martedì 28 febbraio 2012

L'ingenuità di chi è innamorato

L'ingenuità è uno stato dell'essere dove, per definizione, manca qualsiasi malizia, ossia si pensa, si crede, si vive, insieme alla totalità dei battiti del proprio cuore. Non si fanno calcoli del tipo "se faccio questo tu poi fai quest'altro", direi che più esattamente, in verità, si dànno solo i numeri, senza fare troppi calcoli, quando si è innamorati. Si torna bambini nel senso che la gioia di un sorriso ci basta per affrontare la giornata, mentre una parola detta senza l'intonazione che ci si aspetta, sulla base dello sfarfallare del cuore e dello stomaco, ci incupisce. Si sperimenta con altre vesti, quelle di adulti che possono comunque comprendere le cose, la leggerezza multicolore della felicità che ci dà la vicinanza di chi amiamo. Le azioni poi, possono essere le più astruse, perché seguono ragionamenti complessi che passano ogni due per tre dal distretto del cuore. Ci si dimenticano le cose perché tutta, o quasi, l'attenzione si avviluppa alla persona che ci emoziona e da questo contatto non fisico traiamo nutrimento. Respiriamo aria e amore perché ciò che sentiamo emana da noi stessi quando siamo innamorati e riempie l'aria, formando una specie di aura che tende ad isolare rispetto al resto del mondo concreto. Entro questa bolla viviamo davvero e il benessere è innegabile. Va da sé che se veniamo feriti mentre siamo in questo stato, siamo ben più vulnerabili di quanto possiamo immaginare. Le scottature che nascono qui dentro sono le peggiori, di difficile guarigione. Tuttavia entro questo stato, se riuscissimo a vederlo, risplendiamo così tanto da illuminare anche la più oscura notte dell'anima. Forse l'ingenuità che ci accoglie dentro di sé sarà anche fatta di gesti stupidi, poco pragmatici, fiumi di parole, messaggi vari, desideri che fanno emergere o sottolineano insicurezze varie già presenti in noi, ma se non la si prova almeno una volta, credo si perda molto del sapore della vita, se non altro di una delle sue sfumature più piacevoli. In questa ingenuità si raccolgono momenti speciali che non dovrebbero comunque mai essere dimenticati anche se un giorno tutto si perde, lentamente o all'improvviso che sia. Quel benessere provato è la conferma che lo si può provare anche se la malinconia lega i ricordi alle persone e rende tutto più difficile.

lunedì 27 febbraio 2012

La bambina che voleva far uscire il ragno dalla tana

"C'era una volta una bambina dagli occhi verdi e dai capelli neri. Aveva la luce del sole negli occhi perché risaliva su direttamente dal suo cuore. Sapeva ridere e amava tutto ciò che splendeva come sanno fare i colori dell'arcobaleno. Conosceva l'allegria e c'era in lei una forza che la spingeva ad avvicinarsi con fiducia a qualsiasi essere vivente nel regno della natura. Da sempre amava gli animali che popolavano il bosco e parlava con loro in un modo molto speciale. Si capivano guardandosi negli occhi e subito si stabiliva una specie di legame quasi magico da cuore a cuore. Un giorno, passeggiando nel bosco, lungo un sentiero pieno di frasche di cespugli di more che pendevano dall'alto e arrivavano a terra fino ai suoi piedi, dovette chinarsi per staccare alcune spine che le si erano impigliate nei pantaloni. A poca distanza vide una ragnatela che era stata tesa tra un ramo di rovo, alcuni rametti secchi caduti a terra dall'albero sopra la sua testa, e una serie di sassi spigolosi che creavano una specie di imbocco di microscopica caverna. Liberatasi dalle spine che le bloccavano la gamba, si avvicinò maggiormente per osservare quel piccolo capolavoro di tessitura. I ragni non le facevano paura, ne era affascinata. Erano così particolari, silenziosi predatori, le sembravano un po' cupi e solitari. Fu così che si mise seduta sul sentiero, per aspettare che il ragno, che aveva visto vicino all'imboccatura della tana, uscisse fuori del tutto per poterlo osservare meglio. Era contenta di essere lì, era sicura che anche con lui sarebbe riuscita a comunicare in qualche modo. La bambina aveva dalla sua parte l'entusiasmo e il suo cuore sincero e credeva davvero di poter stabilire un contatto con il ragno che aveva incontrato. In verità non sapeva molto sulle abitudini dei ragni, sapeva che qualcuno poteva pinzarla e farle male con il suo veleno se l'avesse morsa, di altri sapeva che erano totalmente innocui. Non sapeva a quale categoria appartenesse questo ragno ma, non avendone paura, gli sorrise. L'entusiasmo le fece compiere una mossa per cercare di farlo uscire. Si ricordò che un ragno esce dalla tana se sente che la tela si muove perché questo indica che una preda ne è rimasta intrappolata. Prese una foglia piccolissima e la fece cadere sulla tela per ingannare il ragno. Lui uscì per controllare ma si ritrasse subito. La bambina ci rimase male perché non aveva fatto in tempo ad osservarlo. E adesso? Non sapeva come fare ma sapeva che lo voleva vedere perché voleva parlare con lui. Intanto il ragno entrò del tutto nella sua tana, l'unico luogo che aveva a disposizione per proteggersi da questa sconosciuta invadente. L'aveva osservata in quell'istante in cui era uscito a controllare che la tela fosse intatta, sapeva infatti che non si trattava di un insetto che vi era rimasto intrappolato, loro fanno vibrare la tela in modo diverso. Se si sporgeva un po' poteva vedere un essere vivente enorme e questo lo spaventava assai. Aveva il veleno come risorsa, lo sapeva, ma non gli andava di sprecarlo per un gigante simile. Si mise quieto, dunque, in attesa che lo strano essere là fuori se ne andasse, prima di rimettere anche solo la punta delle zampe sull'imbocco della tana. Il tempo passava e nulla accadeva. La bambina iniziò a guardarsi intorno per cercare un bastoncino da usare per cercare di convincere il ragno a uscire dal buco. La bambina non pensava che così facendo infastidiva il ragno, nel suo guizzo ingenuo di colori dell'animo, non riusciva a credere che ci fosse un animale del bosco che non volesse comunicare con lei. Avvicinò la punta del bastoncino al buco e dette un piccolo colpo per cercare di convincere il ragno a uscire. Si concentrò così tanto sull'azione che stava compiendo da dimenticare qualsiasi altra cosa compreso il fatto che stava distruggendo la tela. Va bene che tutti quegli strati di seta che formavano una tela abbastanza compatta erano fatti apposta per resistere anche ad urti piuttosto forti ma così non andava proprio. Possibile che quell'essere gigantesco fosse così stupido da non capire il danno che stava facendo? Fu allora che al ragno balenò in mente l'idea che quello là fuori potesse essere un predatore più potente di lui e che se così fosse stato per lui non ci sarebbe stato scampo.  La paura lo fece ritrarre ancor più in profondità. Fortuna che la tana era spaziosa e robusta e troppo piccola perché il gigante potesse entrare. Quel rametto era davvero fastidioso e se fosse riuscito anche soltanto a sfiorarlo il ragno avrebbe potuto lasciarci qualche zampa o perfino morire. Si trattava di un incubo. Là fuori la bambina insisteva con il bastoncino a dare dei colpetti alla cieca dentro la tana del ragno sempre con l'intento di farlo uscire fuori. Insisteva e insisteva fissa nella sua idea di scambiarci due parole. Non si rendeva conto della sofferenza del ragno. Finalmente smise e ritrasse la mano sedendosi sconsolata. Possibile che non riesca a convincerlo a uscire di lì? La mente della bambina era catturata nel proposito di farlo uscire per conversare con lei e ciò che si stava dimenticando, ai fini della comunicazione, era una mancanza grave. Ignara del suo errore lasciò stare il rametto e decise di usare se stessa, rischiando il tutto per tutto. Chiuse la mano e lasciò che il dito indice si infilasse nella tana. Aveva fiducia che così si accorgesse che le sue intenzioni non erano cattive, voleva fargli sentire che se il suo cuore lo accarezzava anche la sua mano poteva farlo. Era tutto ciò che riusciva a pensare per comunicare con lui. Dentro la tana, per un istante, il ragno si rilassò, non era lui quello che di solito aveva paura ma questa volta era diverso, non capiva cosa stava accadendo. Supponeva che si trattasse della solita legge della natura che permetteva a lui stesso di vivere. Tuttavia non voleva affatto essere mangiato, nossignore! Il rametto se ne era andato. Mentre cercava di ricomporre il filo dei suoi pensieri un po' sconvolti vide una specie di bastoncino di un colore diverso dal precedente, tozzo e dall'apparenza morbida. Sentì che emanava calore e capì che era un pezzo del gigante. Fu a quel punto che la goccia fece traboccare il vaso e il ragno decise di combattere per sopravvivere. Non importava se tutto il veleno che aveva a disposizione non sarebbe bastato per uccidere il gigante minaccioso, si accontentava di metterlo fuori uso in modo da insegnargli a non farsi mai più vedere. Era stufo di quel fastidio e voleva salvarsi per tornare il prima possibile a riparare la tela per tornare ad aspettare in pace il momento di mangiare, come aveva sempre fatto indisturbato. Fu così che non ci pensò due volte e morse con forza l'appendice morbida del gigante. La bambina strillò di dolore per quel morso che si era, in realtà, meritata. Si mise a piangere sperando che il dolore si placasse ma fu costretta ad alzarsi e correre via verso casa per disinfettare la ferita. Il ragno sentì che fuori era tornato il silenzio e poté finalmente respirare in pace. La bambina rimase con la cicatrice del morso e la comprensione di aver fatto del male al ragno perché sapeva che lui non l'avrebbe morsa se lei si fosse comportata con rispetto e comprensione per le sue abitudini e necessità." R.B.Between

Qualcosa di me e un fiore

C'è chi dice di me che penso troppo. E' vero. In questo pensare percorro sentieri presenti e passati alla ricerca di quelle parti di me che non ho ancora compreso fino in fondo, per rileggerle alla luce del giorno che sto vivendo. Altre volte sfoglio questo album mentale dove so esattamente cosa c'è e, anche se ho compreso ciò che sto guardando, indugio in quel pensiero o in quella immagine per puro piacere. Talvolta è così, ho imparato a conoscere la mia natura osservandomi mentre osservavo altro. E ogni volta che faccio questi tuffi, come se stessi recuperando oggetti dalle mie profondità, mi accorgo che non finirò mai di rinnovare la chiarezza con la quale osservo me o ciò che mi circonda. Come leggere dieci o venti volte lo stesso libro, ogni volta si capisce qualcosa in più, sebbene le parole con cui è stato scritto non mutino. E' il lettore che muta se stesso e ogni volta ha, quindi, la possibilità di capire, con gradi di profondità diversi, il tema. Il pensiero di oggi è complesso perché si lega alle mie emozioni e nasce abbastanza indietro nel passato. Ricordo gli anni della scuola elementare. Ricordo che già allora mi stavano stretti i compiti e lo studiare cose che non mi interessavano in quel momento, quello che mi piaceva davvero era scrivere e mi riusciva abbastanza bene. Il momento del tema era il mio preferito, cento volte di più del momento dell'interrogazione. Da sempre, sono costretta a riconoscere, preferisco scrivere invece di parlare, oggi come allora. Questa è la mia predisposizione. Allora era un semino che vibrava dentro di me e non sapevo ancora che mi avrebbe aiutata in un momento di profondo sconvolgimento. Sono passati gli anni e quando guardo indietro non posso non riconoscere che quando mi sono trovata persa mi sono tuffata in questo fiume di parole. E non l'ho fatto una sola volta, ho ripetuto il tuffo in un secondo momento di crisi e dolore. Il risultato del secondo tuffo è sotto i vostri occhi, è il mio blog. Ma faccio di nuovo un passo indietro. Era il tempo dell'adolescenza e si sa che gli ormoni non aiutano nessuno a stare in pace con le emozione che si provano, anzi, si amplifica ogni cosa, anche la più sciocca. Ma quando accade, tutto ciò che vivi con intensità, non ti sembra mai sciocco, ti sembra serio. E qualche volta forse lo è, ma lo si scopre molto tempo dopo, sfogliando l'album dei ricordi. Ho sempre pensato che il cuore non ha età e che si può provare qualcosa di speciale e sconvolgente come l'amore anche da ragazzini, specialmente se scopri da adulto che quello che provavi allora lo provi ancora, anche se in modo diverso, con la sua evoluzione di sensazioni e sfumature che allora non conoscevi perché non sapevi dargli un nome per riconoscerle. Allora il cuore iniziò a battere con la forza che ha la primavera quando si impone sull'inverno ma... l'onda s'infranse sullo scoglio e si spezzò in milioni di spruzzi. Ogni goccia divenne solida e si trasformò in pezzi di cuore sparsi. Fu dolore e nessuno se ne accorse. In quell'immenso vuoto fecero capolino delle parole, tante parole, così tante che la mia mente voleva usarle solo per tamponare lo squarcio che si era creato dentro. Ma una ferita sanguinante, se viene occlusa, si gonfia, sotto quella che si vorrebbe fosse la crosta, fino a scoppiare. Non mi è mai riuscito bene rinchiudere la sofferenza da qualche parte così presi carta e penna e iniziai a trasferire i miei sentimenti altrove per alleggerire il peso che avevo dentro. Iniziai a scrivere. Scrivevo poesie, scrivevo racconti e, col passare del tempo, il dolore si diluì lasciando sulla carta anche parole meno intrise di lacrime. Imparai da un dolore ma allora non potevo dire quello che sto dicendo adesso perché lo stavo vivendo. Forse, la predisposizione allo scrivere fu il mio salvagente. Adesso, riflettendo su questo concetto, vedo che quando si sta male per un qualsiasi motivo che ci coinvolge fin nel profondo, si aprono delle strade che siamo spinti ad imboccare per continuare ad andare avanti. La natura di queste strade che ci troviamo ad imboccare discende dalla nostra scelta personale e da come siamo fatti. Possiamo scegliere di costruire o possiamo scegliere di distruggere noi stessi. Il dolore che si prova, qualsiasi sia la circostanza che lo genera, è il nostro demone privato, che possiamo scegliere di combattere o di assecondare. C'è sempre un bivio davanti al quale ci ritroviamo. Quando si vuole colmare un vuoto immenso che si crede infinito possiamo scegliere di costruirci qualcosa, accettando di andare avanti anche sotto una costante pioggia di lacrime dove nessuna previsione meteorologica ne saprà dire il termine, oppure aggiungere vuoto al vuoto facendo del male a se stessi consumandosi nel dolore che si prova. E cercare di stordirsi per dimenticare non aiuta mai veramente... Quando soffriamo vediamo meno bene le cose intorno a noi che possono darci una mano a non precipitare maggiormente nel vuoto che sentiamo. Però, qualche volta, qualcosa di positivo affiora in questi momenti e sta a noi avere il coraggio di afferrarlo come fosse una boa di salvataggio e fidarsi. Mi fidai del mio fiume di parole che mi offrì un luogo dove far sviluppare in modo sano la ribellione al dolore stesso. Non era un conforto ma solo una valvola di sfogo inizialmente. Quello che è venuto dopo è nato dal mio cuore che ha preferito rimanere a galla per non smettere mai di vedere il sole ed il cielo azzurro. E' così che può nascere un fiore dentro l'anima. Nasce ogni volta che si riesce a combattere per rimanere vivi senza cedere alle pieghe che il dolore suggerisce come anestetico, come il cinismo. Oggi, guardo il fiore che ho coltivato nonostante tutto, anche se non sempre ho amato associare la soddisfazione dello scrivere alla sua origine perché mi ricordo di ciò che ho provato. Fare pace con questo tipo di cose è un mestiere che impegna per la vita e ripaga soltanto quando si comprende profondamente. Il mio scrivere attuale nasce da un serbatoio di cose da dire in generale che si è trovato sulla strada un desiderio immenso di comunicare interrotto malamente e anche qui il cuore c'entra. Da questo strano corto circuito ho fatto nascere una compensazione per rimanere viva di nuovo. E' stato più facile stavolta perché questa particolare fasciatura la sapevo già fare, l'inconscio mi è venuto incontro, anche se non subito. Tutto ciò però l'ho capito in seguito, quando ho messo insieme tutte le cose, tutti i pensieri e i sentimenti e ho trovato le somiglianze con il passato. La potrei chiamare l'eredità positiva che il dolore mi ha lasciato e mentre scrivo, quando desidero condividere pensieri, mi impongo di vedere il fiore con i suoi colori e il suo profumo. Sta a ciascuno, poi, coltivare il seme che darà origine al fiore che testimonia la sopravvivenza. Quello che non smetterò mai di credere è che ci sia una scelta sempre né smetterò di dirlo, consapevole del fatto che, per vedere la presenza di questa possibilità di scelta, sia necessario ricordarsi di se stessi.

martedì 21 febbraio 2012

Pensando ad una donna dalla voce bellissima... Whitney Houston

Prima di essere una cantante era una donna come tante altre, solo con un dono speciale. Ho ascoltato recentemente dei dibattiti dove gli intervenuti si interrogavano sul motivo per cui delle star così splendenti  se ne vanno prima di quel tempo che la vita concederebbe loro se non facessero abuso di sostanze intossicanti. Accade e quando accade si riesce a polemizzare giudicando sulla base di quello che si vede, di informazioni che arrivano da lontano, che per questo possono anche non essere perfettamente corrispondenti alla realtà. Noi non eravamo lì con loro, con le star che stavano vivendo incubi o sofferenze o pensieri malsani dovuti o meno a droghe o antidepressivi o altro. Noi non sappiamo nulla della loro vita privata finché non accade quello che accade. Corre voce, si dice, sembra che, ma la realtà se ne va insieme alla persona che veniva denominata star. Dolore, errori, pensieri che non si riescono a placare né a fermare, cuori infranti, vite strizzate da altri che pensano solo al guadagno da ricavare, sfruttamento di se stessi per non dire di no quando si è stanchi davvero, vite tirate come elastici che si crede mai si possano spezzare, tutte cose che portano a camminare su di un sentiero pericoloso specialmente se una qualche debolezza non permette di affrontarlo con la sobrietà che serve. Dipendenza da qualsiasi cosa materiale o su di un livello vibratorio diverso, può accadere e accade, come il risultato certo della fine di una vita. E se si potesse chiedere a coloro che sono appena volati oltre, forse, nella maggior parte dei casi di queste star, ci sentiremmo dire che non avevano pensato che potesse accadere, perché la loro mente e il loro cuore vagavano altrove, magari persi nel punto centrale del malessere che stavano provando, senza sapere quale nome dargli. E in questo punto di loro stessi erano solo uomini e donne straordinari ma inconsapevoli. Quello che queste persone lasciano con il loro lavoro, a noi anonimi, sono ancora cose che possiamo amare e che questo sia la loro eredità indimenticabile è cosa bella da pensare, piuttosto del farci sopra una sterile polemica solo per intrattenere alla tv un pubblico stanco di sentire parole senza sentimento alcuno.

lunedì 20 febbraio 2012

Come fare una crema pasticcera senza grumi

Sapete che la crema può impazzire? La si definisce impazzita quando si formano dei grumi di farina e ciò impedisce alla crema di essere perfettamente liscia, vellutata. Ho raccolto alcune ricette per fare la crema pasticcera, in alcune variano le proporzioni tra gli ingredienti, in altre si descrivono procedimenti leggermente differenti ma, negli anni, ho elaborato la mia ricetta personale e questa risulta bene. In cucina mi è sempre piaciuto sperimentare ma, soprattutto, dare il meglio con ciò che ho a disposizione, il che comprende non essere sempre maniacalmente precisa nelle dosi. Trovo che fare così sia più soddisfacente perché richiede maggiore presenza e attenzione e perché quello che si ottiene è unico. Di volta in volta sarà molto simile ma mai esattamente lo stesso. In cucina, credo sia importante metterci molto di noi per rendere ciò che cuciniamo riconoscibile come nostro. La nostra firma è la passione che ci mettiamo, e la passione che ci mettiamo è, oltre al fatto che ci piace, anche la conoscenza del comportamento dei singoli ingredienti. Ciò che amiamo sapere concorre a completare il ricettario. Vi scrivo la mia ricetta per la crema: in un tegame capiente di acciaio, o antiaderente, sbatto le uova con lo zucchero e pochi granelli di sale fine. Per un litro di latte e 125 ml di panna fresca, quella liquida non quella a lunga conservazione (va bene anche 250 ml), sbatto 3 uova intere grandi (4 se sono piccole) e metto un cucchiaio colmo di zucchero semolato per ogni uovo perché non mi piace che sia troppo dolce. Se volete aumentare lo zucchero potete farlo, ma spero senza esagerare :-)
Con la frusta manuale, dunque, lavoro le uova con lo zucchero, infatti più si sbattono e più si scioglie lo zucchero poiché l'attrito del metallo della frusta con le pareti del tegame di metallo genera calore che aiuta la prima "alchimia" che state elaborando. Ovviamente se usate un tegame antiaderente per non rovinarlo dovete usare una frusta che non sia di metallo. Il calore del movimento mentre lavorate le uova con lo zucchero più o meno è lo stesso. Passiamo all'aggiunta della farina, l'ingrediente che dà il corpo alla crema. A seconda dei gusti o delle necessità si possono usare mix di farine o solo farina di frumento tipo 00. Io uso solo farina 00, raramente uso fecola di patate o amido di mais o farina di riso, ingredienti questi ultimi che hanno il potere di addensare la crema o una qualche salsa. L'esperienza mi ha insegnato a osservare che la quantità di farina da aggiungere dipende dalla quantità di uova con lo zucchero e non dalla quantità di latte. Dopo aver sbattuto le uova con lo zucchero si aggiunge la farina setacciata (è irrinunciabile setacciarla poiché questo procedimento aiuta molto a mescolare senza far aggrumare) e si procede per gradi, cucchiaio dopo cucchiaio finché non si raggiunge la consistenza che riteniamo adatta. Questa consistenza adatta dipende dal nostro gusto o dalla necessità di avere una crema più o meno consistente. In alcune ricette si deve fare una crema che poi viene messa in forno a cuocere come ripieno per esempio, in questo caso la crema risulta meglio meno morbida. La consistenza dell'impasto di uova zucchero e farina dovrebbe essere più o meno un fluido colloso e la consistenza di questo impasto sarà esattamente quella che avrà la crema dopo la cottura. Dovreste provare a non avere paura di sbagliare e fidarvi della sensazione, dell'occhio, e se non riesce questa volta riuscirà la prossima quando, ricordando i passi fatti, saprete correggervi a seconda del vostro gusto. Questo è cucinare mettendo parte di ciò che siete in ciò che fate. A parte, dopo aver mescolato uova zucchero e farina, metto sul fuoco il latte con la panna e la vaniglia, solitamente una parte della bacca con i suoi semi o, se non metto la vaniglia, la scorza di limone che non abbia la buccia trattata con prodotti chimici che lo rendono lucido. I limoni non trattati si riconoscono di solito, se chi li vende è onesto, dalle foglie e dalla buccia irregolare. Ci avviciniamo alla parte un po' più difficile, riconoscere quando è tempo di unire il latte al composto di uova e farina, ricordando che è meglio aggiungere la parte liquida a quella che lo è meno e non viceversa, perché facendo così si riduce di molto il rischio che si formino i famosi grumi, e per lo stesso motivo non faccio mai bollire il latte perché la temperatura di ebollizione fa formare i grumi quando unisco la parte calda e la parte fredda della ricetta. Tengo d'occhio il tegame con il latte e la panna e quando vedo che si forma in superficie la tipica pellicola so che devo iniziare, togliendo le bucce o la vaniglia. Prelevo allora qualche cucchiaiata di latte caldo e la aggiungo all'altro impasto mescolando il tutto per amalgamarlo un po'. L'eccessivo calore infatti coagula velocemente l'uovo. Piano piano aggiungo il latte caldissimo ma non bollente continuando a mescolare, io mi trovo bene con la frusta poiché il cucchiaio di legno non permette un movimento ampio a sufficienza per tenere sotto controllo il tutto. Da allora, mai smettendo di mescolare, mi trasferisco sul fuoco basso e lascio che si addensi la crema, cosa che accade entro breve, a seconda di quanto caldo era il latte, quindi da quando sembra bollire conto di tenerla sul fuoco massimo una decina di minuti, sempre mescolando costantemente. Così non impazzisce mai a meno che quel giorno non sia io stessa tanto nervosa da comunicare alla povera crema le vibrazioni sbagliate :-) A parte tutto, ho voluto parlare della crema perché l'applicarmi in ciò mi fa riflettere. Un giorno, mentre stavo pensando a quanto sia facile far virare una cosa positiva in una negativa, mi è venuto in mente il latte. Basta un secondo di distrazione e lo ritroviamo tutto fuori dal tegame. Un disastro bruciaticcio e appiccicato difficile da pulire, senza contare che di latte te ne rimane la metà, se va bene. A questo pensiero ci ho trovato legato quello della formazione dei grumi nella crema. Anche in questo caso la non attenta valutazione della temperatura del latte, secondo il procedimento che di solito seguo per fare la crema, crea un qualcosa che non è ciò che si vorrebbe. Da ciò ne deduco ancora una volta l'importanza dell'attenzione e delle presenza in me mentre lavoro a qualcosa e il fatto che se non amo ciò che faccio non posso dare il meglio di me. Diciamo che per me è così. In cucina, come in ogni altro campo di applicazione, se non siamo lì con costanza e applicazione perdiamo qualcosa di importante e la consapevolezza, che di norma dovrebbe insegnare quello che passa solitamente inosservato, rimane ferma ai box. La stessa curiosità che mettiamo nell'esplorare le cose che facciamo per la prima volta custodisce la forza che pervade l'attenzione che permette di richiamare noi stessi dentro di noi per essere più presenti in ciò che facciamo. L'augurio è quello di non perdere mai la curiosità da dirigere nel campo di applicazione di ciascuno per divertirsi e per imparare sempre senza stancarsi mai perché si sia golosi, non solo di crema, ma anche della conoscenza che serve per farla. E questo vale un po' per tutte le cose. 

lunedì 13 febbraio 2012

La nuda verità

Qualche giorno fa mi sono fermata davanti alla vetrina di una farmacia. All'interno della vetrina c'erano un paio di pannelli pubblicitari e delle speciali calze da donna. Uno dei due pannelli aveva l'immagine di un corpo di donna che stava indossando un body dalle caratteristiche quasi magiche. L'altro pannello reclamizzava una crema antirughe. Ma torniamo al body. L'elenco delle caratteristiche così diceva: sostiene il seno, snellisce il punto vita, contiene la pancia e solleva i glutei. Ottimo! Peccato che poi, tolto il body, il corpo, finalmente libero di esprimersi, racconti una verità diversa dall'apparenza poco prima mostrata. Inutile dire che questo body mai sarà indossato da donne che non ne hanno bisogno quindi, inevitabilmente, il risultato finale, ossia ciò che resta dopo aver tolto tale magico indumento, è la nuda verità fatta da un seno non così tonico come si vorrebbe, un punto vita che non è un punto, una pancia non piatta e dei glutei stanchi, per non parlare della presenza della cellulite, qualora ce ne fosse. Mi sono vista la scena e mi sono messa a ridere tra me e me. Ecco, se credessi davvero nel valore di un simile capo, immaginando la scena sopra descritta mi si rizzerebbero i capelli in testa per il terrore di mostrarmi così naturale a qualcuno e subito dopo correrei di volata a cercare una versione da notte per non smettere mai di apparire in modo perfetto. Mancandomi i mezzi per ricorrere alla chirurgia e non piacendomi le anestesie punterei tutto sul body. Invece mi sono messa a ridere, ulteriore conferma che sono senza speranza dal punto di vista del look. Intendiamoci, non è che non vorrei essere bella davvero fisicamente,  compatibilmente con quello che il DNA mi ha fornito, ma c'è un gancio invisibile tra me e la natura che non mi va di offendere, anche se potrei impegnarmi di più nel curare la mia immagine. In breve, cerco di accettarmi per come sono, rughe, cellulite, glutei inesistenti, seno imperfetto e capelli d'argento che ho da quando avevo vent'anni. Ho visto il tempo passare sul mio corpo e spero sempre di trovare qualcuno che la pensi come me sull'argomento, laddove con serenità si sappia guardare alla confezione d'insieme che esiste nel presente poiché il passato, fatto di tono ed elasticità, non c'è più. E se il tono e l'elasticità scarseggiano per varie ragioni nel mio corpo cerco di mantenerli invece ben presenti e in quantità nella mia regione interiore, in quell'altro corpo più sottile fatto di incredibili sfumature e colori che tutti abbiamo a disposizione. Per una donna, come credo per un uomo, quando si guardano allo specchio senza vestiti, la propria nuda verità ricorda talvolta senza pietà le fattezze umane che abbiamo e non è da tutti poterle cambiare tramite l'abile lavoro di un chirurgo estetico per soddisfare le richieste del mondo delle apparenze. Dopo aver smesso di ridere avendo immaginato, su me stessa, l'effetto dello spogliarmi di quel body, tornando seria, vorrei solo augurare a tutti una cosa, che coincide con quello in cui credo, che possiate sempre avere accanto almeno una persona che vi ami così tanto, no da non vedere i vostri difetti fisici o interiori ma che, pur vedendoli, li ami altrettanto perché fanno parte di voi, e lo spazio che resta sia riempito dalla confidenza e dalla complicità e dal sapersi prendere in giro nonostante tutto, sempre a qualsiasi età.

Emanciparsi dai propri genitori

Quando si viene alla luce, il primo atto materiale che viene compiuto nei confronti del neonato, in genere, è il taglio del cordone ombelicale. Un diverso e più elaborato taglio dalla dipendenza nei confronti dei genitori avviene in seguito. Questo secondo taglio più sottile richiede un tempo lungo per quanto riguarda la vita umana, salvo casi particolari. E non mi riferisco soltanto al fatto che, raggiunta la maggiore età, ci si possa allontanare da casa o si pensi di metter su una famiglia propria, intendo qui il complesso lavoro mentale ed emozionale che porta all'elaborazione della propria personalità in consapevolezza. E questa consapevolezza di chi siamo davvero ce la portiamo ovunque, sia che abitiamo ancora nella stessa casa che ci ha visto nascere sia che un intero oceano ci separi dai nostri genitori, qualsiasi età abbiamo. Il punto non è in tutto ciò che abbiamo di uguale o diverso dai nostri genitori materialmente parlando. Non sono le case, non è il denaro, non è l'istruzione, queste sono tutte cose che non determinano ciò che siamo, sono solo elementi descrittivi temporanei. Cerco di spiegarmi meglio. Sebbene il pensiero comune riconosca in tutte queste cose ciò che siamo io, non trovandomi concorde, guardo più in profondità, dove vedo che ciò che conta sono le cose che stanno appena sotto la superficie ed emergono da essa tramite le reazioni, le quali determinano in modo più sincero chi siamo veramente offrendo un terreno per comprensioni profonde e durature di noi. E' in questo spazio che troviamo le vere somiglianze con i nostri genitori ed è ugualmente lì che possiamo scegliere se ciò che stiamo osservando ci va bene o meno per definire noi stessi. Accettare dei difetti che vediamo anche nei nostri genitori fa parte del passo che ci permette di riconoscere che siamo i loro figli, è un processo piuttosto ovvio e naturale ma al tempo stesso si crea un punto particolare. In questo speciale punto di osservazione, come in ogni altro punto dove c'è consapevolezza, siamo presenti come non mai ed è così che si crea un'opportunità di scelta che permette crescita interiore. Ogni volta che la scelta si palesa si ha libertà e la crescita interiore permette di continuare a nutrire questa libertà. Ciò che viene offerto per la scelta è quello che vediamo far parte dei nostri genitori, quelli che sono i loro pensieri, i loro difetti, le loro manie, poiché riusciamo a vederne alcuni anche dentro di noi mentre l'altra cosa che vediamo sono le cose che sono noi in quanto elaborate e conquistate con le nostre specifiche forze o quelle solo volute senza averle vendute o barattate per avere un accomodamento che non ci appartiene veramente. Il secondo cordone ombelicale invisibile è fatto dei "vizi" che non ci appartengono ma che ci rimangono addosso anche per tutta la vita se non ce ne accorgiamo e se non distinguiamo cosa è noi e cosa non lo è. Qualche volta questi "vizi" sono abilità positive che possono aiutarci a camminare nella vita o a trovare un posto che ci sia congeniale ma sono e restano pur sempre cose che non abbiamo scelto o riscelto una volta che ne siamo divenuti consapevoli. Possiamo anche usare questi stampi che i nostri genitori ci donano insieme alla vita ma un giorno, se vogliamo conoscere davvero noi stessi, dobbiamo affrancarcene comprendendoli, imparando come sono fatti, prima di restituirli ringraziando. E' così che il secondo cordone ombelicale mentale viene reciso, auspicabilmente con la dolcezza che una lenta ma consapevole elaborazione dei pensieri che non ci appartengono porta con sé.

domenica 12 febbraio 2012

"Nel bene e nel male"

Oggi un amico mi ha dato lo spunto per una riflessione a proposito del rapporto di coppia. Mi è venuto in mente ciò che si promettono gli sposi sull'altare e mi sono soffermata sul concetto espresso nel titolo. Nel bene e nel male sembra solo una frase di rito ma credo che rappresenti bene l'essenza dello stare insieme a qualcuno seriamente. La profondità dei sentimenti reciproci dovrebbe essere il fulcro su cui tutto il resto ruota e si adatta mentre si naviga nella vita. Avrei potuto dire anche "si cammina nella vita" ma ho scelto appositamente il termine naviga per rendere meglio l'idea del movimento alternante quando il mare si ingrossa mentre arriva la tempesta. Tempesta che può essere un litigio o un periodo della vita in cui ci si perde un po' rispetto alla rotta normale. Non è detto che la tempesta porti sempre al naufragio specialmente se si può contare sulla robustezza dell'imbarcazione. La forza che tiene unite le assi di questa imbarcazione è la volontà di superare gli ostacoli insieme e più è il convincimento di ciò maggiore è la capacità di resistere alle intemperie. Le assi che ogni coppia usa per la propria imbarcazione sono le cose che essi condividono, ciò che hanno e ciò che sognano insieme. Se accade che un'onda più forte delle altre arrivi a sconquassare lo scafo, se non entrambi, almeno uno dei due dovrebbe provare a ricordare che in un angolo al riparo dalle onde, ancora all'asciutto, c'è ciò che si sta cercando per salvarsi. E questo qualcosa credo sia la capacità o anche solo il desiderio che vibra nel cuore di non ristagnare nell'ovvio, o anche solo la memoria di ciò che ha unito entrambi la prima volta che si è detto di sì. Il mio amico mi parlava del potere di sopportazione, del limite che talvolta si raggiunge in determinate occasioni di stress continuativo, della riflessione sul salvare se stessi dal patimento quando la misura si colma o le forze si assottigliano. Io ho controbattuto perché credo nell'andare oltre non ignorando o lasciando correre ma mettendosi lì, con tutto l'amore che proviamo per il compagno in questione, a vedere cosa si può fare o non fare, dire o non dire, ma soprattutto a vegliare se l'altro è stanco o arrabbiato o sofferente. Entro questa dose di amore è compresa la pazienza che non si esaurisce mai poiché è l'amore profondo che la alimenta. Due compagni di vita spesso sono anche l'uno il migliore amico dell'altra quindi, a maggior ragione, sono due volte legati sentimentalmente e questo, secondo me, non è cosa da poco. Quando qualcuno mi dice che sta rasentando un limite mentale mi trovo a pensare che non trovo scritto da nessuna parte che esso non possa essere modificato. Certe rotture o incomprensioni varie sono quasi sempre originate da questo fatidico limite che sappiamo essere in noi, e lo sappiamo perché quando qualcosa sfiora certi punti nevralgici si mette in moto un meccanismo che ci fa dire che più in là non si può andare. I più attenti avranno notato che ho scritto "può" e non "vuole", perché il volere o meno oltrepassare un limite implica una consapevolezza più approfondita di ciò che attende una nostra decisione in merito, ove si sappia già cosa c'è oltre il limite. Pensare che un limite non può essere oltrepassato rientra in una categoria lievemente diversa, fa parte di ciò che crediamo di noi e si basa spesso sulla percezione delle proprie forze. Laddove si pensi al non potere superare il limite credo si possa allora collocare un terreno che permette esplorazione per il semplice fatto che non si sa per certo cosa ci sia al di là, mentre la forza per affrontare tale esplorazione dovrebbe essere ciò che si prova per la persona amata. Laddove non si voglia superare il limite vedo un freno che esclude a priori il germogliare ex novo di un guizzo del cuore affievolito per colpa del mare mosso. Le guerre nascono a causa di incomprensioni, non ultima quella che riguarda la valutazione del proprio limite di sopportazione. Eppure, ogni volta che ci penso, se vedo comparire il termine sopportazione mi domando inevitabilmente dove sia andato l'amore vero e profondo, quello che si ricorda sempre nonostante tutto, in qualsiasi occasione. Che davvero la stanchezza possa lasciare che venga rubato dalle frasi della vita? Non riesco a crederlo, mi spiace... Debbo però, come spesso accade, domarmi da sola, ricordando che ciascuno ha il suo punto di vista e che questo è la sua stessa vita, mentre io posso soltanto accalorarmi per l'argomento quando vedo che i marosi tentano di affondare qualcosa di bello. Credere nell'amore sincero e profondo che lega due persone vorrei che fosse sempre il mio bastone magico che mai si piega né si spezza.

mercoledì 8 febbraio 2012

Con te non ci gioco più!

Questa è la migliore arma che hanno i bambini per difendersi. Prendere le distanze da chi ti fa stare male, ristabilire i propri confini per non soccombere, si riassume bene così anche da adulti, sebbene la vita non sia un gioco. Un bambino non sa ancora come districarsi nella lettura delle proprie emozioni, ma sa che ciò che prova in quel preciso istante è di vitale importanza e a quello rivolge tutta la sua attenzione per proteggere se stesso. Poi si cresce, o almeno così dovrebbe essere, ma molte volte l'età anagrafica non garantisce che certe reazioni si modifichino. Alcune restano e fanno parte del bagaglio che ci portiamo dietro nel corso della vita. Ma da adulti, nonostante il fatto che si possano usare le reazioni di quando eravamo bambini, entrano in gioco altri fattori a complicare le cose. Crescendo dovremmo essere capaci di distinguere tra i vari fattori che portano al determinarsi di una data situazione, tra atti volontari e involontari compiuti dalle persone con le quali ci relazioniamo, cosa che da bambini non accade. Da piccoli sappiamo a chi vogliamo bene e chi ci sta antipatico e sappiamo che se è l'amico a farci uno sgarbo o a procurarci dolore il sentimento di rabbia o perfino di odio che proviamo è più intenso perché siamo delusi. Da bambini, arrabbiarsi fino a questo punto, porta in sé anche la capacità di riprendere a giocare da dove si era smesso bruscamente, magari non subito, ma in breve c'è speranza che i due che erano amici tornino ad essere tali. Forse perché a quell'età certe emozioni si vivono intensamente e, non avendo pensieri troppo mentalmente articolati, si lascia che le cose siano finché non ci si stufa del broncio e si torna a correre insieme. Forse la capacità di perdonare, in questo caso, non è il perdono come lo intendono gli adulti, ma è una capacità che gli adulti perdono col troppo pensare, è vivere istante per istante ascoltando quello che si muove dentro e che fa muovere il fuori di conseguenza. Una sorta di freschezza che si perde con il crescere se si preferisce usare troppo la testa. Da grandi, al posto delle pause nel gioco, troviamo contusioni, fratture, ferite, punti sui quali si smette di voler discutere perché la ragione che ci anima vuole prevalere a tutti i costi. Qualche volta questo desiderio di far valere a tutti costi qualcosa è la giusta battaglia ma altre volte non lo è, e riconoscere di quale caso si tratta è parte integrante dell'insegnamento che la vita offre. La mia personale sofferenza nel vedere qualcuno che si chiude a qualsiasi dialogo deriva dal fatto che credo nella comunicazione e nella chiarezza di espressione. Non mi piacciono le mezze parole né le mezze frasi né qualsiasi cosa che non affronti anche a lungo la questione, magari è un difetto questo più che un pregio, forse solo la mia caratteristica, ma spalle voltate o silenzi a oltranza mi fanno stare male. Ogni volta che vedo amici che smettono di parlarsi, o lo sento dire di genitori con figli, una parte del mio cuore accusa un colpo perché vedo la sofferenza del tempo, oltre alla sofferenza che porta a tale gesto. La sofferenza del tempo è la tangibile consapevolezza che esso non è infinito e ogni giorno trascorso, rifiutando un dialogo, lo trovo un giorno rubato in qualche modo allo scorrere e alla crescita interiore. Poi, però, dopo aver lasciato lacrimare un po' l'anima vedo altre cose che fanno parte di tutto il discorso. Vedo che la persona offesa, nel senso di ferita, non può essere biasimata per la propria difesa perché, se così si facesse, ci troveremmo a combattere una inutile battaglia per dare la vittoria al guizzo egoista del mettersi il cuore in pace, che proverebbe colui che ha originato il danno, nel vedere sanarsi lo strappo. Colui che ferisce può appartenere a due categorie, quella di chi lo fa consapevolmente e quella di chi si muove urtando accidentalmente. Per la prima categoria non c'è giustificazione, se non quella che si potrebbe trovare sotto molti strati da scavare, alla ricerca di un motivo che porta a fare volontariamente del male a qualcuno, o a volte è solo così, anche se preferisco pensare come l'attuale Dalai Lama quando dice di ricercare sempre la radice di qualsiasi sofferenza per poter comprendere l'altro senza pregiudizi ma, soprattutto, per comprendere dentro di noi il valore del perdono, sia da offrire agli altri sia da rivolgere a se stessi. Coloro che, invece, si muovono urtando accidentalmente, non partono con l'intenzione di fare del male alla persona che amano, anzi, se riescono a rendersene conto subito stanno male se non possono riparare al loro errore. A volte questa presa di coscienza non è immediata ma, quando accade, la cosa che si vorrebbe di più, da quel momento in poi, sarebbe poter stringere di nuovo le mani che non ci sono più e la forza di questo desiderio è proporzionale a ciò che si prova per la persona in questione. Ma, come dicevo, il percorso di coscienza fa vedere altre cose. Fa capire che la soddisfazione personale, che si proverebbe nel vedere un nuovo dialogo, non è importante come il reale benessere che prova chi è stato ferito nel proseguire il suo cammino senza la persona che gli sta chiedendo perdono. Il perdono non si dovrebbe mendicare, ma solo chiedere con tutto il cuore una volta e quella dovrebbe poter essere sufficiente. Se non c'è più alcun dialogo, né l'uno sa più nulla dell'altro, il tempo può passare anzi, quasi sicuramente, è passato in modo diverso per entrambi. Uno dei due può aver dimenticato mentre l'altro può vivere inciampando spesso nel ricordo della ferita inferta o ricevuta. Anche questo fa parte del difendere se stessi per proteggersi. Il mio modo di confrontarmi con le cose non me le fa ignorare mai sebbene talvolta sia utile metterci una pietra sopra, con la speranza che la pietra sigilli il dissolversi di un'ombra e non il cuore o l'anima o la presenza di qualcuno. Io, in quel giardino d'infanzia, vorrei che tutti i bambini continuassero a giocare nonostante qualche incidente di percorso, che la forza del loro animo brioso e i loro sorrisi fossero il tesoro prezioso che rimane anche da grandi quando potrebbero trovarsi a dire "con te non ci gioco più!" ma non lascerebbero poi che questo divenisse un muro così isolante da non concedere più niente. Ma questa è solo una riflessione, un'isola, nella realtà da prendere come si presenta, perché tornando indietro non lascerei che il tempo inghiottisse i giorni così come ha fatto, forse avrei dovuto combattere di più, ma la nota dell'insistenza era già stata suonata anche troppo così anch'io ho lasciato tutto così com'era. E quando non c'è volontà al nuovo dialogo, quando non si vuole e basta, non si può fare altro che lasciare che le cose stiano come stanno, perché sarebbe violenza forzare dove viene opposta resistenza con tanto sentimento. E qui, proprio qui, dove l'altro arriva a vedere questa scena, dove arriva anche il cuore, trovare questo megalitico rifiuto fa abbassare il capo come se una parte della dolcezza che risuona in ogni creatura fosse stata sconfitta senza appello. Che si può dire di più, che si può fare? Ci si arrende se è nella natura di chi guarda farlo oppure si continua ad amare in generale o in particolare. Si convince il proprio cuore che quella volontà così ben esercitata sia di sostegno e mai d'intralcio e questo dovrebbe rendere meno duro accettare la decisione altrui, insieme a tutto ciò che si riesce a comprendere del punto di vista che non ci appartiene. Se poi quel bambino ormai adulto non riuscisse a capire cosa fare e reagisse pur non volendo in quell'unico modo che conosce, sebbene non sia da scusare totalmente per questo, tutto sommato sarebbe da amare lo stesso perché fa parte del dialogo del cuore andare oltre fino a comprendere le reciproche ragioni ma anche, e non meno importante, a ricordare che sia da bambini che da adulti quello che conta è ciò che sentiamo e ciò che ci unisce gli uni agli altri, se ci riconosciamo qualcosa di positivo, nonostante tutto.

La pulizia del proprio tavolo di lavoro

Ogni volta che capita mi stupisco che sia così vero e quasi immediatamente mi stupisco del fatto che me ne stupisco. Mi riferisco al fatto che è facile constatare che si lavora assai meglio quando non c'è disordine tra gli oggetti che si stanno usando. Eppure, finché non si mettono a posto le cose, così da trovare tutto ciò che serve in modo ottimale, quasi non ci si rende conto dell'utilità dell'ordine. Non so se capita anche a qualcuno di voi ma, mentre sono lì a far qualcosa usando più strumenti e materiali e li sposto, poi li riprendo e li sposto di nuovo, li accumulo gli uni sugli altri, mi ritrovo davanti agli occhi un caos e perdo tempo a cercare quello che due secondi prima era lì a portata di mano, così mi ricordo che dovrei impegnarmi a muovere le cose con più attenzione. Immagino che talvolta l'estro creativo non si possa permettere di passare attraverso questa disciplina ma se anche per questa volta chiudiamo un occhio sarebbe bene, alla fine, dedicare un po' di tempo anche al ripristino dell'ordine e della pulizia. Ricordo una lezione al laboratorio di citologia, molti anni fa, era, se non ricordo male, il primo giorno e il professore ci spiegò l'importanza dell'avere uno spazio di lavoro sempre in ordine e pulito. Ci stava insegnando ad organizzare la testa e a coordinarla con le mani e la volontà per poter lavorare sempre in modo da non fare pasticci inutili. Fu un buon insegnamento per quanto mi riguarda, anche se il più delle volte mi ritrovo a lavorare in ambiente ristretto e dunque non posso essere ordinata. Diciamo che, tutto sommato, riesco a gestire lo stesso le cose, anche se non impeccabilmente come vorrei. Stasera, mentre ripensavo a ciò che ho costruito durante il giorno, lavorando sul mio tavolo abbastanza ingombro di materiali vari, mi sono trovata a fare un parallelo con la vita, o meglio con ciò che non vorrei fare nella vita. Non vorrei dimenticarmi delle cose che ritengo importanti, così da lasciare che altre che lo sono meno vi si ammassino sopra, senza che sia questo un mio specifico desiderio. Non vorrei spostare troppo lontano dalla portata della mano una cosa necessaria solo per distrazione. E anche se vorrei sempre sapere dove trovare tutto ciò che mi serve non vorrei avere un tavolo asettico per eccessivo ordine maniacale. Vorrei l'equilibrio e vorrei avere le cose indispensabili e vorrei sempre poterle scegliere. Non sarebbe importante se fossero poche, anzi, in certi casi, avendo meno a disposizione, si riesce a vedere meglio, così saprei come gestirle. Troppe cose e in disordine confondono la mente e i desideri così come le reali necessità, facendo perdere di vista perfino le risposte più ovvie. Cercare di sapere cosa si vuole dalla vita e da noi stessi è una domanda complessa ma un indizio verso la risposta, per me, è fare ordine sul mio tavolo da lavoro per ricavare spazio, anche se non so cosa ci metterò o come lo utilizzerò. Come una pagina bianca che può accogliere parole non ancora scritte, come un tempo prezioso da trascorrere con chi ami.

domenica 5 febbraio 2012

Una casa calda

Anche se in questi giorni l'Italia è nella morsa del gelo siberiano, la mia idea di casa calda va oltre la presenza di un impianto di riscaldamento efficiente. Si dice che le persone che nascono entro la sfera di influenza del segno zodiacale del Toro amino le comodità e che le donne, in special modo, amino il focolare domestico. Probabile che ci sia qualche sfumatura vera in tutto ciò, mi ci riconosco abbastanza, anche se non completamente, in questa descrizione... Ciò che amo di più in una casa è la cucina, non l'angolo cottura, ma la cucina come stanza, dove ci sia posto per ogni cosa e spazio a sufficienza. A pari merito con la cucina amo il caminetto. Ecco il focolare :-)
Una casa però è soltanto pareti fredde, muratura di vario genere, impianti e anonimato se chi ci vive non la fa vibrare con un calore che viene da dentro l'anima. Si può abitare da soli o in compagnia ma se non impregniamo le pareti con la nostra essenza, con la nostra vitalità, il nostro amore per ciò che abbiamo scelto pezzo per pezzo, la casa che abitiamo sarà solo una costruzione che ci protegge dalle intemperie. Ma la cosa realmente importante credo sia un'altra. Quando non mi sentivo a mio agio nella casa dove da sempre abito, quando ero ragazzina, perché la vedevo stretta e non la sentivo mia perché era la casa dei miei genitori, volevo andare via, volevo cambiare tutto per plasmarlo in modo da riconoscere fuori parte di ciò che avevo dentro di me. Ovviamente ero troppo piccola per andarmene di casa quindi, l'unica cosa da fare, era comprendere come rimanere lì senza soffrire per un qualcosa che non si modificava secondo il mio desiderio. Volli provare a vedere le cose in modo diverso. Mentre riflettevo, capii che una casa non è solo quattro mura da arredare là fuori ma la vera casa è dove siamo, dentro di noi. La propria vera casa è un luogo interiore che non smetterà mi di venire ovunque decidiamo di andare, ci seguirà in ogni spostamento, da una casa in muratura all'altra, e si espanderà in essa per colorarla con la sua nota caratteristica, ossia ciò che amiamo e siamo. Questo pensiero lo porto sempre con me anche se qualche volta me lo dimentico e smanio per una casa in pietra in mezzo al verde piena di caminetti e con una bellissima cucina. In questi giorni me lo sono ricordato, vuoi per il gran freddo che c'è fuori, vuoi per il fatto che la compagnia di un affetto ti fa riaffiorare cose che spesso si danno per scontate. C'è poi ancora una cosa che ritengo importante e che contribuisce al calore di una casa, l'armonia tra coloro che ne condividono lo spazio. Non è realistico pensare che vi sia sempre allegria, amore e benessere, ma è altresì vero che ci si può impegnare per ridurre malumori e rabbie varie se si tiene al calore che deriva dall'armonia. Anche se si rientra in casa arrabbiati o delusi o stanchi o con un diavolo per capello, ciò che abbiamo dentro e che si lega a doppio nodo al cuore tramite il filo dell'amore, per rimanere saldo nella mente come proposito positivo per andare avanti nella vita quotidiana, deve volere che la giornata si concluda con dolcezza cercando la pace, non alimentando la guerra. E' un impegno grande come lo è tenere pulito ogni pavimento o finestra o tappeto della casa dove si vive. E' un calore più sottile quello che deriva da questo proposito del cuore ma alla lunga scalda le pareti più spesse e più fredde, anche quelle di un vecchio castello abbandonato. Il calore che scalda davvero una casa ce lo portiamo dentro sempre, anche se non ci crediamo. E quando siamo in due, a condividere un tetto sulla testa, il calore è fatto della volontà di ricercare la chiave della comunicazione meno superficiale perché si ama la pace più di qualsiasi guerra dell'orgoglio.

venerdì 3 febbraio 2012

Accarezzare l'idea

Si usa questo modo di dire quando ci piacerebbe che ciò che ci viene presentato si avverasse. In effetti qui siamo un passo prima della realizzazione di qualcosa. Siamo in quello spazio della mente che interroga i sentimenti per decidere se accogliere l'idea o meno dentro di noi per iniziare a crederci e a difenderla. Le circostanze invitano ad un avvicinamento e noi rispondiamo positivamente dirigendoci verso l'idea seguendo il filo sul quale appendiamo le speranze che, nella meta, vi sia ciò che vorremmo ottenere. L'idea alla quale ci si riferisce non è altro che un progetto o un sogno o un qualcosa che potrebbe essere come un singolo cambiamento che però ci piace. In perno di tutto è il fatto che ci piace altrimenti non accarezzeremmo nulla, anzi. A questo mi viene da associare il comportamento di un gatto che fa le fusa mentre si avvicina morbidamente. Quante volte, vedendo come un qualcosa potrebbe essere, ci troviamo ad accarezzare l'idea come se mantenere la mente attiva e concentrata sul pensiero ci avvicinasse maggiormente. Tutto quello che fa parte del mondo che ancora non è, come può essere un proposito, invita a pensarci per vederlo anche da altre angolazioni. E' un'attitudine umana la facoltà di elaborare mentalmente qualcosa, come se "masticarla" in questo modo aiutasse a renderla sempre più personale e dunque meno estranea. E' la teoria, questo spazio del pensare, che ci rende protagonisti della cosa in modo diverso rispetto a quando poi la stessa cosa la viviamo materialmente, mettendola in pratica. Accarezzare l'idea è un preliminare. Ciò che viene in seguito, mentre viviamo la realizzazione dell'idea che prima abbiamo accarezzato, permette di avere un po' meno tempo da dedicare al regno della mente. L'azione richiede una presenza diversa e, se mi passate la similitudine, direi un po' più tridimensionale rispetto a quando lasciamo che la fantasia galoppi, dato che anche il corpo partecipa.  Nel regno della mente, razionale o meno, non importa in questo caso, l'essere presenti non richiede null'altro se non libertà e meno confini possibile per elaborare i pensieri, e ciò può essere fatto anche mentre ce ne stiamo in poltrona, coinvolgendo assai meno il corpo. Così, accarezzare un'idea, induce talvolta ad indugiare piacevolmente nell'elucubrazione mentale, specialmente se l'idea promette grandi cose o promette di fare stare bene.

Essere immersi in qualcosa di grave

Grave significa anche serio, importante, intenso, doloroso, difficile da sopportare proprio in virtù del senso di "pesantezza" che suggerisce il concetto che vi è legato. Qualcosa di grave implica, talvolta, anche conseguenze non di poco conto. Una cosa grave, quando accade e coinvolge, lo fa in modo praticamente totale. Ci siamo immersi come fossimo in acqua e non tutti sanno nuotare o rimanere a galla. La serietà di quello che accade ha un potere su di noi e questo potere è quello di renderci capaci di ricordare tutto ciò che serve per rimanere in vita. E' come una freccia che punta dritta alla base di quello che siamo e, se non siamo chiusi o spaventati, la gravità nella quale si è immersi stimola una risposta dal profondo, che passa attraverso il rimettere in discussione parte del nostro universo conosciuto. E' richiesta una prova di forza ed è la stessa forza, che sviluppiamo come risposta, a forgiarci o a distruggerci, almeno questo è ciò che penso. Dove penderà l'ago della bilancia dipende da cosa troviamo in quel profondo che viene toccato dalla cosa grave che accade. Se ciò che troviamo è dolore intriso di rabbia, perché magari intuiamo debolezza in noi, sentendoci impotenti o incapaci a reagire, la forza dirompente dell'essenza della ribellione potrebbe, in questo caso, rivolgercisi contro, e l'ago segnerà la strada dell'autodistruzione, parlando all'estremo. Se, però, nonostante la rabbia e il dolore, ciò che abbiamo dentro è una tendenza di base a non piangersi addosso, la forza che porta con sé la ribellione permetterà di reagire, incanalandoci verso la resistenza o la rinascita. Qualsiasi cosa definita grave che accade nella vita ci scuote fin nelle fondamenta e ci impegna nella risposta. Non si tratta mai di una passeggiata, piuttosto potrebbe essere una scalata o un'immersione in apnea. Le cose gravi tolgono il sorriso, spengono quell'entusiasmo brioso senza pensieri che rende la vita un passaggio più leggero in questo mondo. Magari perdiamo la capacità di vedere bene e con chiarezza le cose, iniziando a dipingerle con colori diversi a seconda dei sentimenti che proviamo e, anche se stiamo lottando, non riusciamo a stare stabilmente in piedi. Potremmo avere bisogno di aiuto e potremmo saperlo oppure non rendercene conto, le diramazioni tra le sfumature delle singole esperienze sono molteplici. Ma la cosa che quasi mai si riesce a capire, mentre siamo immersi in qualcosa di grave, è che le soluzioni che cerchiamo, ma crediamo non siano possibili, esistono lo stesso, solo che non riusciamo a vederle. Le vediamo, se le vediamo, quando usciamo dalla situazione che ci coinvolge totalmente. E' la gravità stessa della cosa che stiamo vivendo a cambiare la visuale. Coloro che sono lì, immersi in essa, dipingono tutto ciò che vedono con l'unico colore che trovano a loro disposizione. Nella gravità, nella serietà di un qualcosa, c'è una pressione incredibile, difficile da affrontare e controbilanciare per poter riemergere in superficie per tornare a respirare. Non è però una lotta impossibile e uscirne non significa dimenticare o ridicolizzare la situazione o l'accaduto. Padroneggiare la propria esistenza entro la gravità di un qualcosa tira fuori ciò che si è davvero, quando si tende al positivo, perché si scopre di saper ridurre al minimo tutte quelle cose che comprendiamo essere superflue, vizi e abitudini obsolete comprese. Quando si dice che si tratta di una questione di vita o di morte si comprende subito il grado di gravità con la quale ci dobbiamo misurare, e con "questione di vita o di morte" non intendo il senso letterale ma quello metaforico, quello che ti mette nell'ordine di idee di avere solo un'occasione preziosa da non sprecare per decidere da che parte stare. C'è poi una distinzione ulteriore da fare, secondo me, tra un qualcosa di realmente, ossia oggettivamente, grave e ciò che crediamo essere tale. In verità ciò che cambia, in tale caso, è quello che viene visto da un osservatore esterno che vede se un qualcosa, nel quale ovviamente non è coinvolto, è grave o meno. Per chi vive la gravità della situazione, o crede che ciò che sta accadendo secondo la percezione che ha della cosa sia grave, non c'è differenza poiché il coinvolgimento totale unifica la visione. Ed è comunque una verità che ciò nel quale siamo coinvolti abbia sempre un peso diverso per chi lo vive piuttosto che per chi vi assiste soltanto. Credo che questa consapevolezza faccia la differenza nel momento in cui ci si trovi ad aver a che fare con qualcun altro, accanto a noi, che non vive la nostra stessa situazione o esperienza. Questa dovrebbe essere una delle basi della comprensione reciproca.