mercoledì 8 febbraio 2012

Con te non ci gioco più!

Questa è la migliore arma che hanno i bambini per difendersi. Prendere le distanze da chi ti fa stare male, ristabilire i propri confini per non soccombere, si riassume bene così anche da adulti, sebbene la vita non sia un gioco. Un bambino non sa ancora come districarsi nella lettura delle proprie emozioni, ma sa che ciò che prova in quel preciso istante è di vitale importanza e a quello rivolge tutta la sua attenzione per proteggere se stesso. Poi si cresce, o almeno così dovrebbe essere, ma molte volte l'età anagrafica non garantisce che certe reazioni si modifichino. Alcune restano e fanno parte del bagaglio che ci portiamo dietro nel corso della vita. Ma da adulti, nonostante il fatto che si possano usare le reazioni di quando eravamo bambini, entrano in gioco altri fattori a complicare le cose. Crescendo dovremmo essere capaci di distinguere tra i vari fattori che portano al determinarsi di una data situazione, tra atti volontari e involontari compiuti dalle persone con le quali ci relazioniamo, cosa che da bambini non accade. Da piccoli sappiamo a chi vogliamo bene e chi ci sta antipatico e sappiamo che se è l'amico a farci uno sgarbo o a procurarci dolore il sentimento di rabbia o perfino di odio che proviamo è più intenso perché siamo delusi. Da bambini, arrabbiarsi fino a questo punto, porta in sé anche la capacità di riprendere a giocare da dove si era smesso bruscamente, magari non subito, ma in breve c'è speranza che i due che erano amici tornino ad essere tali. Forse perché a quell'età certe emozioni si vivono intensamente e, non avendo pensieri troppo mentalmente articolati, si lascia che le cose siano finché non ci si stufa del broncio e si torna a correre insieme. Forse la capacità di perdonare, in questo caso, non è il perdono come lo intendono gli adulti, ma è una capacità che gli adulti perdono col troppo pensare, è vivere istante per istante ascoltando quello che si muove dentro e che fa muovere il fuori di conseguenza. Una sorta di freschezza che si perde con il crescere se si preferisce usare troppo la testa. Da grandi, al posto delle pause nel gioco, troviamo contusioni, fratture, ferite, punti sui quali si smette di voler discutere perché la ragione che ci anima vuole prevalere a tutti i costi. Qualche volta questo desiderio di far valere a tutti costi qualcosa è la giusta battaglia ma altre volte non lo è, e riconoscere di quale caso si tratta è parte integrante dell'insegnamento che la vita offre. La mia personale sofferenza nel vedere qualcuno che si chiude a qualsiasi dialogo deriva dal fatto che credo nella comunicazione e nella chiarezza di espressione. Non mi piacciono le mezze parole né le mezze frasi né qualsiasi cosa che non affronti anche a lungo la questione, magari è un difetto questo più che un pregio, forse solo la mia caratteristica, ma spalle voltate o silenzi a oltranza mi fanno stare male. Ogni volta che vedo amici che smettono di parlarsi, o lo sento dire di genitori con figli, una parte del mio cuore accusa un colpo perché vedo la sofferenza del tempo, oltre alla sofferenza che porta a tale gesto. La sofferenza del tempo è la tangibile consapevolezza che esso non è infinito e ogni giorno trascorso, rifiutando un dialogo, lo trovo un giorno rubato in qualche modo allo scorrere e alla crescita interiore. Poi, però, dopo aver lasciato lacrimare un po' l'anima vedo altre cose che fanno parte di tutto il discorso. Vedo che la persona offesa, nel senso di ferita, non può essere biasimata per la propria difesa perché, se così si facesse, ci troveremmo a combattere una inutile battaglia per dare la vittoria al guizzo egoista del mettersi il cuore in pace, che proverebbe colui che ha originato il danno, nel vedere sanarsi lo strappo. Colui che ferisce può appartenere a due categorie, quella di chi lo fa consapevolmente e quella di chi si muove urtando accidentalmente. Per la prima categoria non c'è giustificazione, se non quella che si potrebbe trovare sotto molti strati da scavare, alla ricerca di un motivo che porta a fare volontariamente del male a qualcuno, o a volte è solo così, anche se preferisco pensare come l'attuale Dalai Lama quando dice di ricercare sempre la radice di qualsiasi sofferenza per poter comprendere l'altro senza pregiudizi ma, soprattutto, per comprendere dentro di noi il valore del perdono, sia da offrire agli altri sia da rivolgere a se stessi. Coloro che, invece, si muovono urtando accidentalmente, non partono con l'intenzione di fare del male alla persona che amano, anzi, se riescono a rendersene conto subito stanno male se non possono riparare al loro errore. A volte questa presa di coscienza non è immediata ma, quando accade, la cosa che si vorrebbe di più, da quel momento in poi, sarebbe poter stringere di nuovo le mani che non ci sono più e la forza di questo desiderio è proporzionale a ciò che si prova per la persona in questione. Ma, come dicevo, il percorso di coscienza fa vedere altre cose. Fa capire che la soddisfazione personale, che si proverebbe nel vedere un nuovo dialogo, non è importante come il reale benessere che prova chi è stato ferito nel proseguire il suo cammino senza la persona che gli sta chiedendo perdono. Il perdono non si dovrebbe mendicare, ma solo chiedere con tutto il cuore una volta e quella dovrebbe poter essere sufficiente. Se non c'è più alcun dialogo, né l'uno sa più nulla dell'altro, il tempo può passare anzi, quasi sicuramente, è passato in modo diverso per entrambi. Uno dei due può aver dimenticato mentre l'altro può vivere inciampando spesso nel ricordo della ferita inferta o ricevuta. Anche questo fa parte del difendere se stessi per proteggersi. Il mio modo di confrontarmi con le cose non me le fa ignorare mai sebbene talvolta sia utile metterci una pietra sopra, con la speranza che la pietra sigilli il dissolversi di un'ombra e non il cuore o l'anima o la presenza di qualcuno. Io, in quel giardino d'infanzia, vorrei che tutti i bambini continuassero a giocare nonostante qualche incidente di percorso, che la forza del loro animo brioso e i loro sorrisi fossero il tesoro prezioso che rimane anche da grandi quando potrebbero trovarsi a dire "con te non ci gioco più!" ma non lascerebbero poi che questo divenisse un muro così isolante da non concedere più niente. Ma questa è solo una riflessione, un'isola, nella realtà da prendere come si presenta, perché tornando indietro non lascerei che il tempo inghiottisse i giorni così come ha fatto, forse avrei dovuto combattere di più, ma la nota dell'insistenza era già stata suonata anche troppo così anch'io ho lasciato tutto così com'era. E quando non c'è volontà al nuovo dialogo, quando non si vuole e basta, non si può fare altro che lasciare che le cose stiano come stanno, perché sarebbe violenza forzare dove viene opposta resistenza con tanto sentimento. E qui, proprio qui, dove l'altro arriva a vedere questa scena, dove arriva anche il cuore, trovare questo megalitico rifiuto fa abbassare il capo come se una parte della dolcezza che risuona in ogni creatura fosse stata sconfitta senza appello. Che si può dire di più, che si può fare? Ci si arrende se è nella natura di chi guarda farlo oppure si continua ad amare in generale o in particolare. Si convince il proprio cuore che quella volontà così ben esercitata sia di sostegno e mai d'intralcio e questo dovrebbe rendere meno duro accettare la decisione altrui, insieme a tutto ciò che si riesce a comprendere del punto di vista che non ci appartiene. Se poi quel bambino ormai adulto non riuscisse a capire cosa fare e reagisse pur non volendo in quell'unico modo che conosce, sebbene non sia da scusare totalmente per questo, tutto sommato sarebbe da amare lo stesso perché fa parte del dialogo del cuore andare oltre fino a comprendere le reciproche ragioni ma anche, e non meno importante, a ricordare che sia da bambini che da adulti quello che conta è ciò che sentiamo e ciò che ci unisce gli uni agli altri, se ci riconosciamo qualcosa di positivo, nonostante tutto.

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