martedì 31 gennaio 2012

Ciò che ci appartiene veramente

Ogni tanto capita di riflettere su quello che abbiamo intorno per inquadrarlo dal punto di vista dell'appartenenza. Questo è mio, questo non lo è. L'accento viene immediatamente posto su quello che sappiamo essere di nostra proprietà. Anche da bambini, giocando, ricordo che l'attenzione andava alla cosa che avevamo. A me sembrava meraviglioso avere un dato giocattolo, o la tale bambola, semplicemente perché la cosa importante era che mi apparteneva. In quel "è mio" c'era tutto un mondo di sensazioni senza parole, acerbamente lì, ma fondamentali. Da adulta ho avuto cose di vario genere in proprietà esclusiva, ossia solo mie, ma erano piccole cose, oggetti, e tanti ne ho ancora, forse anche troppi. Quello che il percorso di vita non mi ha dato sono le cose più grandi, che ho avuto, e ho, praticamente solo in gestione. Spesso ci penso, specialmente quando sono giù di morale  e vedo che il tempo passa senza che sia riuscita a creare nulla di significativo, di concreto. Non ho una casa che sia solo mia, che rispecchi il mio essere e il mio gusto, il mio modo di vedere il mondo, ho però l'uso della casa dove ho sempre abitato e che divido con mia madre. Non ho altro luogo dove andare. La gestisco insieme a lei e sono fortunata ad avere questo anche se non mi appartiene. Non ho figli ma sono a contatto con dei bambini. Se serve sono presente e mi rapporto a loro anche se non sono miei figli. Non ho una macchina che mi permetta di viaggiare o di spostarmi dove e quando voglio, ho solo l'abbonamento alle linee pubbliche e sono abituata a gestire il mio tempo in base alla disponibilità di tali mezzi. Sono abituata da sempre a fare a meno di tutto se serve che sia così anche se ogni desiderio umano mi resta. Per lavoro, quando c'è, gestisco ciò che non mi appartiene. Oggi, come è accaduto altre volte, mi sono messa a riflettere sull'argomento e invece di vedere le cose con un vago dispiacere sono riuscita a vederle in una luce diversa. Ho visto che cosa conta veramente, ho visto il denominatore comune a tutte queste cose che appartengono e a quelle che sono solo in gestione. Il denominatore comune sono io. Io che sono ugualmente presente e in contatto con loro. Una casa ben tenuta che cos'ha di diverso se il proprietario sono io oppure è qualcun altro? Ciò che è stato fatto per la gestione della casa è ciò che mi ha insegnato a gestirla e io porto con me l'insegnamento ovunque vada. Un bimbo da nutrire è solo un bimbo da nutrire e che sia mio o di qualcun altro non cambia il bisogno del bambino. Ciò che imparo gestendo la situazione è ciò che ancora una volta posso portare con me. Quindi, tutto sommato, quello che mi appartiene veramente è come mi approccio alle cose, non è la proprietà delle cose alle quali mi avvicino. Quello che fa di me ciò che sono è come mi comporto non ciò che ho, a dispetto del pensiero di molti. Tuttavia anche se questo è un pensiero positivo la strada verso l'accettazione completa del non avere qualcosa solo mio è ancora lunga, con tale pensiero vivo meglio i momenti in cui mi capita di constatare la realtà dei fatti. Quando per lungo tempo si vive avendo tutto a disposizione ma solo in gestione si sviluppa un pensiero che nasce con l'intento di autoconfortare. Questo conforto che deriva dalla constatazione materiale dell'avere qualcosa di tangibile così come lo si desidera è molto umano ed è purtroppo spesso legato al desiderio di calore giacché talvolta il non avere grandi cose fa sentire una strana solitudine. Stupida solitudine, irreale, perché in realtà si sa bene che sono le piccole cose a nutrire il calore. A volte sapere bene, vedere con chiarezza, fa stare peggio, proprio per la sensazione di dispetto che si prova interiormente. Si è consapevoli di avere molto più di quello che si pensa e si dimentica chi ha molto meno davvero e non può stare neanche ad elencare ciò che non ha. Questa lotta umana tra una riflessione e l'altra su ciò che conta veramente anche dopo lunghi giri, tuttavia, mi riporta al sapore della verità. La verità è che tutti questi anni in cui ho gestito le cose, cercando di limitare il mio gusto personale per non invadere troppo quello che già c'era o quando non faceva parte del mio compito decidere, mi hanno lasciato la consapevolezza, piuttosto chiaramente, mio malgrado, di ciò che conta veramente.

venerdì 27 gennaio 2012

Allotropia del carbonio e una metafora

In chimica inorganica, per allotropo, si intende quell'elemento o composto che possiede delle proprietà chimiche o fisiche differenti a seconda della disposizione degli atomi. Quando ho studiato il carbonio ( il suo simbolo è C ) sono rimasta colpita da questa meraviglia della natura. Non riuscivo a credere che la grafite, che è l'anima dei lapis, fosse uguale ad un diamante. Sono la stessa cosa ma contemporaneamente non lo sono. L'elemento chimico che li compone è carbonio in entrambi i casi ma si tratta di due allotropi. La grafite è formata da strati planari di atomi di carbonio disposti ai vertici di esagoni regolari, questo per farla breve. Ogni strato è sovrapposto al successivo in modo sfalsato con una sequenza che si ripete sempre nello stesso modo. La mancanza di un forte legame tra gli strati è ciò che conferisce la caratteristica sfaldabilità, infatti gli strati scivolano gli uni sugli altri con minima sollecitazione meccanica, come può essere lo scrivere o disegnare con una matita, per esempio. La grafite lascia il suo segno grigio più o meno scuro sulla superficie della carta. Poi c'è il diamante, i cui atomi di carbonio sono legati fra loro in modo da formare una struttura tetraedrica che si ripete nello spazio dando origine alla struttura cubica del reticolo cristallino. Il diamante è trasparente, dunque incolore, e questo perché non possiede elettroni eccitabili dalle radiazioni visibili, altrimenti conosciute come luce, ricordando che la luce è composta da sette radiazioni di lunghezza d'onda diversa che tutti possono vedere rappresentate nell'arcobaleno. Il diamante, poiché non possiede elettroni delocalizzati, non è un conduttore di elettricità. La grafite invece lo è dato che, per come sono disposti i vari atomi di carbonio, ha elettroni delocalizzati che sono anche responsabili della colorazione nera di questa forma dell'elemento. La colorazione, in questo caso, è dovuta all'assorbimento delle radiazioni visibili.*
Già al tempo in cui studiavo per l'esame di chimica questa specie di contrapposizione mi suggeriva lo spunto per una riflessione. La mia tendenza a trovar metafore come sorta di linguaggio alternativo mi ha fatto pensare agli estremi di una stessa cosa, la quale contiene quasi sempre in sé il tutto e la sua stessa sintesi da vedere a patto che si sappia comprendere in profondità. Anche ciò che noi siamo, con la potenzialità del poterci trasformare per ottenere migliorie, contiene in sé le stesse caratteristiche che ha il carbonio. Il pensiero positivo, e di conseguenza l'essere tali, da sempre viene associato a qualcosa di luminoso, di chiaro come la chiarezza che si può sperimentare ricercando conoscenza, desiderio di imparare, trasparenza dell'animo in virtù della sincerità, e la resistenza, la forza che si acquisisce tramite l'affrontare ogni giorno le pressioni della vita e il calore dei sentimenti che ci forgiano, sono la forma diamante. La forma grafite invece si mostra quando ancora siamo in divenire, quando siamo più fragili e in parte, talvolta, stanchi anche di lottare, quando il desiderio di ottenere qualcosa prevale sul far tesoro di quello che si ha già, quando inseguiamo qualcosa che potremmo anche non raggiungere, in tutte quelle situazioni nelle quali siamo separati da noi stessi poiché non ci importa essere un tutt'uno con quello che dal profondo chiama. In questi strati separati di noi lasciamo che lo spazio venga riempito da qualsiasi cosa senza badare a cosa sia per distrazione, per svogliatezza, per stupidità. E non è che gli atomi necessari per creare un diamante da questa forma grafite non ci siano, sono solo tenuti insieme da forze più deboli. Un diamante si forma a partire dalla grafite in particolari condizioni di calore e pressione elevata. Anche per un essere umano vale la potenza forgiante di un qualcosa che noi chiamiamo, in questo caso, esistenza. E' tutto lì. E c'è già tutto anche dentro di noi. Nessuna delle due forme è migliore dell'altra, sono soltanto due forme che esistono ciascuna con il suo scopo o il suo utilizzo, giacché l'uomo, tramite la sua capacità di imparare, comprendere e conoscere, può ricavarne qualcosa di significativo. E questo vale non solo per il carbonio, usato dall'uomo in entrambe le sue forme naturali, ma anche per se stesso, metaforicamente parlando.

*Informazioni tratte dal mio vecchio libro di chimica "Chimica Inorganica" di I.Bertini e F.Mani  Ed. Cedam

lunedì 23 gennaio 2012

L'uscita di Rudolf dal Grande Fratello

Stasera mi è capitato di vedere una persona che con coraggio ha deciso di riprendersi la vita che aveva prestato ad un programma televisivo. Non mi piace il Grande Fratello perché non condivido la strumentalizzazione dei sentimenti che ne deriva. Nonostante questo, lo guardo lo stesso per capire dove stia il limite tra il vero e il falso in tutto questo strano gioco. Stasera mi è sembrato che la sincerità di una persona abbia prevalso su tutto il resto e questo mi piace, nonostante il contesto, rimanendo comunque con la domanda sospesa che si tratti di un colpo studiato ad arte o quanto mento sfruttabile per la sua spettacolarità. Mi è piaciuto quello che ho visto del concorrente che ha preso la porta ed è uscito. Mi è piaciuto, forse, perché anch'io avrei fatto lo stesso, riconoscendo quanto sia importante la vita fuori dal cono di luce dei riflettori. Il malessere di Rudolf era diventato tangibile. Gli è stato fatto notare che, uscendo in questo modo, mancava di rispetto a tutti coloro che fanno i provini per entrare nel cast del programma, ma lui non ha mancato di rispetto a nessuno, secondo me, anzi, avrebbe mancato di rispetto a se stesso se fosse rimasto. Fino a prova contraria anche un concorrente del Grande Fratello è un essere umano, e se capita che dentro la casa riesca a ricordarsene, riconoscendo le cose davvero importanti da quelle che non lo sono, è da acclamare e non certo da condannare. Lo scopo delle cose che scrivo, qui nel mio blog, è riconoscere le cose luminose da quelle che non lo sono o sono apparenza senza sostanza, quindi ciò a cui ho assistito stasera mi ha spinto a rendere giustizia ad un ragazzo che ha compiuto un atto forte, ma che ha dimostrato a tutti il suo valore. Uscendo dalla casa, Rudolf crede di aver gettato tutto alle ortiche, compresa la sua vita, ma se potesse leggere quello che scrivo di lui capirebbe che c'è anche chi non crede che sia così, anzi. Ho provato ammirazione per il suo gesto, come ho detto, perché è riuscito a scuotere qualcosa e il messaggio arriva. Riconoscere le cose che contano per se stessi è un pregio che va oltre l'approvazione pubblica.

domenica 22 gennaio 2012

Delle complicazioni dell'amore 2

Rileggendo il post precedente ho trovato un punto da chiarire. Questa è la frase: "E chi amiamo, sia che taccia o che parli, esprimendo il suo dolore, ci ferirà più in profondità". Le ferite sono il risultato di un colpo ricevuto o inferto, e solitamente una ferita si manifesta in un punto in cui le difese hanno ceduto o non erano presenti perché sostituite dalla fiducia che riponiamo nell'altro. Se si sa che si può stare tranquilli accanto a qualcuno si ripongono le armi, si ritirano gli artigli, ci si rilassa. Questo è parte della vulnerabilità della quale parlavo nel post precedente. Quando l'amore ci avvolge e ci coinvolge non abbiamo bisogno di alzare barriere altrimenti schermeremmo noi stessi e verrebbe meno il mettersi a nudo. Al di là del fatto che il sentimento provato sia corrisposto o meno, quello che proviamo innanzi tutto scolpisce ciò che siamo, anche se contemporaneamente si riversa sull'altro. Ciò che proviamo però rimane sempre con noi, giorno e notte finché non lo comprendiamo abbastanza da conviverci pacificamente. E questo atto non è mai facile se c'è del dolore, se ci sono delle ferite da qualche parte. Se feriamo in qualche modo chi amiamo il dolore dell'altro ferisce anche noi come l'azione di ritorno di un boomerang. Silenzi o parole possono essere ugualmente eloquenti per esprimere il dolore provato. I motivi che ci portano a ferire gli altri, specialmente chi amiamo, credo che, nella maggioranza dei casi,  non siano intenzionali. Stare vicino a qualcuno, nel senso più ampio del termine, è più difficile dello stare da soli poiché lo spazio metaforico per i movimenti dell'animo di ciascuno, delle espressioni del proprio carattere, è da adattare alla presenza dell'altro. E questo movimento lo si impara e fa parte della vita scegliere o accettare di impararlo. Si commettono degli errori che, se fossimo da soli, sarebbero forse simili al passo incerto di un bimbo che cerca di sorreggersi sulle proprie gambe ma, vicino a qualcuno, e non necessariamente stando in coppia, diventano colpi che feriscono. A meno che non si scelga di essere creature indifferenti a tutto, scafati, rigidi e inflessibili per opporsi alla fluidità portata  dai sentimenti o dalle emozioni, quasi ogni cosa che ci sfiora implica un rischio di ferita, che può anche non esserci mai. Ferire chi amiamo, soprattutto se ciò accade senza averne l'intenzione, fa stare male perché realizziamo quasi subito che quel maledetto colpo sferrato non si cancella, non si può tornare indietro, a meno che le cose non si sistemino ricordando il benessere piuttosto che il malessere. Il perdono può essere una scelta che deriva dalla comprensione che ciò che è accaduto fa parte di un tempo che non vibra più nel presente, come un fuoco che si è spento per lasciare il suo posto ad un seme che cresce nutrendosi delle ceneri rimaste. Una nuova consapevolezza è come un seme che nasce e cresce al posto di un dolore, trasformandolo. La ferita dell'altro è una disillusione, è fiducia infranta, è tutto, mentre la nostra è il dolore profondo del senso di colpa, una sorta di doppia ferita che è un tutto anche per noi. L'augurio, in questo caso, è di poter capire entrambi i punti di vista per poterseli scambiare dopo averli posti sul palmo aperto delle mani che, in fondo, amando ancora, non smettono mai di cercare quelle dell'altra persona coinvolta per unirsi in una stretta di pace.

sabato 21 gennaio 2012

Delle complicazioni dell'amore

Quando ho appuntato questo titolo stavo pensando al fatto che una persona che ti fa stare molto bene può anche farti stare male con la stessa intensità. Questa è una possibilità, una sfumatura tra le tante sfumature possibili, un punto di vista, nel senso che l'esperienza che lo genera produce un pensiero ed esso va a sommarsi ai tanti pensieri che compongono il concetto della sfera della relazione tra due persone. Qualcuno potrebbe non pensarla in questo modo, ecco perché si tratta di un punto di vista. Nella mia personale esperienza ho provato forti sentimenti che mi hanno esposta a ferite ben più profonde e gravi di quanto sarebbe potuto accadere se avessi amato con meno intensità. Se dovessi definire meglio questa intensità per farla comprendere direi che, se il flusso dell'amore che si prova per qualcuno fosse come quello dell'acqua che esce da un rubinetto, quando ho iniziato a provare tale sentimento, la pressione del flusso che usciva dal mio cuore era alla massima potenza e quasi senza controllo come se il rubinetto, poco usato fino a quel momento, si fosse inceppato. Così tutto quello che usciva dal mio cuore era talmente potente da rendermi più vulnerabile di quello che potevo immaginare. Essere vulnerabili fa parte del gioco in amore e come giudichiamo questo tassello dipende da ciò che pensiamo a proposito di noi stessi, di ciò che vogliamo, di come ci poniamo nei confronti di un sentimento che spesso è capace di sconvolgere la vita. Se accetti di amare con tutto te stesso accetti anche ciò che questo significa a tanti livelli della vita e dell'essere. E credo anche che se scegli, inconsciamente o meno, di amare con tutto te stesso trovi poi, oltre la prima apparenza, una porticina nascosta che ti permette di vedere che in questo modo di essere c'è una maggior cura nei propri confronti rispetto a quanto si possa credere. La chiave di lettura sta nel "tutto te stesso" poiché così facendo si è sinceri, posto ovviamente che quando si mette tutto ciò che siamo in qualcosa questo qualcosa sia il meglio di noi. E qui si manifesta anche il rovescio della medaglia, la vulnerabilità che deriva dal mostrarci con sincerità e interamente per ciò che siamo. Come per tutte le cose però si può studiare ciò che insegna questo tipo di vulnerabilità per viverla con rispetto. L'intimità tra due persone implica un tipo di conoscenza reciproca che metta a nudo anche il corpo più sottile fatto di tutti i nostri sentimenti. Mettersi a nudo rende vulnerabili e forti al tempo stesso. Rende vulnerabili perché ogni aspetto più sottile che ci riguarda ha bisogno di essere trattato con cura, con dolcezza e la fiducia reciproca svolge un ruolo determinante in ciò. Rende forti perché potersi liberare, tramite la forza del flusso dell'amore, di qualsiasi orpello mentale che serve nella vita quotidiana per poter vivere in mezzo agli altri, galvanizza. Quando ci mettiamo a nudo l'anima ci spogliamo anche dell'eventuale maschera abitudinaria. Accanto alla persona amata assottigliamo gli strati che usiamo per proteggerci dal resto del mondo che non ci comprende davvero, ecco perché tutto si complica se in quel momento accade qualcosa che fa stare male chi amiamo. E chi amiamo, sia che taccia o che parli, esprimendo il suo dolore, ci ferirà più in profondità. Ovviamente se non accettassimo l'eventualità forse non metteremmo davvero noi stessi nel flusso del cuore verso qualcuno. E la cosa realmente importante, secondo me, è amare con sincerità, accettando la vulnerabilità che ne deriva, che non è uno svantaggio bensì una sensibilità maggiore, anche se si possono incontrare ostacoli che feriscono lungo il cammino. Quello che accade, poi, dopo tali ferite profonde, dipende dalla quantità del  flusso d'amore rimasto. E se davvero teniamo al dialogo con l'altro, anche se in mezzo vi sono delle ferite, dovremmo provare a lenirle, attingendo l'unguento necessario dal sentimento che ancora esiste, se questo fosse il caso, perché non si formi una ferita ancora più grande tra chi ha amato con tutto il suo cuore.

lunedì 16 gennaio 2012

Quello che ho e quello che mi manca

Immaginate di essere in un immenso magazzino pieno di qualsiasi cosa che vi venga in mente. Siete al buio ma avete la possibilità di orientare un fascio luminoso verso qualcosa. Non sapete dove sono i vari oggetti così usate la luce per cercare ciò che vi interessa. Cosa vi mettete a cercare? Ricordate che in questo magazzino c'è tutto quello che pensate, che avete o che desiderate avere. La mia tendenza è guardare i posti vuoti quindi cercherei ciò che desidero ma che non ho. Mentre sto cercando, dunque, vedrei solo quello che mi manca scansando tutto quello che ho. Quando mi sono resa conto di questo mi sono sentita stupida e ho visto in un colpo solo tutte le cose che ho acquisito negli anni e se ne sono rimaste lì ferme. Anzi, sono stata io a lasciarle lì ferme. Dipende da me la gestione di ciò che mi appartiene strettamente, specialmente quando queste "cose" non sono solamente oggetti materiali. Intendiamoci, i desideri rimangono ma si inquadra il tutto in un'ottica differente. I "vuoti", determinati dalla constatazione di non avere ciò che si desidera, restano fintanto permangono i desideri che li generano. E se non si comprende il valore di puntare il fascio di luce su ciò che invece si ha, il continuo giungere dove sta il "vuoto" fa stare male e consuma. La compulsione, che è la ripetizione involontaria di un comportamento irrazionale, magari avendone un po' in giro nei meandri nascosti dell'anima, se si aggancia al desiderio di avere ciò che non si ha, produce come risultato un malessere non facile da gestire, a meno che non ci si renda conto che questo malessere esiste. A forza di concentrarsi sulle cose che non sono lì per soddisfare i nostri desideri sembra che anche la vita si svuoti. Se si fa un confronto con le persone che ogni giorno combattono con reali mancanze di vitale importanza, un discorso come questo appare, forse perché in realtà è, una quisquilia. Ma l'esperienza insegna che qualsiasi sentimento provato, che ci avvolga completamente rendendoci immersi in esso tanto da non rendersi conto di come siamo o di come ci comportiamo, è immenso e seriamente vivo e non ci fa smettere di pensare nemmeno per un minuto che sia importante. Solo un osservatore esterno, in base al suo pensiero, può anche giudicare, se è nel suo carattere farlo. Quando ti senti come ti senti vedi solo quello e lo vivi, così, in quel momento, la mancanza del giocattolo preferito del bambino diventa la sua necessità insoddisfatta. Così, quando la somma di tutto ciò che mi sembrava mancasse è diventata insostenibile ho spostato qualcosa e il mio fascio di luce ha illuminato uno spazio talmente vuoto che, paradossalmente, mi ha fatto vedere più chiaramente. La luce è rimbalzata come un'eco ed è tornata dentro di me andando ad illuminare la memoria trascurata, i sorrisi che ho già avuto per rimpiazzare quelli che vorrei avere sempre anche in futuro e i momenti magici vissuti nel corso della vita a far da promemoria che sono possibili, invece di desiderarne di nuovi così che durino abbastanza a lungo per non farne svanire il sapore. Umanamente ancora ho il desiderio di qualcosa che sia soltanto mio, come una casa da sistemare come vorrei anche se forse questo non avverrà mai, o di recuperare ciò che ho perduto, ma adesso riesco a stare meglio in compagnia di questi desideri. Non è ancora stata inventata la macchina del tempo che faccia tornare indietro, in qualche particolare punto della vita anche il nostro corpo e non solo la memoria, così certi particolari tipi di vuoto rimarranno tali e saranno sempre ciò che manca nel presente che continua a scorrere. Ma anche per questi casi riuscire a trovare la chiave per spostare lo sguardo su quello che c'è è altrettanto importante, difficile ma importante. E non si negano i vuoti guardando i pieni, la verità è che contemporaneamente pieni e vuoti si suddividono lo spazio dentro di noi, solo che si impara a conviverci con maggiore equilibrio. I vuoti sono come delle depressioni, come la bassa pressione atmosferica che richiama le nubi cariche di pioggia, così i vuoti che fanno sanguinare il cuore richiamano lacrime. I pieni, invece, rappresentano tutto ciò che non ci manca, e la pienezza rende sazi, è l'espansione, è il benessere e quello che ci fa stare bene ci permette, se non di ridere, almeno di sorridere lungo il cammino. Ecco perché tanto desideriamo stare bene e perché la sofferenza non piace a nessuno. Combattiamo ogni giorno per ottenere ciò che ci manca, o che pensiamo ci manchi, perché riusciamo a sentire il sapore del vuoto e nello stesso modo sappiamo che riconoscere ciò che abbiamo, in fondo, ci rende migliori.

giovedì 12 gennaio 2012

"Alla ricerca di persone giovani, brillanti e dinamiche"

Per esempio, io non sono poi tanto giovane, almeno non secondo certi standard lavorativi. A brillantezza, devo essere sincera, non so come sto e in quanto a dinamicità purtroppo scarseggio data la mia innata tendenza alla pigrizia. Dubito che potrei essere anche soltanto valutata per un lavoro che richieda tale tipo di persone. Che fare? Trasformarsi per adeguarsi o cercare altrove qualcuno che ti guardi per te stesso, con umanità e pazienza? Nel caso della trasformazione l'unica cosa che non si può modificare realisticamente è l'età, su di essa si può solo ingannare con vari accorgimenti. Se per brillantezza si intende avere una mente sempre pronta e creativa potrebbe essere stimolante imparare ad esser così e la strada percorsa arricchirebbe ugualmente anche se non si ottenessero grandi risultati. La dinamicità è l'opposto di ciò che ti fa fare la stanchezza e la stanchezza può anche non essere fisica così, se si volesse sperimentare la dinamicità, si dovrebbe capire cosa la impedisce per rimuovere il freno al movimento. Trasformazioni possibili, talune efficaci perché portano consapevolezza, altre meno, anche se è sempre vero che ogni sentiero sul quale si cammina ha qualcosa da raccontare.
Ma tra le varie opzioni, si può anche scegliere di fingere di essere quel che non si è pur di avere un lavoro se non si vedono alternative. E questa non è una critica, è mettere in conto che questo possa esistere per potersi porre qualche domanda. E la domanda che anch'io mi sono posta è se sarei capace di comportarmi così, di fingere di essere qualcuno che non sono, se il bisogno mi spingesse. Non ho una vera risposta se non guardare a come mi sono sempre comportata fino ad oggi, scansando tutte quelle situazioni dove non avrei potuto essere me stessa.
Tornando al punto, non riesco a non andare lì, nel centro della richiesta di chi offre un lavoro cercando persone brillanti e dinamiche, lasciando correre l'immaginazione. Mi chiedo allora chi riesce ad essere ogni giorno brillante e dinamico. Dove vanno a finire i pensieri e le preoccupazioni che tanto sanno incidere l'animo umano. Dove si ripone la possibile delusione d'amore, il lutto, le complicazioni familiari di varia natura, l'imprevisto che cambia le carte in tavola e la spossatezza, il dolore fisico e non. Figli che si presentano nella vita. Tutte cose che richiedono di essere ascoltate almeno un po', vissute per essere comprese, invece di essere ignorate in favore di un qualsiasi guadagno, per poter andare avanti davvero. Sono contemplati questi fattori come possibili componenti del lavoratore dopo che è stato assunto? O questi giovani brillanti e dinamici non hanno una vita con gli alti e i bassi che in essa sono più o meno sempre presenti? Che sia magicamente possibile vestirsi al mattino lasciando a casa ogni pensiero che minacci la brillantezza? E chi offre tale lavoro, se si trova un prodotto scadente a far da ingranaggio al suo meccanismo, come si comporta? C'è abbastanza umanità e pazienza per comprendere che tutta quella brillantezza e dinamicità, per non parlare della giovinezza che passa col passare dei giorni, è solo la forma di un pensiero stressante? Chi lavora e ama lavorare saprà dare sempre il meglio di se stesso anche sopportando dei sacrifici ma solo, secondo me, se chi offre lavoro sa cosa significa lavorare davvero e ha cuore di insegnare qualcosa e non ti manda via se hai qualche incertezza mentre stai imparando ad andare avanti.

Novantanove virgola novantanove

Ragionando in percentuale è praticamente la totalità, ma non ancora. Rimane lo 0,01% che ha un suo significato, anche importante, che dipende dal contesto. Poi ci sono i prezzi delle cose e la scelta di applicare loro questa cifra dipende da un pensiero comune a quelli che credono di darci l'illusione che l'oggetto costi meno. In questo caso, 99,99 è cento, smette di essere quasi cento per il valore praticamente nullo di un centesimo poiché con esso non abbiamo potere di acquisto. Forse in qualche parte del mondo anche un centesimo ha valore, ma non è di questo che sto parlando, piuttosto intendo quello che c'è qui, nel famoso mondo civilizzato dal consumismo, dove si sta esaurendo il rispetto per molte cose. Quando non ho voglia di cavillare pago ciò che c'è da pagare ma non smetto di pensare. Quando vedo quasi ovunque, in questo tempo di crisi, lievitare i prezzi dove la cifra più ripetuta è il nove, mi sento vagamente insultata. Dico vagamente con sottile sarcasmo. La mancanza di rispetto è nel cercare di convincerci che la visione della prima cifra conti maggiormente della realtà dei fatti, ossia che ciò che vai a pagare è, molto tangibilmente, la quantità effettiva data dalla lettura di tutte le cifre del prezzo. Non so voi, ma nel portafoglio mi rimane solo un centesimo, alla fine, non mi rimane tutto l'euro. Mi servono la bellezza di cento centesimi per fare un euro intero, un discreto quantitativo di rame, poiché di questo metallo sono fatti i centesimi della moneta in uso dove vivo. Mi irrita la presa in giro vestita da convincimento di necessità, ovviamente non di chi paga ma di chi viene pagato. Nove centesimi a te e un centesimo a me. Equa spartizione. Se ci fosse onestà reale e coraggio, i prezzi sarebbero in cifre tonde, o sarebbero prezzi equi perché rispecchierebbero il valore dell'oggetto e non la strategia di mercato o la convenienza di chi stabilisce il prezzo con questo stratagemma della cifra. E qui le cose stanno così. Vorrei però tornare sulla percentuale, come dicevo, lo 0,01% non è come il centesimo di poco valore. Dipende dalle circostanze ma se penso che quella piccolissima percentuale potrebbe un giorno essere usata per descrivere la speranza, mi sentirei ancora capace di lottare, ci sentirei ancora vita lì dentro e non mi arrenderei perché ricorderei una cosa che ho studiato a biologia, che anche lo 0,01% di una colonia di microrganismi può originare una nuova colonia. Anche un solo batterio che si suddivide può dare una "progenie" numerosa per ricreare la colonia. Questo esempio racconta solo la potenzialità di un tipo di esseri viventi che mi ha fatto riflettere sull'argomento, senza mettere l'accento sul fatto che vi sono microrganismi dannosi e microrganismi benefici per l'essere umano. E la speranza stessa, se fosse quantificabile in percentuale, conoscendomi, sono sicura che, anche se fosse meno di quello 0,01%, sarebbe sufficiente per farmi credere alla sua presenza.

lunedì 9 gennaio 2012

Uno squarcio nelle nubi

Fin da bambina mi è sempre piaciuto guardare lassù, il cielo, con tutte le sfumature di colori che ha a disposizione. L'azzurro, quando è sereno, e il cuore si rilassa mentre cerca di fondersi un po' con quella tonalità. I colori spettacolari delle albe o dei tramonti mi hanno sempre connesso con il mondo meno immediato, quello che sta di là dalle cose materiali, quello dove ogni poeta si bagna spesso lasciandosi lambire da onde speciali. Poi c'è il grigio del cielo nuvoloso. Grigio uniforme che non lascia speranza di intuire un risveglio dell'azzurro e che ci isola dalla luce del sole. Quando il cielo si mostra così coperto serve solo tirare fuori la pazienza e attendere che passi. Anche l'umore ne risente di questo grigiore. Poi c'è la pioggia che mescola gli odori e i pensieri. Ma un temporale è una forza naturale da leggere e ascoltare se non c'è minaccia per l'incolumità di qualcuno. Ricordo che molto tempo fa, davvero molto... mi appoggiavo alla finestra quando c'era un temporale e guardavo e ascoltavo e annusavo l'aria. Era un tempo in cui, anche se si scatenava con violenza, la pioggia non faceva mai danni così gravi come accade oggi... Sarà perché ero ragazzina e la curiosità di esplorare il mondo mi faceva sentire capace di osservare più a fondo alcune cose. Sono tutte sensazioni impregnate di ricordi, oppure, forse, è vero il contrario, che sono i ricordi ad essere intrisi di sensazioni poiché anche di esse portiamo in noi il ricordo. Il temporale con il suo carico di nubi grigio scuro, tali da poterle definire "nere", irrompe talvolta velocemente ed altrettanto velocemente se ne va, come accade per alcune circostanze della vita. Con la meraviglia nell'animo che non ha paura di tuoni, lampi e fulmini stavo a guardare e aspettavo che finisse tutto perché sapevo che così sarebbe stato. E' nella natura del temporale essere di breve durata. Aspettavo di vedere spuntare il sole tra gli strati di nuvole. Oggi, ripensando a questo, sento ancora un'eco di benessere mentre rivedo l'immagine di uno squarcio tra le nubi, dal quale si può intravedere l'azzurro del cielo o il sole che fora tutta quella pesantezza con i suoi raggi diritti di luce bianchissima. E ancora cerco da qualche parte la stessa sensazione di conforto per il significato che conduce con sé. Se non avessimo parole per descrivere come ci sentiamo, quando assistiamo a qualcosa che migliora e si trasforma dal buio alla luce, uno squarcio nel cielo potrebbe essere la metafora giusta per esprimersi, con tutto il carico di sensazioni vissute dal corpo che vede quanto accade in modo naturale. C'è sempre un feeling con la natura per ogni cosa che viviamo o, meglio, molto di ciò che sentiamo è anche da qualche parte manifestato dalla natura e cercare di vederlo lì è quasi come una caccia la tesoro, perché quello che alla fine troviamo, là fuori come specchio e dentro di noi, è prezioso. Poter trovare le parole per ricreare un'immagine da comunicare agli altri è una chiave per non perdersi nella propria solitudine o nella sofferenza o nell'indifferenza. Così, ogni volta che ci è dato di vedere uno squarcio nelle nubi, non classifichiamolo come un semplice fenomeno atmosferico, portiamolo per un po' dentro l'animo come riserva di parole da assegnare a sensazioni che stiamo imparando a riconoscere, vivendole.

venerdì 6 gennaio 2012

Mancanza di prospettive

La prospettiva permette di vedere qualcosa nella sua tridimensionalità sia tecnicamente, disegnando, sia metaforicamente. La mancanza di prospettive viene chiamata in causa in tutte quelle circostanze nelle quali, metaforicamente parlando, la proiezione nel futuro di qualcosa che ci riguarda in qualche modo viene a mancare o non si riesce più a distinguere chiaramente. Se il punto di fuga del disegno fosse il nostro punto di ancoraggio per vedere bene il futuro, le linee che vi convergono sarebbero ciò che ci permette di vederlo. Potremmo comunicare con quel punto lontano in modo più materiale rispetto al solo concepire l'idea di esso. Un pensiero sciocco, nutrito dalla fantasia, per allentare la morsa della realtà. Due o più linee come corde tangibili alle quali potersi assicurare a doppio nodo nei momenti di crisi, per non perdere contatto con quel magico punto lontano che tanto peso ha nelle nostre vite piene di progetti per il domani. Forse tale punto è proprio il domani e senza di esso tutto ci sembra impossibile da vedere come realmente è. Quando manca un qualsiasi punto di riferimento viene a mancare qualcosa di importante, svanisce la sensazione di materialità, come se questa perdita riducesse tutte le cose tridimensionali a labili svolazzi nel nulla. Siamo esseri tridimensionali e questa conoscenza è talmente radicata in noi da confondere la mente non appena qualcosa turba questo equilibrio. Questo tempo che stiamo vivendo corrode le linee che ci congiungono al nostro essenziale punto di ancoraggio, il nostro punto di fuga. Ci viene cambiata la prospettiva senza il nostro permesso il più delle volte e questo destabilizza. Non servono le mie parole per capirlo, è una consapevolezza alla portata di tutti. Quello che fa male è invece sentire la voce di coloro che tolgono le prospettive causando dolore e morte in tutti quelli che non resistono all'impatto. Le notizie di cronaca di questi giorni parlano di suicidi per mancanza di prospettive. Frase breve, incisiva. In questa brevità c'è tutto. C'è la consapevolezza, in chi ascolta, che l'uomo non è fatto per l'ombra che gli viene imposta da circostanze alle quali non riesce più a fare fronte, e che queste morti non sfioreranno neppure i responsabili ma rimarranno un silenzioso carico in braccio ai familiari e a gli amici che rimangono. Sono matti, poverini, sono depressi, ma del dolore profondo che causa tutto nessuno parla mai... Ci siamo tutti in questo strano mondo, siamo talmente tanti e diversi da  poterci definire innumerevoli a dispetto delle statistiche e dei numeri, e ogni cuore è legato a qualcuno che soffre in qualche modo. Se stiamo a guardare non è perché non ci importa, piuttosto, secondo me, è perché non sappiamo più cosa fare. E mentre guardiamo cerchiamo di scrutare l'orizzonte, che non vediamo più così chiaramente, alla disperata ricerca di qualcosa che ci restituisca la prospettiva. L'essere umano, anche se si crede bipede per natura, ha ali potenti che non riescono ad arrendersi alla cattività. Per questo si soffre così tanto quando non si riesce più a vedere, e non è solo, come potrebbe dire qualcuno, perché l'Uomo vuole avere sempre il controllo su tutto ciò che lo circonda, anche se in parte questa è la verità, ma perché ciò che abbiamo dentro, che la si chiami anima o in altro modo, sente tutto più profondamente e consapevolmente di quanto si riesca a credere. 

martedì 3 gennaio 2012

Dopo

Ogni cosa che inizia ha un'evoluzione e questa evoluzione è un "dopo", solo che spesso non lo mettiamo in conto quando si fa la fotografia d'insieme. Il dopo è l'essenza della conseguenza di qualcosa. Le conseguenze di qualcosa possono essere positive o negative a seconda di come si è agito "prima". Fatto sta che in molte occasioni si pensa solo alla concretezza dell'azione, al suo presente tralasciando il dopo come se questo fosse cosa meno importante. Il dopo, però, ha la strana caratteristica, talvolta beffarda, di essere, se non altrettanto importante del prima, molto più importante. Nel dopo ci sono i conti da pagare per ciò che si è consumato. Nel dopo ci sono discendenze materiali come lo possono essere dei figli dopo un breve incontro di passione. Nel dopo ci sono danni o errori da riparare. Nel dopo c'è sempre un tempo più lungo nel quale vivere immersi rispetto al momento che genera la conseguenza considerata. Che il dopo sia tanto scomodo da essere escluso quasi sempre dalla consapevolezza della volontà di agire secondo il desiderio del momento? Eppure il dopo è un'entità paziente che con la sua presenza può insegnare delle cose, posto che si decida di osservare invece di voltare lo sguardo altrove. E ricordiamo che il dopo non esiste senza un prima, senza un'azione nel presente, senza un desiderio, senza un sogno. Se mi viene da porre l'accento sulle conseguenze meno piacevoli è perché l'osservazione del dopo che vedo qualche volta è una triste manifestazione di incoscienza. Questa riflessione è nata dopo aver vissuto una notte di San Silvestro, 31 dicembre, in giro per le strade della mia città. Bello il clima di baldoria, risate, mille pensieri che si fondono in un'unica volontà di festeggiare bevendo, brindando per le strade. L'attesa dello scoccare della mezzanotte, i botti, i fuochi d'artificio sui tetti. Se per una qualche magia si potesse fare un fermo immagine, tutto resterebbe così nella memoria di ciascuno. Vi resterebbe l'allegria, o almeno la volontà di essa, al di là dei singoli dolori di ciascuno messi da parte per l'occasione. Tutto sarebbe perfetto, ma... Il tempo scorre e i rintocchi passano, i botti si esauriscono, le bottiglie si svuotano, non solo nei bicchieri, ma anche sull'asfalto. Che sia tradizione fare così? Lo confesso, questo non lo so... Si ride ancora mentre si lasciano alle spalle tante cose. Pensieri vecchi che si seccano insieme all'alcol che evapora nella notte fredda. Nulla importa, tanto dopo non è un pensiero per l'adesso. Solo che io, non sono riuscita a vedere solo l'adesso, ho esagerato come sempre, ho visto il dopo mischiarsi a tutto ciò che mi circondava. Ho visto il dopo insinuarsi nel presente, tra i passi di coloro che continuavano a festeggiare senza pensare che, qualche volta, basta poco per avere rispetto di quelli che vengono dopo. Ho visto una marea di bottiglie infrante per terra, bicchieri abbandonati, tutto abbandonato in attesa di qualcun altro che l'indomani, anzi già nel giorno appena nato, avrebbe dovuto con fatica raccogliere residui di inconsapevolezza. Ma la nostra bottiglia e i nostri bicchieri sono venuti insieme a noi fin nel loro giusto posto di raccolta, non sono rimasti a morire in una qualsiasi strada da pulire dopo... Qualche volta credo che una delle basi della consapevolezza sia anche questo, sia poter considerare anche il dopo, non solo il seme del progetto, non solo il prima, non solo il desiderio che muove le cose.