere tali. Forse perché a quell'età certe emozioni si vivono intensamente e, non avendo pensieri troppo mentalmente articolati, si lascia che le cose siano finché non ci si stufa del broncio e si torna a correre insieme. Forse la capacità di perdonare, in questo caso, non è il perdono come lo intendono gli adulti, ma è una capacità che gli adulti perdono col troppo pensare, è vivere istante per istante ascoltando quello che si muove dentro e che fa muovere il fuori di conseguenza. Una sorta di freschezza che si perde con il crescere se si preferisce usare troppo la testa. Da grandi, al posto delle pause nel gioco, troviamo contusioni, fratture, ferite, punti sui quali si smette di voler discutere perché la ragione che ci anima vuole prevalere a tutti i costi. Qualche volta questo desiderio di far valere a tutti costi qualcosa è la giusta battaglia ma altre volte non lo è, e riconoscere di quale caso si tratta è parte integrante dell'insegnamento che la vita offre. La mia personale sofferenza nel vedere qualcuno che si chiude a qualsiasi dialogo deriva dal fatto che credo nella comunicazione e nella chiarezza di espressione. Non mi piacciono le mezze parole né le mezze frasi né qualsiasi cosa che non affronti anche a lungo la questione, magari è un difetto questo più che un pregio, forse solo la mia caratteristica, ma spalle voltate o silenzi a oltranza mi fanno stare male. Ogni volta che vedo amici che smettono di parlarsi, o lo sento dire di genitori con figli, una parte del mio cuore accusa un colpo perché vedo la sofferenza del tempo, oltre alla sofferenza che porta a tale gesto. La sofferenza del tempo è la tangibile consapevolezza che esso non è infinito e ogni giorno trascorso, rifiutando un dialogo, lo trovo un giorno rubato in qualche modo allo scorrere e alla crescita interiore. Poi, però, dopo aver lasciato lacrimare un po' l'anima vedo altre cose che fanno parte di tutto il discorso. Vedo che la persona offesa, nel senso di ferita, non può essere biasimata per la propria difesa perché, se così si facesse, ci troveremmo a combattere una inutile battaglia per dare la vittoria al guizzo egoista del mettersi il cuore in pace, che proverebbe colui che ha originato il danno, nel vedere sanarsi lo strappo. Colui che ferisce può appartenere a due categorie, quella di chi lo fa consapevolmente e quella di chi si muove urtando accidentalmente. Per la prima categoria non c'è giustificazione, se non quella che si potrebbe trovare sotto molti strati da scavare, alla ricerca di un motivo che porta a fare volontariamente del male a qualcuno, o a volte è solo così, anche se preferisco pensare come l'attuale Dalai Lama quando dice di ricercare sempre la radice di qualsiasi sofferenza per poter comprendere l'altro senza pregiudizi ma, soprattutto, per comprendere dentro di noi il valore del perdono, sia da offrire agli altri sia da rivolgere a se stessi. Coloro che, invece, si muovono urtando accidentalmente, non partono con l'intenzione di fare del male alla persona che amano, anzi, se riescono a rendersene conto subito stanno male se non possono riparare al loro errore. A volte questa presa di coscienza non è immediata ma, quando accade, la cosa che si vorrebbe di più, da quel momento in poi, sarebbe poter stringere di nuovo le mani che non ci sono più e la forza di questo desiderio è proporzionale a ciò che si prova per la persona in questione. Ma, come dicevo, il percorso di coscienza fa vedere altre cose. Fa capire che la soddisfazione personale, che si proverebbe nel vedere un nuovo dialogo, non è importante come il reale benessere che prova chi è stato ferito nel proseguire il suo cammino senza la persona che gli sta chiedendo perdono. Il perdono non si dovrebbe mendicare, ma solo chiedere con tutto il cuore una volta e quella dovrebbe poter essere sufficiente. Se non c'è più alcun dialogo, né l'uno sa più nulla dell'altro, il tempo può passare anzi, quasi sicuramente, è passato in modo diverso per entrambi. Uno dei due può aver dimenticato mentre l'altro può vivere inciampando spesso nel ricordo della ferita inferta o ricevuta. Anche questo fa parte del difendere se stessi per proteggersi. Il mio modo di confrontarmi con le cose non me le fa ignorare mai sebbene talvolta sia utile metterci una pietra sopra, con la speranza che la pietra sigilli il dissolversi di un'ombra e non il cuore o l'anima o la presenza di qualcuno. Io, in quel giardino d'infanzia, vorrei che tutti i bambini continuassero a giocare nonostante qualche incidente di percorso, che la forza del loro animo brioso e i loro sorrisi fossero il tesoro prezioso che rimane anche da grandi quando potrebbero trovarsi a dire "con te non ci gioco più!" ma non lascerebbero poi che questo divenisse un muro così isolante da non concedere più niente. Ma questa è solo una riflessione, un'isola, nella realtà da prendere come si presenta, perché tornando indietro non lascerei che il tempo inghiottisse i giorni così come ha fatto, forse avrei dovuto combattere di più, ma la nota dell'insistenza era già stata suonata anche troppo così anch'io ho lasciato tutto così com'era. E quando non c'è volontà al nuovo dialogo, quando non si vuole e basta, non si può fare altro che lasciare che le cose stiano come stanno, perché sarebbe violenza forzare dove viene opposta resistenza con tanto sentimento. E qui, proprio qui, dove l'altro arriva a vedere questa scena, dove arriva anche il cuore, trovare questo megalitico rifiuto fa abbassare il capo come se una parte della dolcezza che risuona in ogni creatura fosse stata sconfitta senza appello. Che si può dire di più, che si può fare? Ci si arrende se è nella natura di chi guarda farlo oppure si continua ad amare in generale o in particolare. Si convince il proprio cuore che quella volontà così ben esercitata sia di sostegno e mai d'intralcio e questo dovrebbe rendere meno duro accettare la decisione altrui, insieme a tutto ciò che si riesce a comprendere del punto di vista che non ci appartiene. Se poi quel bambino ormai adulto non riuscisse a capire cosa fare e reagisse pur non volendo in quell'unico modo che conosce, sebbene non sia da scusare totalmente per questo, tutto sommato sarebbe da amare lo stesso perché fa parte del dialogo del cuore andare oltre fino a comprendere le reciproche ragioni ma anche, e non meno importante, a ricordare che sia da bambini che da adulti quello che conta è ciò che sentiamo e ciò che ci unisce gli uni agli altri, se ci riconosciamo qualcosa di positivo, nonostante tutto.

La pulizia del proprio tavolo di lavoro

Ogni volta che capita mi stupisco che sia così vero e quasi immediatamente mi stupisco del fatto che me ne stupisco. Mi riferisco al fatto che è facile constatare che si lavora assai meglio quando non c'è disordine tra gli oggetti che si stanno usando. Eppure, finché non si mettono a posto le cose, così da trovare tutto ciò che serve in modo ottimale, quasi non ci si rende conto dell'utilità dell'ordine. Non so se capita anche a qualcuno di voi ma, mentre sono lì a far qualcosa usando più strumenti e materiali e li sposto, poi li riprendo e li sposto di nuovo, li accumulo gli uni sugli altri, mi ritrovo davanti agli occhi un caos e perdo tempo a cercare quello che due secondi prima era lì a portata di mano, così mi ricordo che dovrei impegnarmi a muovere le cose con più attenzione. Immagino che talvolta l'estro creativo non si possa permettere di passare attraverso questa disciplina ma se anche per questa volta chiudiamo un occhio sarebbe bene, alla fine, dedicare un po' di tempo anche al ripristino dell'ordine e della pulizia. Ricordo una lezione al laboratorio di citologia, molti anni fa, era, se non ricordo male, il primo giorno e il professore ci spiegò l'importanza dell'avere uno spazio di lavoro sempre in ordine e pulito. Ci stava insegnando ad organizzare la testa e a coordinarla con le mani e la volontà per poter lavorare sempre in modo da non fare pasticci inutili. Fu un buon insegnamento per quanto mi riguarda, anche se il più delle volte mi ritrovo a lavorare in ambiente ristretto e dunque non posso essere ordinata. Diciamo che, tutto sommato, riesco a gestire lo stesso le cose, anche se non impeccabilmente come vorrei. Stasera, mentre ripensavo a ciò che ho costruito durante il giorno, lavorando sul mio tavolo abbastanza ingombro di materiali vari, mi sono trovata a fare un parallelo con la vita, o meglio con ciò che non vorrei fare nella vita. Non vorrei dimenticarmi delle cose che ritengo importanti, così da lasciare che altre che lo sono meno vi si ammassino sopra, senza che sia questo un mio specifico desiderio. Non vorrei spostare troppo lontano dalla portata della mano una cosa necessaria solo per distrazione. E anche se vorrei sempre sapere dove trovare tutto ciò che mi serve non vorrei avere un tavolo asettico per eccessivo ordine maniacale. Vorrei l'equilibrio e vorrei avere le cose indispensabili e vorrei sempre poterle scegliere. Non sarebbe importante se fossero poche, anzi, in certi casi, avendo meno a disposizione, si riesce a vedere meglio, così saprei come gestirle. Troppe cose e in disordine confondono la mente e i desideri così come le reali necessità, facendo perdere di vista perfino le risposte più ovvie. Cercare di sapere cosa si vuole dalla vita e da noi stessi è una domanda complessa ma un indizio verso la risposta, per me, è fare ordine sul mio tavolo da lavoro per ricavare spazio, anche se non so cosa ci metterò o come lo utilizzerò. Come una pagina bianca che può accogliere parole non ancora scritte, come un tempo prezioso da trascorrere con chi ami.

domenica 5 febbraio 2012

Una casa calda

Anche se in questi giorni l'Italia è nella morsa del gelo siberiano, la mia idea di casa calda va oltre la presenza di un impianto di riscaldamento efficiente. Si dice che le persone che nascono entro la sfera di influenza del segno zodiacale del Toro amino le comodità e che le donne, in special modo, amino il focolare domestico. Probabile che ci sia qualche sfumatura vera in tutto ciò, mi ci riconosco abbastanza, anche se non completamente, in questa descrizione... Ciò che amo di più in una casa è la cucina, non l'angolo cottura, ma la cucina come stanza, dove ci sia posto per ogni cosa e spazio a sufficienza. A pari merito con la cucina amo il caminetto. Ecco il focolare :-)
Una casa però è soltanto pareti fredde, muratura di vario genere, impianti e anonimato se chi ci vive non la fa vibrare con un calore che viene da dentro l'anima. Si può abitare da soli o in compagnia ma se non impregniamo le pareti con la nostra essenza, con la nostra vitalità, il nostro amore per ciò che abbiamo scelto pezzo per pezzo, la casa che abitiamo sarà solo una costruzione che ci protegge dalle intemperie. Ma la cosa realmente importante credo sia un'altra. Quando non mi sentivo a mio agio nella casa dove da sempre abito, quando ero ragazzina, perché la vedevo stretta e non la sentivo mia perché era la casa dei miei genitori, volevo andare via, volevo cambiare tutto per plasmarlo in modo da riconoscere fuori parte di ciò che avevo dentro di me. Ovviamente ero troppo piccola per andarmene di casa quindi, l'unica cosa da fare, era comprendere come rimanere lì senza soffrire per un qualcosa che non si modificava secondo il mio desiderio. Volli provare a vedere le cose in modo diverso. Mentre riflettevo, capii che una casa non è solo quattro mura da arredare là fuori ma la vera casa è dove siamo, dentro di noi. La propria vera casa è un luogo interiore che non smetterà mi di venire ovunque decidiamo di andare, ci seguirà in ogni spostamento, da una casa in muratura all'altra, e si espanderà in essa per colorarla con la sua nota caratteristica, ossia ciò che amiamo e siamo. Questo pensiero lo porto sempre con me anche se qualche volta me lo dimentico e smanio per una casa in pietra in mezzo al verde piena di caminetti e con una bellissima cucina. In questi giorni me lo sono ricordato, vuoi per il gran freddo che c'è fuori, vuoi per il fatto che la compagnia di un affetto ti fa riaffiorare cose che spesso si danno per scontate. C'è poi ancora una cosa che ritengo importante e che contribuisce al calore di una casa, l'armonia tra coloro che ne condividono lo spazio. Non è realistico pensare che vi sia sempre allegria, amore e benessere, ma è altresì vero che ci si può impegnare per ridurre malumori e rabbie varie se si tiene al calore che deriva dall'armonia. Anche se si rientra in casa arrabbiati o delusi o stanchi o con un diavolo per capello, ciò che abbiamo dentro e che si lega a doppio nodo al cuore tramite il filo dell'amore, per rimanere saldo nella mente come proposito positivo per andare avanti nella vita quotidiana, deve volere che la giornata si concluda con dolcezza cercando la pace, non alimentando la guerra. E' un impegno grande come lo è tenere pulito ogni pavimento o finestra o tappeto della casa dove si vive. E' un calore più sottile quello che deriva da questo proposito del cuore ma alla lunga scalda le pareti più spesse e più fredde, anche quelle di un vecchio castello abbandonato. Il calore che scalda davvero una casa ce lo portiamo dentro sempre, anche se non ci crediamo. E quando siamo in due, a condividere un tetto sulla testa, il calore è fatto della volontà di ricercare la chiave della comunicazione meno superficiale perché si ama la pace più di qualsiasi guerra dell'orgoglio.

venerdì 3 febbraio 2012

Accarezzare l'idea

Si usa questo modo di dire quando ci piacerebbe che ciò che ci viene presentato si avverasse. In effetti qui siamo un passo prima della realizzazione di qualcosa. Siamo in quello spazio della mente che interroga i sentimenti per decidere se accogliere l'idea o meno dentro di noi per iniziare a crederci e a difenderla. Le circostanze invitano ad un avvicinamento e noi rispondiamo positivamente dirigendoci verso l'idea seguendo il filo sul quale appendiamo le speranze che, nella meta, vi sia ciò che vorremmo ottenere. L'idea alla quale ci si riferisce non è altro che un progetto o un sogno o un qualcosa che potrebbe essere come un singolo cambiamento che però ci piace. In perno di tutto è il fatto che ci piace altrimenti non accarezzeremmo nulla, anzi. A questo mi viene da associare il comportamento di un gatto che fa le fusa mentre si avvicina morbidamente. Quante volte, vedendo come un qualcosa potrebbe essere, ci troviamo ad accarezzare l'idea come se mantenere la mente attiva e concentrata sul pensiero ci avvicinasse maggiormente. Tutto quello che fa parte del mondo che ancora non è, come può essere un proposito, invita a pensarci per vederlo anche da altre angolazioni. E' un'attitudine umana la facoltà di elaborare mentalmente qualcosa, come se "masticarla" in questo modo aiutasse a renderla sempre più personale e dunque meno estranea. E' la teoria, questo spazio del pensare, che ci rende protagonisti della cosa in modo diverso rispetto a quando poi la stessa cosa la viviamo materialmente, mettendola in pratica. Accarezzare l'idea è un preliminare. Ciò che viene in seguito, mentre viviamo la realizzazione dell'idea che prima abbiamo accarezzato, permette di avere un po' meno tempo da dedicare al regno della mente. L'azione richiede una presenza diversa e, se mi passate la similitudine, direi un po' più tridimensionale rispetto a quando lasciamo che la fantasia galoppi, dato che anche il corpo partecipa.  Nel regno della mente, razionale o meno, non importa in questo caso, l'essere presenti non richiede null'altro se non libertà e meno confini possibile per elaborare i pensieri, e ciò può essere fatto anche mentre ce ne stiamo in poltrona, coinvolgendo assai meno il corpo. Così, accarezzare un'idea, induce talvolta ad indugiare piacevolmente nell'elucubrazione mentale, specialmente se l'idea promette grandi cose o promette di fare stare bene.

Essere immersi in qualcosa di grave

Grave significa anche serio, importante, intenso, doloroso, difficile da sopportare proprio in virtù del senso di "pesantezza" che suggerisce il concetto che vi è legato. Qualcosa di grave implica, talvolta, anche conseguenze non di poco conto. Una cosa grave, quando accade e coinvolge, lo fa in modo praticamente totale. Ci siamo immersi come fossimo in acqua e non tutti sanno nuotare o rimanere a galla. La serietà di quello che accade ha un potere su di noi e questo potere è quello di renderci capaci di ricordare tutto ciò che serve per rimanere in vita. E' come una freccia che punta dritta alla base di quello che siamo e, se non siamo chiusi o spaventati, la gravità nella quale si è immersi stimola una risposta dal profondo, che passa attraverso il rimettere in discussione parte del nostro universo conosciuto. E' richiesta una prova di forza ed è la stessa forza, che sviluppiamo come risposta, a forgiarci o a distruggerci, almeno questo è ciò che penso. Dove penderà l'ago della bilancia dipende da cosa troviamo in quel profondo che viene toccato dalla cosa grave che accade. Se ciò che troviamo è dolore intriso di rabbia, perché magari intuiamo debolezza in noi, sentendoci impotenti o incapaci a reagire, la forza dirompente dell'essenza della ribellione potrebbe, in questo caso, rivolgercisi contro, e l'ago segnerà la strada dell'autodistruzione, parlando all'estremo. Se, però, nonostante la rabbia e il dolore, ciò che abbiamo dentro è una tendenza di base a non piangersi addosso, la forza che porta con sé la ribellione permetterà di reagire, incanalandoci verso la resistenza o la rinascita. Qualsiasi cosa definita grave che accade nella vita ci scuote fin nelle fondamenta e ci impegna nella risposta. Non si tratta mai di una passeggiata, piuttosto potrebbe essere una scalata o un'immersione in apnea. Le cose gravi tolgono il sorriso, spengono quell'entusiasmo brioso senza pensieri che rende la vita un passaggio più leggero in questo mondo. Magari perdiamo la capacità di vedere bene e con chiarezza le cose, iniziando a dipingerle con colori diversi a seconda dei sentimenti che proviamo e, anche se stiamo lottando, non riusciamo a stare stabilmente in piedi. Potremmo avere bisogno di aiuto e potremmo saperlo oppure non rendercene conto, le diramazioni tra le sfumature delle singole esperienze sono molteplici. Ma la cosa che quasi mai si riesce a capire, mentre siamo immersi in qualcosa di grave, è che le soluzioni che cerchiamo, ma crediamo non siano possibili, esistono lo stesso, solo che non riusciamo a vederle. Le vediamo, se le vediamo, quando usciamo dalla situazione che ci coinvolge totalmente. E' la gravità stessa della cosa che stiamo vivendo a cambiare la visuale. Coloro che sono lì, immersi in essa, dipingono tutto ciò che vedono con l'unico colore che trovano a loro disposizione. Nella gravità, nella serietà di un qualcosa, c'è una pressione incredibile, difficile da affrontare e controbilanciare per poter riemergere in superficie per tornare a respirare. Non è però una lotta impossibile e uscirne non significa dimenticare o ridicolizzare la situazione o l'accaduto. Padroneggiare la propria esistenza entro la gravità di un qualcosa tira fuori ciò che si è davvero, quando si tende al positivo, perché si scopre di saper ridurre al minimo tutte quelle cose che comprendiamo essere superflue, vizi e abitudini obsolete comprese. Quando si dice che si tratta di una questione di vita o di morte si comprende subito il grado di gravità con la quale ci dobbiamo misurare, e con "questione di vita o di morte" non intendo il senso letterale ma quello metaforico, quello che ti mette nell'ordine di idee di avere solo un'occasione preziosa da non sprecare per decidere da che parte stare. C'è poi una distinzione ulteriore da fare, secondo me, tra un qualcosa di realmente, ossia oggettivamente, grave e ciò che crediamo essere tale. In verità ciò che cambia, in tale caso, è quello che viene visto da un osservatore esterno che vede se un qualcosa, nel quale ovviamente non è coinvolto, è grave o meno. Per chi vive la gravità della situazione, o crede che ciò che sta accadendo secondo la percezione che ha della cosa sia grave, non c'è differenza poiché il coinvolgimento totale unifica la visione. Ed è comunque una verità che ciò nel quale siamo coinvolti abbia sempre un peso diverso per chi lo vive piuttosto che per chi vi assiste soltanto. Credo che questa consapevolezza faccia la differenza nel momento in cui ci si trovi ad aver a che fare con qualcun altro, accanto a noi, che non vive la nostra stessa situazione o esperienza. Questa dovrebbe essere una delle basi della comprensione reciproca.