giovedì 25 agosto 2011

Nuova vita

Ogni volta che cambia qualcosa in meglio si affaccia alla soglia del cuore la possibilità di un rinnovamento della vita. Quando nasce un bambino, questa nuova vita porta con sé tutto il potere di una gemma che rinasce per la millesima volta sullo stesso ramo e lo pone tra le braccia dei genitori cosicché  la nuova vita sia totale, per tutti coloro che sono coinvolti nell'evento. E' una forma di cambiamento che lascia un segno indelebile e la memoria non potrà mai più fare a meno di registrare ogni sfumatura, ogni respiro, ogni nuova posizione di ciò che già c'era nel cuore, stando a guardare il piccolo essere appena nato. C'è fermento d'entusiasmo intorno, ed occhi vigili affinché nulla di male possa accadere. La cura viene distillata nel cuore e scende copiosa fino alle mani, diffondendosi alle braccia per risalire fino allo sguardo. Tutto ruota attorno al nuovo pernio. Una nuova vita, che è un tutt'uno col battito del cuore di chi la  ama, è inconsapevole della sua forza speciale che opera l'innesco del viraggio del tempo. Anche se l'apparenza è il contrasto tra la vita di un giorno e quella di anni, qui il tempo si sofferma un istante ed inizia a fare un corso diverso. I genitori, curando il figlio, rinnovano il loro tempo imparando a vedere la vita con gli occhi del bimbo che esiste sempre in ciascuno di noi e, contemporaneamente, sanno che loro sono la guida e non lo dimenticano più. Un bambino che cresce e sa di stare crescendo è saggiamente orgoglioso di essere capace di fare da ponte tra la spensieratezza e la responsabilità. Questa è in parte l'anima di un genitore. E qui, in questo tempo, e in questo spazio di vita rinnovata, il cuore risplende con tutti i colori che ha a disposizione per illuminare il cammino ancora da percorrere e perché non manchi mai la luce al nuovo nato. E, sempre qui, l'egoismo che nasce dalla stanchezza di vivere si infrange senza lasciare traccia. Non serve più, per affermare se stessi con amore, adesso, c'è tutto quello che serve e nulla di più, una nuova vita. Dedicato a D. a S. e a D.

La manutenzione del fuoco dell'entusiasmo

L'entusiasmo è una forte emozione interiore, uno slancio appassionato che collega in modo diretto la parte più sincera di noi con l'oggetto che suscita una tale emozione, e lascia che il cuore partecipi grandemente alla sua espressione. Questo lo dico provando ad ascoltare ciò che ho dentro in questi casi. Mantenersi sinceri interiormente permette di avere questo filo diretto con le cose che riconosciamo, a pelle, essere speciali per noi, e non ci fa vergognare di esprimerlo con tutta la sua potenza. Questo fuoco, come ogni altra fiamma che vive in un focolare, ha bisogno di manutenzione per non raffreddarsi. E, credetemi, è facile non accorgersi del suo raffreddarsi. Associo nella mia mente l'essenza dell'entusiasmo ad allegria, a benessere interiore, a pensieri dai colori vivaci invece che a pensieri come nubi pesanti e color del piombo, a risate, a quella meravigliosa sensazione di leggerezza che è la spontaneità. Tutto questo permette di far fluire l'entusiasmo che, a sua volta, permette di essere disinvolti in mezzo alle situazioni e sa scacciare, con estrema eleganza, ogni paura di media intensità. E' intrecciato alla passione poiché condividono lo stesso focolare ed è innegabile quanto sia piacevole esprimere il proprio amore profondo attraverso l'entusiasmo della passione. In tutto questo c'entra anche l'amore. Se non ci fosse il cuore a dirigere le danze o a dare la nota d'avvio poca forza avrebbe l'entusiasmo per qualcosa o per qualcuno. E dunque, lì vicino al focolare, mai devono mancare trucioli d'amore per ravvivare il fuoco qualora si stesse raffreddando troppo. I ciocchi stagionati, accumulati per mantenere viva la fiamma, sono fatti con la parte migliore di noi, quella che combatte ogni giorno per non farsi sopraffare dalla paura che ghiaccia e dal coraggio che mettiamo ogni volta che scegliamo di esprimerci nonostante l'ansia da prestazione. Ogni tanto serve un soffio verso la fiamma, che sia lieve come un bacio dato con dolcezza, per far comprendere al fuoco che vive che desideriamo continui ad esistere. In tutto questo però mai, mai, si dovrebbe frenare lo scorrere brioso dell'entusiasmo, equivarrebbe a gettare acqua nel focolare o a lasciare che la fiamma si esaurisca, ignorando il suo grido. Solo che qualche volta, passando per caso da certe parti dentro di noi, si scopre che quel fuoco si è raffreddato e, se si sa guardare anche solo un po' tra le sue fiamme, si può riuscire a vedere ognuno di quei momenti in cui si è sostituito il guizzo vivo dell'entusiasmo con un più freddo ragionamento. Si è perso l'attimo fuggente che si è estinto nella fiamma che si è ridimensionata, anche se non si è ancora spenta del tutto. E, continuando a guardare, si vede il dispiacere per aver interrotto il fluire dell'espressione di se stessi in favore di ragionamenti lenti e intricati, che più spesso fanno perdere la strada, come se quel filo diretto del quale parlavo all'inizio si stesse piano piano intrecciando, senza portare memoria della posizione dei due capi del filo stesso. Saper dosare l'entusiasmo qualora ci si rendesse conto che è destabilizzante, va bene, fa parte dell'imparare a gestire se stessi nei confronti degli altri. Personalmente ho vissuto anche questo, ma finora non avevo guardato tra le fiamme del mio fuoco e quello che ho visto mi ha fatto comprendere di averlo raffreddato. Avrei voluto capire quel che stava accadendo ma in realtà qualche lacrima e il dispiacere hanno agito al posto mio e non mi sono resa conto che tutto il fuoco si era affievolito. Era passato di lì un vento gelido. Oggi ho visto il guizzo dell'entusiasmo dentro di me, era sano, vivo, ma è stato smorzato da pensieri e ragionamenti su come o cosa era meglio fare per rispettare gli altri. Il risultato è stato che non ho seguito il mio cuore come avrei voluto, come ero abituata a fare tempo fa. Questo velo su cui si è smorzata la fiamma non impedisce al sentimento che la genera di essere ugualmente forte, mi avverte soltanto che mi sono dimenticata di alcune cose fondamentali in cui credo. Quindi, se sentite quel guizzo speciale di entusiasmo che nasce dal cuore e alimenta la passione, cercate, se potete, di non ucciderlo maldestramente perché, ricordatevi di una cosa, esso non morirà, ma soffrirà per non essere passato con gioia attraverso tutto ciò che siete, come foste un canale libero, senza frontiere alle quali fermarsi.
Cara D., ti chiedo di scusare questa specie di zia che oggi ha sentito una grande gioia sapendo che sei nata, ma è rimasta intrappolata in alcune maglie di una rete invisibile con qualche nodo ancora da sciogliere e non si è precipitata, come voleva, lì dove sei venuta al mondo, pur sapendo che non ti avrebbe vista lo stesso. In fondo, però, ci sarei stata, anche con il corpo, invece di essere sempre e soltanto, accanto a qualcuno, con la mente.

martedì 23 agosto 2011

Queen - 'Breakthru'

Quando stai per arrivare alla meta

Non sono mai stata una sportiva praticante ma le volte in cui mi sono cimentata in gare varie avevo una meta da raggiungere davanti a me. Poi ho notato che ogni sfida quotidiana che richieda un discreto impegno è come una gara che pone di fronte la meta. Dallo sport mi sono trasferita nella vita e non ho trovato grande differenza tra il combattere una battaglia e il gareggiare. La meta è differente ma l'impegno richiesto è quasi lo stesso. Ricordo una gara di salto ad ostacoli quando andavo a cavallo, la preparazione fisica e l'attenzione per ricordare come dirigere al meglio le proprie forze e quelle del cavallo, le accortezze per  non sbagliare grossolanamente. Quando inizi la competizione, una qualsiasi gara lo è, come è una competizione avere a che fare con gli altri in ambiente lavorativo, e con se stessi quando si desidera incrementare la propria conoscenza del mondo, ebbene, quando inizi ti senti avvolto dalla situazione in modo così totale da accantonare brevemente l'idea della meta. Almeno così è per me. Mi interessa di più il percorso. Ogni cosa intorno cattura l'attenzione e questo è il grado dell'impegno che impieghiamo per fare ciò che stiamo facendo. La meta, pur avendola come desiderio principale, quando stiamo concorrendo, è comunque lontana all'inizio del percorso e lo si sente, così come si arriva a sentire  la vicinanza della meta quando si sta per giungervi. Chi brama vittoria potrebbe non rendersi conto della posizione della meta dal momento che la sente costantemente presente in sé. Chi ama partecipare può riuscire a sentire qualcosa in più. Mie illazioni. Comunque sia, tutte le volte che mi sono trovata nei pressi della meta, anche se non ero vincente, ho sentito emergere un pensiero. Questo pensiero è la consapevolezza che il percorso, o la gara alla quale sto partecipando, sta per concludersi, come se si allentasse la morsa della volontà che mi ha tenuta impegnata fino a quel momento e questo spazio appena ricavato potesse ospitare una domanda: "e dopo?". Piccolo quesito impertinente e spiazzante. Non amando poi così visceralmente la vittoria, benché mi renda contenta l'affermazione e l'eventuale valorizzazione di me stessa, come è abbastanza normale che sia, mi trovo a dover ascoltare questa domanda e a sentirmi chiamata a rispondere in qualche modo, come se la vita comunque mi dicesse che non ci si ferma mai. Fermarsi dentro una eventuale vittoria provoca una strana cecità mentale perché ogni glorificazione dell'ego ha questo rovescio della medaglia. E tuttavia è vero che non è nella vittoria alcun capolinea significativo per l'evoluzione personale. E' l'inglobare questo capolinea nel percorso e non idolatrarlo il reale insegnamento per la crescita personale. Rimanere se stessi nonostante la fama, qualora la vittoria ne portasse, è la sorgente del benessere. E con questo nessuno nega il fasto di una vittoria né ciò che essa porta con sé in benefici vari. Tutto sempre dipende da come lo gestiamo. Ho messo a confronto due mie vittorie, differenti fra loro, l'una per aver scritto un racconto e l'altra per un problema fisico. Il racconto ha avuto il suo premio materiale e gli onori momentanei di chi ti fa i complimenti per come ti sei distinto. Ammirazione per delle capacità che altri in quel momento non hanno. L'altra vittoria, benché forse non così completa come vorrei e sovrapposta adesso a nuove battaglie diverse ma sullo stesso campo fisico, è esistita senza clamori degni di una vittoria. Non era forse anche quella una vittoria? Non aveva forse anche quel percorso una meta da raggiungere? Ogni battaglia personale che sfocia in una vittoria o nel raggiungimento di una meta importante non ha le luci della ribalta. Perché? Perché solo gli atleti che gareggiano possono disporre di tali luci? Perché le vite che combattono per rimanere tali non vengono menzionate? Eppure chi vive tali sorta di gare avrebbe in sé il mondo intero da raccontare, avrebbe gamme infinite di sentimenti ed esperienze da raccontare e da condividere... Chiedo scusa per la digressione... Il tema era la bolla di incertezza che si crea poco prima di giungere a compimento di qualcosa, al fatto che se la si sente si deve poi provare a rispondere a quella domanda che ti chiede cosa accade dopo. Dopo essere giunti in vetta cosa accade? Se si trattasse davvero di una vetta, per andare oltre e tornare verso la propria casa, ci sarebbero due sole soluzioni. La prima, scendere a valle rifacendo il percorso inverso o scegliendo di passare da un'altra via. La seconda, volare. In ogni caso, una volta giunti a toccare la propria meta, si deve continuare il percorso, magari verso altre mete, ma il senso è il movimento, non la stasi. Anche metaforicamente parlando, crogiolarsi nella vittoria conseguita, equivale alla stasi. E la vita, come dico sempre, è movimento, e c'è movimento anche negli elettroni che costituiscono gli atomi delle molecole che formano una roccia millenaria.
Si è segretamente felici quando si percepisce la meta che si avvicina, specialmente se il percorso è stato lungo e accidentato fino a quel momento. La meta è come una liberazione se il percorso è stato brutto da vivere. Come quando si sente che la notte sta lasciando il posto all'alba, ci si sente bene anche in questo caso. Allora il cuore che palpita raccomanda all'entusiasmo che scalpita di ricordare che ogni meta lascia il posto a qualche nuovo percorso o gara, con o senza riposo nell'intermezzo.

domenica 21 agosto 2011

Esiste realmente un motivo per amare qualcuno?

Qualcuno potrebbe rispondere che "sì, c'è, perché quando mi sono innamorato/a di te sono stato colpito/a da quella data caratteristica che ti distingue dagli altri" oppure "ti amo perché..." più in generale. Eppure non riesco a convincermene totalmente, pur avendo anch'io raccontato a me stessa qualche perché. E' un bisogno profondo sapere le motivazioni per un qualcosa che ci coinvolge. La mente ha questa insaziabile  fame di conoscenza, fatta di spiegazioni che riescano a mantenerla in sicurezza, per poter avere sempre sotto controllo tutte quelle informazioni che, in realtà, sono sentimenti e sensazioni, elementi, questi, che nascono nel cuore o a sud di esso. Fin da bambini andiamo a caccia dei perché, ci servono per conoscere le cose con le quali abbiamo a che fare. Il mondo ci interessa così come ci interessa sapere ciò che dentro di noi ha la tendenza ad essere sfuggente. I sentimenti, specialmente, non si manifestano subito con chiarezza cristallina, salvo alcuni casi. Ci interroghiamo costantemente per cercare di fugare i dubbi, inizialmente, e poi per cercare conferme. Difficilmente riusciamo ad essere tanto stabili ed in equilibrio da evitare di farsi qualsiasi domanda. L'insicurezza di ciò che noi per primi sentiamo e per ciò che prova l'altro sono le fonti maggiori di domande che cercano motivazioni valide come risposte. E' sempre una necessità imperante. E nel territorio dell'amore tra due persone ogni silenzio, ogni cosa taciuta e poi scoperta casualmente che ci disilluda o vada in qualche modo contro le nostre aspettative, ogni parola insincera creano il rumore di fondo che destabilizza il rapporto se esso è nato da delle motivazioni precise piuttosto che dall'aver riconosciuto un sentimento indefinibile dentro. Se il perno su cui ruota l'amore tra i due componenti della coppia è come una colonna di luce che va da cuore a cuore i motivi di attrito o le incomprensioni che potrebbero sorgere lungo il cammino sono come la schiuma dell'onda che si infrange sulla riva e si disperde senza traccia, questo perché l'amore è più forte e pesca in profondità. Laggiù, in profondità, le sciocchezze vengono viste per quello che realmente sono e l'unica necessità del cuore, laddove ce ne fosse bisogno, è non smettere mai di comunicare e di volersi comprendere davvero senza lasciarsi ingannare da ventate passeggere anche se, per insicurezza personale, potrebbero apparire come un vento che spazza via tutto. Vivere accanto a qualcuno è contemporaneamente facile e difficile ma, molto, credo dipenda dal punto di vista di chi è coinvolto. E un'altra cosa non credo sia così vera, credo che, anche se le persone si avvicinano le une alle altre per un motivo, per un dato perché che sono riuscite ad isolare, o che salti agli occhi in maniera evidente, poi in fondo ci sia sempre qualcosa di più che va a creare il legame. Per qualcuno non ci sono motivi specifici per giustificare l'amore che provano, lo provano e basta e, nonostante la difficoltà nell'esprimere ciò che hanno nel loro cuore, amano con tutto ciò che hanno e che sono. L'assenza di un motivo forse permette di darsi in modo più totale pur avendo come rovescio della medaglia una vulnerabilità maggiore. E questo perché mettersi in gioco totalmente,  non mette al riparo da eventuali catastrofi. Ogni volta che tratto argomenti come questo, che hanno più opzioni per considerarle da vari punti di vista, cerco sempre di non dimenticarmi mai che per ogni persona l'esperienza è differente perché diversi sono i caratteri, diverse le abitudini, i modi di pensare, diversi i contesti, ma, soprattutto, diversa è la consapevolezza che ciascuno ha di se stesso. La mia iniziale domanda, che è il titolo di questo post, nasce dalla riflessione dopo aver osservato me stessa e ciò che c'è  intorno a me. Se classificassimo i motivi per cui ci piacciono le persone come particolari caratteristiche che preferiamo potremmo anche vedere noi stessi attraverso uno specchio particolare, infatti le nostre scelte molto sanno raccontare di noi. Siamo dotati di gusto su tutti i livelli possibili, e lo usiamo per fare delle scelte, è normale amministrazione quotidiana. Potrebbe essere quasi sconvolgente per qualcuno considerare che possono esistere persone per le quali le scelte passano da altri canali, o che in realtà certe scelte non sono tali ma sono "riconoscimento" della cosa giusta, percezione che non passa dalla mente ma dal cuore. Se fossimo fiori potrei dire che in questo immenso prato dove siamo qualcuno è in forma di boccio, altri sono appena sbocciati, altri ancora sono in piena fioritura. E, in questo prato metaforico, nessuno dei fiori giunge a sfiorire perché la conoscenza e la consapevolezza incrementano e mantengono la fioritura e mai la fanno regredire. Così è ciascun essere umano in questo mondo. Tornando però alla realtà quotidiana, pensare di non avere un motivo per fare o sentire qualcosa è inusuale. Amare con o senza un motivo non dovrebbe creare schieramenti né scuole di pensiero le une migliori delle altre, si tratta di fare una semplice constatazione a livello di pensiero e di osservazione. L'esistenza degli uni, che hanno un motivo per amare, o degli altri, che amano senza aver bisogno di un motivo, è contemporanea così come esistono tutti insieme i fiori nel prato della conoscenza. La mia personale esperienza mi fa preferire il flusso d'amore senza motivi per due ragioni. La prima è che, quando mi sono chiesta perché mi piaceva quella data persona, inizialmente, non ho saputo rispondere ma, scavando, ho trovato tante risposte tutte di peso equivalente che andavano dai particolari dell'aspetto fisico alle sensazioni forti che provavo in presenza o in assenza della persona in questione, o da particolari del carattere o delle abitudini. Tutto, insomma, aveva uguale valore e contribuiva a formare non un'immagine precisa della persona, come invece si sarebbe indotti a pensare dal momento che molti sono i particolari memorizzati e accettati nel cuore, ma una sorta di essenza, come un profumo distillato e irripetibile che è la persona amata. E non ti sbagli quando lo riconosci. La seconda è che non sono mai stata così bene e in armonia, come se questa totalità vivificasse, nonostante il fatto che si percepisca che il numero di motivi validi sia quasi infinito e si arrivi ad ingarbugliare la mente.
Poi penso a coloro che si lasciano perché il motivo che li aveva uniti viene a mancare. A volte si sente dire che anche una data abitudine, che prima veniva apprezzata, poi diventa un incubo da sopportare, e questo nasce dal fatto che si cambia nel corso della vita, anche involontariamente. Cambiare è una realtà, e questo vale anche per quelle impercettibili modifiche che poi assumono un ruolo nel comporre l'insieme. Pensare di essere sempre uguali a noi stessi non tiene conto dell'importanza dell'evolversi. Ma se l'amore si riversa sul particolare, come si può pensare che riesca a mantenersi vivo, per la persona nel suo insieme, il giorno in cui il particolare si modifica? Potrebbe, certo, non è impossibile ma, se accadesse, sarebbe la conferma che in realtà il sentimento che si prova per quella data persona è più profondo di ciò che si credeva e che il particolare era solo un di più nell'insieme delle cose.
Amando l'essenza e il cuore di una persona, accettando con amore i cambiamenti fisici dovuti al tempo o ad altri frangenti, e i possibili cambiamenti dovuti a cose apprese e comprese, si può trovare meraviglioso poter osservare, nel corso della vita, le trasformazioni del suo volto, così come l'imparare a riconoscere e comprendere le varie espressioni senza dover interpretare nulla, facendo vibrare nel silenzio l'intesa. Se un reale motivo per amare qualcuno c'è, direi che pensare di sentirsi più vivi accanto a chi si ama sia un dono speciale per entrambi i componenti della coppia.

giovedì 18 agosto 2011

Elvis Costello 'She'

Porgere l'altra guancia

Questa breve ma intensa frase si presta a più di una interpretazione. Vi racconto, qui, la mia. Fin dal giorno in cui l'ho sentita dire, non ricordo le circostanze né quando di preciso, molti anni fa, ho lasciato uno spazio in me per poterla comprendere davvero, non soltanto accettando ciecamente il significato dato da altri, chiunque essi fossero. So che per anni non comprendendola, per il fatto che mi sfuggiva sempre il concetto, l'ho lasciata lì, in silenzio, in attesa. Quando sono stata abbastanza grande per capire anche concetti astratti o filosofici l'ho sfiorata e ho compreso che si tratta di un insegnamento. Poi l'ho lasciata ancora lì, imparando altro. Un qualsiasi insegnamento è composto di una parte teorica e di una parte pratica e, nel caso del porgere l'altra guancia, la teoria è costituita dalla comprensione che raccogliere la provocazione, secondo me, porta violenza, conflitto e non pace. La pratica in questo caso non è di facile applicazione perché richiede la volontà di gestire la situazione evitando lo scontro. Ho avuto modo di incontrare situazioni nel corso della vita dove una delle opzioni per proseguire il cammino era porgere l'altra guancia, ossia non raccogliere la provocazione che mi avrebbe fatto essere qualcuno che non volevo essere. Porgere l'altra guancia come metafora permette di sintetizzare l'atto non di lasciare che qualcuno o qualcosa come una situazione prenda il sopravvento su di noi ma l'esatto contrario. Paradossale? Riflettendo un attimo in più direi di no perché se l'avversario si aspetta di provocare una reazione pari a quella che lui stesso ha provocato per poter iniziare la lotta, si trova spiazzato senza la nostra partecipazione all'azione. E il gioco passa in mano nostra. Se non si getta olio sul fuoco, o se non lo si alimenta in alcun modo, prima o dopo sicuramente si estinguerà. Scegliere la non azione sotto forma di porgere l'altra guancia richiede maggiore coraggio dell'accettare la provocazione, perché in certe occasioni avere la presenza di spirito per ricordarsi le cose giuste non è semplice. Tutti lo sappiamo fin troppo bene quando perdiamo la pazienza anche solo per cose di poco conto. Se sai profondamente che la cosa giusta è mantenere la pace e non accettare la guerra, porgere l'altra guancia con intelligenza e saggezza è l'arma che hai alla cintura ogni giorno. E' uno stile di combattimento diverso, non cruento, non è dabbenaggine, come potrebbero pensare gli orgogliosi che preferiscono non perdere la faccia apparendo deboli ad occhi altrui avendo porto l'altra guancia. Trattando di una situazione, invece di una persona, la sostanza del porgere l'altra guancia è riuscire a fare la scelta giusta per gestire la situazione stessa. Anche una situazione può essere provocatoria nei nostri confronti se ci sono punti di essa che vanno a sfiorare nervi scoperti. Situazioni che fanno rispondere con rabbia ne sono un esempio. In questo caso nessuno gode del fatto che tale è stata la nostra risposta, nessuno se non noi sentiamo addosso la violenza della rabbia. Sentirsi impotenti a fare qualcosa può indurre questa reazione. Alla fine chi sta male siamo soltanto noi. Mi si permetta di pensare che la rabbia non è un sentimento benefico. E dunque, comprendendo ciò, perché non scegliere il concetto di base del porgere l'altra guancia come soluzione alternativa allo scoppio di veleno interiore? Che cosa c'è da perdere, se vi piace pensarla in tali termini, rinunciando alla rabbia? E' noto che la rabbia porti cecità mentale momentanea, perché in quel frangente si smette di ragionare, di pensare con equilibrio, e si libera in un tempo breve una energia concentrata fatta di malessere, talvolta mescolato, consapevole o inconscio. Non cedere alla rabbia, porgendo l'altra guancia dell'anima, è volere avere la presenza di spirito per continuare ad avere attiva la facoltà di pensiero, nonostante tutto, per scegliere una risposta diversa. Anche se non riesce sempre porgere l'altra guancia, né talvolta può riuscire farlo completamente, va bene lo stesso, purché ogni volta si desideri la pace invece della guerra con le sue costanti provocazioni e distruzioni. E non credo si possa evitare di notare che per distruggere qualcosa serve sempre una frazione del tempo impiegato per costruirla.

mercoledì 17 agosto 2011

L'insostenibile pesantezza del prendersi troppo sul serio

Innanzi tutto una distinzione fondamentale, prendersi sul serio non equivale all'essere definito una persona seria. Spesso, quando sento dire di qualcuno che è una persona seria, ho subito, dentro di me, l'immagine di qualcuno che ha delle qualità di pregio, che non si lascia corrompere facilmente. In altre parole, di questa persona ti puoi fidare e questo fa sì che si sia sollevati, almeno in parte, dalla preoccupazione di un'eventuale pugnalata alle spalle. Una persona seria è dunque onesta e conosce il valore della responsabilità. Se ne ha un ritratto comunque positivo.
Prendersi troppo sul serio è legato all'importanza personale, a tutto ciò che percepiamo di noi in modo da credere che la forma che abbiamo, costituita dal carattere che ci riconosciamo e dai punti di riferimento che abbiamo imparato ad usare, è un qualcosa di fisso. Credere che questa forma di noi, come ci conosciamo fino a quel momento, è una cosa fissa è come cristallizzarla e la consistenza di un cristallo, in genere, è solida. Una cosa solida, difficilmente siamo portati a pensarla fluida, per definizione e, solitamente, un solido che occupa uno spazio definito ha una massa e un peso. Se anche noi siamo così, apprendere cose nuove può non avere in sé la forza sufficiente per farci tornare fluidi, come in realtà saremmo per natura. E tutto quello che riusciamo ad aggiungere al bagaglio di cose apprese, automaticamente, si cristallizza non appena entra dentro di noi quando ci prendiamo troppo sul serio. La rigidità dell'essere, sotto forma di eccessiva serietà nei confronti di se stessi, porta a rispondere a stimoli e provocazioni con maggiore veemenza del necessario. Di una sciocchezza si tende a fare un dramma. Si perde quel sorriso interiore che sa addolcire i colpi che ci vengono dati perché cancella, talvolta totalmente, la capacità di comprensione che avremmo se riuscissimo ad essere più morbidi. Ed essere "morbidi" interiormente non significa essere deboli, significa usare più pensieri, informazioni e sfumature varie per cercare una soluzione equilibrata, al posto dell'usare un solo pensiero, o convinzione, che taglia ogni cosa a seconda del suo punto di vista ristretto. Un bambino molto piccolo "vede" le cose, all'inizio, singolarmente, altrimenti non potrebbe comprenderle poi, crescendo, il suo sviluppo mentale permette di integrare le varie informazioni. La mancanza di integrazione delle varie informazioni a disposizione porta a continuare la formazione di se stessi sulla base di cose singole e talvolta, se si è troppo severi con se stessi, dunque si inizia anche a prendersi troppo sul serio, il risultato intuitivo, secondo me, è il cristallizzarsi eccessivamente in una data forma. Continuando nel ragionamento va da se che qualcosa di cristallizzato sia solidamente più materiale e ciò sottrae, a ciò che abbiamo dentro, l'abilità di essere morbidi, fluidi, capaci di adattamento. E adattarsi, in essenza, non è altro che riempire, senza lasciare spazi vuoti, luoghi di qualsiasi dimensione e forma. E riempire questi spazi in modo totale, indipendentemente dalla forma che hanno, suggerisce completezza. E la sensazione di completezza rende fluidi perché è così che ci si sente e, se mai vi è capitato di sentirvi completi, ricorderete sicuramente cosa si prova quando tutto in voi scorre bene e senza ostacoli né vuoti da scavalcare. Quello che ho descritto è solo uno degli aspetti, solo una delle sensazioni che concorrono a far sentire la morbidezza interiore di cui parlo, ricordando sempre, però, che ciascuno deve aggiungere del suo per completare il quadro della percezione e della consapevolezza. Siamo diversi gli uni dagli altri come infinite sfumature ma ciò che ci accomuna è la ricerca su di un terreno comune.
Se prendersi sul serio per qualcuno è di vitale importanza, ben poco si può fare per cercare di far vedere al soggetto in questione il suo essere da un punto di vista diverso. Sottolineo di far vedere, non dico di far cambiare. Nessuno cambia veramente e profondamente se non riesce a vedersi per come è davvero, e neppure se prosegue il suo percorso senza mai mettersi in discussione. La rigidità non permette facilmente l'accettare di mettersi in discussione e da qui discende la facile mossa del presentarsi dicendo che "sono così, non ci posso fare nulla". Mi si permetta una parentesi sull'argomento. Spesso ho sentito queste parole e ogni volta mi sono chiesta come mai, se tanto bene si percepisce se stessi da sapersi autodefinire "essere così", come mai dunque la frase seguente è poi una dichiarazione di impotenza ad operare su se stessi. Se riesci a vederti riesci anche a modificarti se scopri lati di te che non ti sembrano piacevoli o che, con il loro "vizio" di essere in tal modo, ti rendono la vita quotidiana come non vorresti che fosse. Se sai di essere perennemente scontroso, per esempio, chi o cosa ti impedisce di lavorare su te stesso per comprendere il motivo che ti porta ad essere, o a sentirti scontroso? Se non ci riesci da solo puoi parlarne con qualcuno, amico o terapeuta; perché preferisci rimanere così se ti rendi conto di essere in un modo che non ti fa stare in pace con te stesso? Sempre, ovviamente, che non si sia orgogliosi di essere dei tipi scontrosi, e si stia benissimo così. Ma se un velo di malessere cala sulle parole che stiamo dicendo la cosa cambia. Lo scopo nel curarsi di se stessi dovrebbe essere il cercare di sentirsi bene e, secondo me, la migliore sensazione di benessere si prova sperimentando "morbidezza" piuttosto che rigidità nell'animo. La rabbia, lo scaldarsi con un nonnulla di provocazione, il non accettare le cose, i tagli netti, l'offendersi immediatamente, il non perdonare e il non perdonarsi, sentirsi eccessivamente in colpa o eccessivamente responsabili di qualcosa, non attirano pace nella vita e discendono da un malessere che ha radici da esplorare per non far crescere eccessivamente il conseguente prendersi troppo sul serio. E tanto più la cosa è grave se questo prendersi troppo sul serio non è una naturale piega del carattere ma è stato indotto da un qualche evento traumatico che dorme nell'inconscio.  E, tutto questo, a me sembra sia un peso che, ad un certo punto della vita, diventi insostenibile, avendolo sempre sopportato fin quasi ad abituarsi ad esso. Tutto, comunque, sta nell'accorgersi di questo, sia da soli, sia per mezzo di qualcuno accanto a noi che ci apre almeno un po' gli occhi sull'argomento. La cura più adatta risiede nella comprensione del cuore, laddove all'interno dell'amore, tutto sa scorrere fluidamente e con completezza. Nel cuore non ci sono spigoli e la luce mai ne possederà.
RBBetween

lunedì 15 agosto 2011

L'anima del bosco (e la definizione di anima)

Pensando quale titolo dare a questo post, ho poi scelto di scrivere ciò che ho scritto. Ma mi trovo nella necessità, anche personale, di definire il concetto di anima. Che cos'è l'anima? Si usa questa parola sia per attribuirla a qualcuno sia a qualcosa. Deve dunque essere rappresentativa di un concetto, e capace pure di sintetizzarlo. Questa volta non voglio consultare il vocabolario, voglio provare a darne io una spiegazione in base  a ciò che so e che sento. E questa sarà la premessa di questo post. Spesso ci sono domini della conoscenza umana, fatta di parole, nei quali queste stesse entità dell'espressione arrivano ma non riescono a proseguire oltre, di conseguenza, per raggruppare le sensazioni percepite, servono vocaboli il più possibile affini, in significato, alla percezione stessa, e se non ve ne sono di disponibili, si possono fare tre cose soltanto. La prima è coniare un vocabolo che diventi rappresentativo di quel che si vuole esprimere; la seconda cosa possibile è usare una moltitudine di parole per dipingere, tramite metafora, ciò che si desidera far comprendere; la terza possibilità è arrendersi al fatto che non ci sono vocaboli per esprimere ciò che si sente e lasciare dunque che il silenzio viva in quel punto per permettere la sola esperienza di percezione, rammentando che tutte le parole che verranno usate per definire quel dato concetto, estrapolato dalla sensazione, saranno capaci soltanto di abbozzarne il contorno e mai riusciranno, senza l'esperienza personale, a delinearlo completamente. Anima è una parola, ma credo che non sia sufficiente per comprendere davvero cosa significhi, se non ci mettiamo un po' della nostra riflessione, capace di far maturare il significato che ha per ciascuno di noi. Se con anima si definisce un qualcosa di indefinibile che sta dentro di noi, è gioco forza comprendere che al di là dell'aver coniato una parola per rappresentarne il significato, non si può credere che basti e sia esaustiva per ciascuno, al di là di ciò che può dire qualsiasi esponente religioso. Ci si può trovare concordi nel pensare che l'anima rappresenti tutte quelle sensazioni personali che altrimenti sfuggirebbero alla comprensione senza poterne parlare tramite vocaboli riconoscibili e riconosciuti ufficialmente, eppure, facendo così, rimane comunque, secondo me, un che di effimero che continua a sfuggire dalle maglie del vocabolario. L'anima, come un profumo, non può essere catturato dalle definizioni precise, deve poter spaziare ancora nella mente per attingere a tutte quelle metafore possibili che invece di crearle bordi netti le crea un perimetro frastagliato e armonico, ricco di colore e sfumatura, in armonia con ciascuno. Se davvero l'anima è espressione e sintesi e dunque essenza di ciò che siamo interiormente anche la parola che la rappresenta deve poter essere utilizzata con la stessa elasticità di significato, aggiungendo di volta in volta, laddove sia necessario, un approfondimento, e questo perché, dentro, ciascuno di noi è diverso. E non importa che i sentimenti provati, più o meno, siano gli stessi per tutti, la realtà è che in ogni istante siamo la summa di molteplici sentimenti e sensazioni, percezioni e conoscenze, che contemporaneamente sono attivati o disattivati dal punto di vista della consapevolezza, come i geni formati dal DNA che esprimono il nostro essere fisico, e in, virtù di questo, nell'istante considerato, ci rendono differenti gli uni dagli altri. Ciò che abbiamo dentro è mobile, non statico, come se fossimo composti da pezzi di un puzzle fluido che, pur essendo simile, comune, nello stesso momento non vede i pezzi nelle stesse posizioni per tutti; qualcuno potrebbe aver iniziato a rimettere insieme tali tessere dai bordi, altri dal centro, altri ancora da un punto qualsiasi.
 Personalmente uso la parola anima spesso, quando scrivo, e la uso come sinonimo di essenza della cosa della quale sto parlando. E l'essenza è il carattere distintivo di una cosa, giustamente, la sua anima, con l'aggiunta di tutta la consistenza della consapevolezza che ogni cosa ha sempre qualcosa in più, oltre la sua sola apparenza e il suo bagaglio di definizioni precise. Questo discorso rappresenta solo la difficoltà di definire in modo semplice qualcosa che sicuramente lo è più di quanto si dimostri bisognosa di fiumi di parole per comprenderla a parole. Le parole nutrono la mente ma allo stesso tempo la stressano quanto più ci si avvicina al margine che certe cose indefinibili hanno per natura. E il margine delle cose indefinibili richiede il buon senso di un indagine silenziosa personale che rimanga, con il suo significato, ossia ciò che si comprende di essa, a vibrare dentro, come arricchimento dell'anima. La mente ha troppo bisogno di parole per tutto per poter imparare a volare nell'ignoto da sola; c'è bisogno di un contributo da parte dell'anima perché nell'ignoto ci sono cose spesso indefinibili che devono essere percepite senza l'ausilio delle parole. Il resto è metafora.

L'ANIMA DEL BOSCO
L'anima del bosco, la sua essenza, è la sua stessa vita. Non che i miei occhi non vedano ogni sorta di rifiuto prodotto dall'essere umano, abbandonato senza pensare alle conseguenze di tale gesto, anzi. Ma camminare nel bosco, nonostante tutto questo oltraggio, è ugualmente un'esperienza positiva. Il bosco non conosce lacrime per se stesso, ma sono sicura che le persone più sensibili riescono a sentire la sua vasta tristezza per il fatto che l'Uomo non lo comprende, non è capace di ascoltarlo perché non è capace di sentirlo dentro, con il sensibile orecchio del cuore. Il bosco ha milioni di vite in sé e tutte sono una unica entità. Quando cammini lungo un sentiero può sembrarti di stare percorrendo una pista anche dentro te stesso, il potere del bosco permea ogni cellula insieme all'ossigeno che produce. Il suo respiro diventa il tuo respiro ma pochi se ne rendono conto. Il bosco ti scivola dentro e ti lascia una traccia per ritrovare ciò che hai perduto, abbandonato, nascosto. La sua immensità verde è l'anima della pace e della conoscenza della pazienza, necessaria a condurre il passo lungo la via. Nel bosco la vita sembra immota ad un primo sguardo superficiale ma, a ben vedere, tutto si muove e ha ritmo. Non vi sono sfasature, nemmeno il vento che passa tra le fronde genera errori nella partitura musicale. Quando passa il vento tra le foglie, e le foglie sbattono le une con le altre, il suono che ne nasce è come il rumore di un ruscello, lieve memoria e similitudine di acqua su pietra che scorre, come scorre il vento. Oltre tutto questo, e in mezzo a questo, c'è il silenzio vero. C'è la vita che esiste senza bisogno di parole e, quando  cammini nel bosco, stai certo che, anche se non lo credi possibile, stai percorrendo la sua anima sincera che nulla ti nasconde. Rispetta il bosco e la sua anima ogni volta che puoi, offrendo silenzio al silenzio e cuore al cuore. Quando tornerai a casa, tra mura di pietra, porterai con te parte della sua essenza e respirerai meglio anche immerso in milioni di parole e oggetti. Il bosco viene con te se ci sarà un posto per lui nella tua anima, così come nella sua ci sei tu. R.B.Between

Perry Como - Magic Moments ( Lyrics )

Mettersi a nudo

Gli esseri umani, per sopperire alla loro naturale mancanza di pelliccia, o corazza, o qualsivoglia tipo di protezione superficiale, usano gli abiti per il corpo e mille stratagemmi mentali per la loro anima. Il bisogno di protezione è innato e fondamentale. Ci si copre o ci si scopre a seconda di ciò che si prova, fisicamente o sentimentalmente. Mettersi a nudo segna momenti di profondità tra due persone. Ciò che mostriamo di noi all'altro viene scelto dal cuore, sia si tratti di amicizia sia nell'ambito di un rapporto di coppia. Anche il tempo, in questi momenti, si adatta ad un ritmo differente, come se si ritagliasse un'oasi lungo il suo scorrere, come se dal tempo potesse nascere uno spazio dove coloro, che hanno deciso di mostrarsi senza veli all'altra persona, possono usufruire di una dispensa speciale. E se ci sono sintonia e sincerità fra le due persone questi momenti si dilatano quasi all'infinito. Entro questo tempo i legami possono nascere, consolidarsi, trasformarsi, approfondirsi, sotto la guida dell'amore. Ogni vero legame profondo è fatto d'amore e nutre, non consuma. I legami tra persone che si amano non sono catene né mai potrebbero esserlo. Sono i legami che permettono di superare ogni timore mentre ci si sta mettendo a nudo. Sono i legami che come un ponte gettato tra le due persone permettono al cuore di rotolare più facilmente dall'uno all'altro. Mettersi a nudo è spogliarsi degli orpelli con i quali giochiamo quotidianamente, è struccarsi il volto, è sciogliere i legacci della maschera che indossiamo per posarla finalmente in un angolo della stanza perché non serve più, è togliersi l'abito per offrirsi all'altro, così come naturalmente accade in un rapporto di coppia, durante l'intimità. E questa intimità è fatta non solo da abiti abbandonati per lasciare che vi sia contatto pelle con pelle, è fatta anche dalla "nudità" dell'anima. Quando si diventa consapevoli l'uno dell'altro la trama del tessuto dell'abito che indossiamo inizia a diventare più sottile, sempre più trasparente. E questa trasparenza permette una comunicazione più chiara. La prova più difficile da affrontare in questi momenti è mettere da parte tutto ciò che è ingombrante, tutte le manifestazioni dell'ego che potrebbero interferire nella delicatezza dei gesti. Mettersi a nudo è l'essenza dell'incontrarsi. Mettendosi a nudo di fronte a qualcuno si sceglie di mettersi in gioco e si sceglie di condividere qualcosa che solo noi conosciamo, e donare qualcosa di nostro rende il dono speciale. La paura di essere, un giorno, traditi se il legame si dovesse rompere può impedire l'accesso a parti di noi profonde, è normale pensarla così. Ma se tale paura dovesse permanere anche l'abito rimarrebbe addosso. E la dolcezza di una carezza, data con tutto il cuore, spero sempre sia la cura migliore per sciogliere i nodi che la paura sa intrecciare. Almeno per iniziare con stile il combattimento, poiché la paura è un avversario che non sa arrendersi facilmente. Mettersi a nudo è una scelta importante e non è correlata alla mera soddisfazione del piacere personale, è qualcosa di diverso, di più profondo e non facilmente spiegabile a parole, bisogna sperimentarla. E se si riesce a comprenderlo, questo desiderio di mettersi a nudo, quando si sta accanto a qualcuno, significa, con molta probabilità, che questo qualcuno è riuscito a oltrepassare le nostre naturali quotidiane barriere, maschere, abiti, corazze artificiali e il motivo, credo, è il ponte da cuore a cuore che si forma da sé, come il legame che si stabilisce. E in questo tempo magico nel quale si sta di fronte l'uno all'altra, nudi anche nell'anima, sinceri nel corpo e nel cuore, non fa mai freddo e il sole splende sempre come quando un sogno riesce a realizzarsi.

domenica 14 agosto 2011

Ascoltando "E Ti Vengo A Cercare" di Franco Battiato

Oggi mi è capitato di ripensare a vecchie amicizie. A tutte le persone che ho conosciuto e che da tempo non vedo né sento. Mi sono collegata al web e ho voluto ascoltare questa canzone interrogandomi sul motivo che le persone hanno per andare cercarsi. Concordo con Battiato, ci si cerca perché si sa che accanto a quella data persona si sta bene. Nessuno cerca volontariamente cattiva compagnia. Poi, come spesso accade, da un argomento mentale si scivola in un altro affine e si innescano altrettanti pensieri dell'argomento precedente. Pur consapevole di mettere il piede su di un sentiero per me accidentato, mi sono lasciata trasportare. Ho pensato alle volte in cui io mi sono mossa per andare a cercare qualcuno con cui mi sento bene. Al mio ripetuto bussare, con la forza eccessiva nei muscoli della mano chiusi a pugno che non sapevano arrendersi al silenzio dall'altro lato della porta. Non sapevo bussare con rispetto, volevo solo che mi si aprisse la porta. Ho bussato come avrebbe potuto fare un bambino capriccioso che vuole averla vinta a tutti i costi, anche se nel cuore c'era un sentimento sincero. Il sentimento sincero e il desiderio di cura in esso non sapevano comunicare con il braccio, con la mano a pugno che continuava a bussare. Erano due cose separate. Se fossero state unite avrei smesso di bussare quasi subito e forse non avrei perduto ciò che invece ho perduto. Avrei compreso le ragioni del padrone di casa. Ma non sentivo una parola provenire dall'interno perché stavo facendo troppo rumore bussando. E, tuttavia, non avrei comunque potuto accorgermi se il padrone di casa stesse parlando oppure stesse in silenzio. Per un momento, un giorno, è stata aperta una fessura in quella porta, ma solo per gridarmi di non continuare mai più a bussare. Fu poi richiusa seccamente. Fine. In seguito con la stessa mano che aveva bussato fino a quel momento, adesso non più così violentemente chiusa a pugno, con qualche escoriazione, ho cercato ancora il contatto con quella porta chiusa. Stavo lì, con le spalle appoggiate alla porta, in silenzio, pensando senza sosta a tutto l'accaduto, provando a comprendere davvero. Qualche volta ho provato a bussare ancora per farmi perdonare. Silenzio. E non ho la certezza che di là dalla porta ci sia ancora il padrone di casa. Non so nulla così come non l'ho mai saputo. L'unica cosa che sapevo era ciò che provavo. E vale ancora adesso. E ciò che si prova per qualcuno è come un piccolo bagaglio che portiamo con noi quando siamo sospinti dall'amore ad andare a cercarlo. Non sempre accade di sentire questa forza che ci fa muovere verso qualcuno, e che ha la potenza che potrebbe permettere ad un albero secolare di sradicarsi da solo dal suo posto per andare altrove, verso il cuore altrui.

Sentire qualcuno sotto pelle

Si tratta di una sensazione e le parole non sono mai sufficienti per spiegarla. Nasce quando si ama intensamente qualcuno. Quando ho ascoltato la canzone di Madonna "Love Profusion" mi sono ricordata di questa sensazione ed ho pensato anche che una persona che ama dovrebbe dedicarla al proprio compagno. Credo che sia l'abbondanza di amore che viene provato che, debordando dovunque, riesce ad entrare anche sotto pelle, percorrendo tutto il corpo e l'anima. Non ritengo però di aggiungere altro, per il momento, vi lascio alla vostra personale sensazione, da assaporare senza fretta, godendovi la compagnia della persona amata.

sabato 13 agosto 2011

Queen - The Miracle

Tempo e denaro

Strana coppia, specialmente quando vengono nominati assieme all'interno di un discorso il cui argomento verte sull'efficienza lavorativa. L'uno immateriale per natura, eppure innegabile presenza che scandisce la vita, l'altro estremamente materiale con l'ardire di condizionare la vita umana che lo usa e lo gestisce, con tutti i pro e i contro del caso. Insieme ma, se si dovesse metterli realmente accanto l'uno all'altro, sarebbe impossibile, a meno che non si potesse, con la fantasia, creare una dimensione parallela in cui le cose impossibili divengono possibili. Il tempo può fare a meno del denaro perché non lo comprende, data la sua natura diversa da sé, mentre il denaro senza il tempo ha, credo, qualche difficoltà ad esprimersi. L'uomo, che ha inventato il denaro, deve avere tempo sia per accumularlo che per farlo circolare spendendolo. Il denaro è un essere capriccioso in virtù del capriccio di chi lo manipola, da solo è nulla, ed è nulla se non gli si attribuisce valore, al di là del fatto materiale che è stato creato per avere un valore. Qualche volta mi chiedo chi dei due abbia maggior valore, e per valore intendo un qualcosa che va un po' oltre il pensiero materiale. Ho sempre pensato che il valore di qualcosa, riferendomi ad oggetti materiali, sia determinato non solo dalla somma del denaro speso per ogni pezzo che la compone, il denaro speso per arrivare a produrre il dato oggetto, ma sia determinato anche dal tocco dell'anima dell'uomo o da suo cuore. Ecco perché secondo me hanno maggiore valore gli oggetti artigianali, perché posso sentirci ancora il riverbero del cuore, del pensiero, di chi li ha prodotti. Qualcuno lo potrebbe definire un valore aggiunto ma, per me, è l'unico valore, oltre all'abilità nel costruirli. Le cose prodotte in serie non hanno anima e non mi danno in cambio nulla mentre io dò del denaro per esse. Eppure questa è la regola che seguiamo per il vivere quotidiano. Un oggetto artigianale richiede tempo per essere prodotto e non richiama denaro quanto uno prodotto in serie da macchine che lavorano per questo, azionate talvolta da uomini che scambiano il loro tempo per un quantitativo di denaro che molto spesso, per certe categorie di lavoratori, non è commisurato all'entità del lavoro svolto. Qui tempo e denaro si sfiorano consapevoli l'uno dell'altro solo attraverso il sudore umano. 
C'è chi dice che "il tempo è denaro" intendendo che se si perde tempo si perde anche denaro. Nell'ottica del guadagnare è un'affermazione ovvia. Il tempo però è vita e non denaro. Ci sono casi nei quali si fanno delle scelte tra i due e, tali scelte, possono essere obbligate oppure consapevoli e in piena libertà. Le scelte obbligate quasi mai portano felicità, forse benessere materiale, ma vera felicità non mi sento di affermarlo, per il fatto che non c'è, sin dall'inizio, la libertà necessaria per operare la suddetta scelta. E la mancanza di questa libertà è come un fastidio di sottofondo che si pianta lì e ci resta. Però si dice a noi stessi che va bene così, nonostante tutto, e quanto realmente si riesca ad accettare la scelta di comodo fa la differenza per i decibel del rumore di fondo. Se invece si ha la fortuna di poter scegliere fra tempo e denaro in piena consapevolezza, se ne guadagna in serenità. Certe scelte sono coraggiose, soprattutto nel caso in cui non si abbia una sicurezza economica tale da guardare in faccia il denaro e dirgli lo stesso "mi dispiace per te, ma preferisco il tempo". Oggi mi sono concessa di pesare entrambi, tempo e denaro, e ho scelto il tempo, anche se spesso lui è il mio preferito, pur non avendo molto denaro. Un fatto è all'origine di questa piccola scelta. Sono stata a fare la spesa lontana da casa, ci sono andata con l'autobus. Ho comprato varie cose tra cui una confezione che mi è venuto voglia di aprire a metà strada, mentre stavo rincasando. La scatola conteneva cibo impacchettato singolarmente. Una confezione era aperta, altre erano sciupate, pur essendo state dentro una scatola sigillata. Se anche la scatola fosse stata rotta non l'avrei certamente presa. Sconforto, un po' di rabbia, ma poca in verità perché non mi piace, dubbio amletico se appena scesa dall'autobus avessi dovuto aspettarne un altro in direzione opposta per andare a reclamare. Mentre riflettevo ho messo insieme i vari fattori del problema. Sarei dovuta andare subito, perché non sarebbe stata la prima volta che, andando il giorno dopo, avrebbero fatto storie sulla responsabilità nella conservazione da parte mia dal momento dell'acquisto a quello del reclamo. Ebbene il peso che avevo con me, il caldo, un nuovo biglietto dell'autobus, la perdita completa del pomeriggio  dato che ad agosto i mezzi di trasporto passano di rado, tutto questo per pochi euro? Che sia una questione di principio, posso anche essere d'accordo, ma non lo è sempre, se il sacrifico affrontato è più incisivo sul benessere rispetto al guadagno che si potrebbe ricavare. La facoltà decisionale personale ce l'abbiamo in dotazione proprio per usufruirne con cervello ogni volta che riteniamo necessario farlo. Reagire sempre nello stesso modo solo perché ci si sente di dover essere fedeli ad una certa linea di principio che arbitrariamente abbiamo deciso di seguire non porta sempre un beneficio. E qualche volta la perdita è decisamente maggiore del guadagno. Mi secca per gli euro spesi e buttati via, perché la vita mi fa stare attenta a quel poco che ho, ma la prospettiva di gettare via anche le due ore che mi rimanevano mi ha illuminato la decisione di oggi. Sono dunque tornata a casa e il mio corpo ringrazia per il relax, così come lo fa la mia mente, mentre scrivo qui sul blog. R.B.Between

giovedì 11 agosto 2011

Non voler essere responsabili della felicità altrui

Questo è il concetto espresso dal protagonista maschile di un film tedesco, mentre sta discutendo con una sua amica a proposito del rapporto tra uomini e donne. Lui è un dongiovanni che non se ne lascia scappare una ed espone a lei il suo punto di vista. Lei è la ragazzina "quattrocchi", adesso cresciuta, che lui prendeva in giro quando erano bambini e che non condivide il modo che lui ha per trattare le donne. Lui sostiene che preferisce avere storie di una volta e via, senza coinvolgimento sentimentale, mettendo sempre in chiaro alla lei di turno le sue intenzioni. Lui non vuole sentirsi responsabile della felicità altrui. Lei gli fa presente che anche dicendo così una donna può accettare lì per lì la condizione ma poi, molto spesso, inizia a provare un sentimento nei confronti dell'uomo. Lei sostiene che è nella natura delle donne innamorarsi mentre per un uomo è più facile avere solo storie di letto. Questi sono i loro punti di vista.
Ripensando a questa frase mi sono chiesta perché. Perché non si vuole essere responsabili della felicità altrui? Cosa comporta dunque esserlo, invece? E' così terribile sapere che qualcuno riesce a sentirsi felice se noi facciamo qualcosa o la diciamo? Sarà che sono donna e che sono romantica probabilmente di natura  ma credo che far felice qualcuno sia una bella sensazione. Una di quelle sensazioni speciali che fanno stare bene davvero e profondamente. Poi ho continuato a riflettere sulle parole del protagonista. Dicendo così lui intende sottolineare che nel rapporto tra un uomo e una donna, o tra compagni di vita in genere, non dovrebbe esserci alcuna forma di dipendenza tale da impedire la realizzazione di ciascun componente della coppia. Quando lui esprime questo concetto, durante il dialogo, lei si trova d'accordo, e anch'io sono d'accordo con questo, però penso che la responsabilità di qualsiasi cosa che ci veda protagonisti abbia confini sottili da definire in relazione a ciò che ci piace o meno. Ogni volta che agiamo o ci esprimiamo, facendo parte di un tessuto sociale, non possiamo pretendere di non generare conseguenze. Se nello specifico caso della felicità altrui crediamo, per un qualsiasi motivo personale, che tale felicità si per noi un peso o una catena che dia dipendenza nell'altro penso che ci sia un velo di tristezza in tutto ciò. Prima perché significa che non proviamo felicità e poi perché constatare la felicità altrui non riesce a scaldare nemmeno un po' il nostro cuore. Anzi, si scanserebbe volentieri la cosa, non vedendo altro che una responsabilità che, notoriamente, è sinonimo di peso e limitazione di libertà. Ma se si guardano in quest'ottica le responsabilità non si riuscirà mai a spiccare il volo libero al quale si anela. Il volo che se ne ricava è un surrogato di volo, come quello vissuto nella realtà virtuale, perché ciò che non si riesce a far scorrere in noi con fluidità sarà zavorra inconsapevole. Sono tenuta a precisare che questa riflessione è un mio parere personale e quindi mi sento di aggiungere un ultima cosa. Al di là del fatto che poi il protagonista del film modifichi il suo punto di vista perché, innamoratosi della sua amica d'infanzia, capisce le parole di lei, penso che sia meraviglioso sentire i battiti del cuore dell'altro modificarsi quando noi ci siamo, e non per un distorto senso di potere, ma per il fatto di poter sentire la vita che scorre in mezzo al fiume dell'amore in genere. Vorrei dire a chiunque abbia accanto qualcuno che lo ama, se sente un peso invece di una leggerezza infinita nel cuore, di provare ad ascoltare meglio, limando la paura di perdere se stessi, che è l'apparenza ingannatrice della responsabilità vissuta in modo esagerato, serioso, quando ci si avvicina al cuore di qualcun altro. Far stare bene qualcuno, infondergli felicità è una cosa speciale, che non capita tutti i giorni, in poche parole, è meraviglioso in modo disarmante. Purché lo si sappia accettare. 

Metto qui la canzone "Meraviglioso" cover di D.Modugno interpretata dai Negramaro perché in questa versione musica e parole mi aprono il cuore e mi fanno sentire il concetto "meraviglioso" fin dentro l'anima. Ed essere "responsabili" della felicità altrui, riuscendovi, consapevolmente o inconsapevolmente, è meraviglioso.

Un inizio diverso

Ci sono volte nelle quali non si ha nessun desiderio di fare o di muoversi. Sono giorni ristagnanti. E qualche volta tali giorni possono essere mesi o anni. Solo che standoci in mezzo non ci si rende conto che sono così. Diventa difficile allora iniziare una qualsiasi attività. Magari la si inizia lo stesso ma non siamo così presenti per essere efficienti o goderne. Si può tranquillamente dire che si tira avanti. E, per certi versi, anche vivere alla giornata, è una forma del "tirare avanti". Si va. Si va immersi nell'onda che va, ma non siamo noi ad andare, è l'onda che va. Si arriva a sera e spesso non ci si cura del domani se non per il fatto che oggi abbiamo lasciato un lavoro a metà e ci serve il domani per completarlo. Questa mattina mi sono svegliata con il pensiero di rimettermi a dormire perché la prospettiva di avere una mole di cose da fare mi faceva sentire stanca nella mente. Che non so più riposarmi davvero l'ho già detto in precedenza. Poi, però, sono riuscita a incuneare un pensiero diverso, se per me stessa non riesco ad alzarmi volentieri, posso farlo per la persona che vive con me. E' un inizio diverso ed è pur sempre un inizio. Uno stratagemma. Un modo per avviare un motore stanco, in attesa di rimetterlo a posto, avendo la necessità vitale di continuare a farlo funzionare. E' ben vero che non si dovrebbero fare le cose per gli altri, soprattutto se queste cose sono di nostra esclusiva pertinenza, e qui non c'entra l'attitudine all'altruismo. Tutte quelle cose basilari per la propria esistenza, come mangiare, alzarsi da letto, camminare, esistere in genere, non si dovrebbero compiere per qualcun altro ma solo per noi ed è innegabile che tutte queste azioni siano vitali per noi e non per l'altro, fatta esclusione per una madre in attesa o con un bimbo appena nato. Ma ci sono momenti nei quali diventa possibile agire in modo diverso ed è permesso o, meglio, possiamo permetterlo a noi stessi, se sappiamo che è un atto temporaneo che duri il tempo per riconciliarsi con la monotonia della propria esistenza, qualora non dipendesse da noi modificarla per il momento. Non è facile accettare di avere poco o di essere obbligati a svolgere una determinato lavoro che magari non ci piace, ma è ciò che si ha e non lo si può perdere poiché null'altro lo sostituirebbe. Tutto questo porta a stare dentro l'onda che va senza che noi possiamo determinarne l'andare. Dipende poi da noi, in ogni caso, la durata di questo galleggiamento nell'onda. La mia abituale fretta ha incontrato, un giorno, un suggerimento, mi è stato rammentato che tutte le cose si fanno a tappe, specialmente quelle grandi e impegnative, così qualche volta, quando me ne rendo conto, vado a caccia, o trovo fortuitamente, uno stratagemma utile a proseguire il cammino, che riesca almeno per un po' ad affrancarmi dall'onda che va, nella quale sono immersa comunque. Un inizio diverso qualche volta è necessario ma è anche vero, per buon senso, che se, tra le varie opzioni ve ne fossero alcune che non ci fossero proprie, o andassero contro il nostro cuore, ma fossero immediate soluzioni facili, si dovrebbe avere il coraggio di passare la mano e dire "no grazie, tiro ancora avanti per un po', anche se farmi portare dall'onda non mi piace più e, anche se sono stanco e demotivato, porterò pazienza". Al di là comunque di ogni discorso, che sono soltanto parole e non fatti concreti, la soluzione che troviamo deve essere adatta a noi, ce la dobbiamo sentire calzare addosso come un guanto della misura giusta. Il mio guanto, quest'oggi, è stato mettere da parte il mio piacere personale, e provare a percorrere una pista diversa, e non mi sono trovata male nel far ciò. Non potrei farlo sempre, perché sarebbe esattamente la stessa cosa che fare tutto e sempre guardando prima noi stessi ma, qualche volta, credo sia un buon modo per equilibrare i due estremi antagonisti, il mettere sempre avanti prima se stessi e il mettere sempre avanti prima qualcun altro. La via di mezzo produce equilibrio.

mercoledì 10 agosto 2011

"Perché soltanto io dovrei essere diverso?"

Per molti motivi. Si dice che l'Uomo sia un animale sociale e, in virtù di questo modo di sentirsi, uno degli atti principali che lo contraddistingue, è il cercare compagnia e, non ultimo, cercare il conforto nell'adeguarsi a linee di comportamento comuni. Fare ciò che fanno tutti, o quasi, permette di procedere con una sicurezza in più, ossia il non doversi preoccupare di nuotare controcorrente. Andare controcorrente richiede un notevole dispendio di energia, sia fisica, qualora si stesse davvero nuotando contro la corrente, sia mentale, poiché il pensiero deve costantemente essere mantenuto sveglio per non farsi sopraffare dalla corrente stessa. La diversità che sto prendendo in considerazione non è quella dovuta a peculiarità fisiche che tuttavia non rendono davvero diversi, rendono solo, ciascuno, speciale, una sfumatura tra le sfumature dato che questa, anche se spesso non la si accetta, è la realtà di fatto della natura umana. La diversità di cui tratto è la linea di pensiero o di comportamento che ci si può trovare a scegliere o semplicemente a vivere o accettare di interpretare in un dato momento della vita. Poniamo di fare sempre le stesse cose da tempo immemorabile, in tal caso, magari, si è ben adeguati al flusso comune di comportamento, anche se non è detto, infatti si potrebbe pure essere una pecora nera in un gregge di pecore bianche, e comportarsi come il resto del gregge pur essendo di colore differente, ma diciamo che accada qualcosa che ci ponga davanti un bivio e si sia invitati a fare una scelta. Fin lì il sentiero era unico e non serviva scegliere alcuna direzione. Facile. Poi però il bivio costringe in un certo modo a operare una scelta. Numerosi fattori possono condizionare questa scelta ma la differenza sostanziale è data dal fatto che l'intero gregge si trovi davanti al bivio altrimenti qualsiasi sia la nostra singola scelta non avremmo un confronto, una relatività, che fa emergere il contrasto della scelta stessa. Se non ci sono osservatori la scelta è solo il personale proseguimento del percorso. Poniamo poi che in quel preciso momento soltanto uno dei membri del gregge possieda i requisiti necessari per affrontare la scelta della direzione, a questo punto potrebbero accadere due cose. Escludendo il fattore rifiuto di scegliere rimane colui che ha in mano la scelta da affrontare e sceglie, gli altri possono seguirlo oppure non seguirlo. Colui che si trova a dover fare la scelta sa anche che il gregge potrebbe seguirlo oppure no ed è qui che nasce la domanda. Non ti dico che non voglio scegliere ma chiedo perché proprio io devo farlo. Già questo crea una distanza di un passo dal resto del gregge, la consapevolezza di dover entrare in azione, una azione che dipende non più da qualcun altro o da fattori esterni ma da noi stessi. Questo spaventa e ti fa sentire come se ti fosse stato tolto il cappotto in una giornata umida e ventosa. Diventi esposto alle intemperie, e gli eventi lo possono essere, metaforicamente parlando. A questo punto qualcuno potrebbe suggerire che la cosa giusta o la persona giusta al momento giusto fanno la differenza e davanti al bivio, tu che stai lì a pensare cosa fare, non sei convinto che sia davvero tutto così giusto. In fondo non si è praticamente mai pronti a nulla nella vita. Ci troviamo solo a scegliere le varie direzioni in determinati punti del percorso. Il peso della responsabilità preme. Eppure, accettando quella che può essere vista come sfida, si nutre qualcosa dentro di noi che solitamente rimane digiuna quando non si operano scelte.
Se gli altri componenti del gregge non concordano con noi non è detto che la scelta che abbiamo fatto sia deplorevole. Non ottenere un riconoscimento di merito non significa sempre automaticamente che siamo dalla parte sbagliata, ciò che è veramente giusto è riconoscere col proprio cuore la scelta migliore da operare in quel dato momento. Anche scegliere per se stessi o, se lo si ritiene migliore, per gli altri è pur sempre aver mosso un passo con il coraggio che la scelta stessa richiede di avere. Ogni volta che ci si espone e si esce dal gregge si mette in moto il coraggio dato che ogni singola scelta, grande o minima che sia, ha sempre un peso, come l'onda che si crea in uno specchio d'acqua immobile che venga sfiorato anche solo da una piuma che vi cade sopra. Per non parlare dell'effetto di un sasso. Tutto questo discorso per provare a rispondere al perché della domanda del titolo. Perché soltanto io dovrei essere diverso? Perché in realtà questa diversità è solo l'effetto di un confronto e tu che stai agendo, stai vivendo. Se diverso in modo paradossalmente unico, perché lo sei e nessuno lo potrebbe negare dato che si ode solo la tua voce ma, contemporaneamente, non lo sei perché tu sei pur sempre te stesso e ogni decisione che prendi fa parte della tua vita, che è una unità e una continuità. Se vengono a cadere i motivi per aver timore di sentirsi diversi non servono più neppure le spiegazioni da darsi per convincersi a mettere piede sull'una o l'altra strada che si diramano dal bivio. Con questo non significa che scegliere sia più facile, la difficoltà rimane ed è legata al nostro modo di pensare, ed è parte della natura umana avere a che fare con le difficoltà, sebbene si cerchi di starne lontani il più possibile. Perché soltanto io dovrei essere diverso? Per ricordarti della tua voce, di te stesso, di ciò che puoi fare, per ricordarti che sei parte del mondo sia che qualcuno ti ami oppure no.

Pensiero della sera

Da piccola, ricordo che i nonni ci insegnavano a dire le preghiere prima di andare a dormire. Finché siamo bambini non possiamo fare altro che ascoltare le indicazioni di chi è più grande di noi, e questo semplicemente perché non abbiamo argomenti o motivazioni per replicare nel bene o nel male. Ci manca l'esperienza necessaria a prendere una qualsiasi decisione per noi stessi, finché non diventiamo più grandi, finché non cresciamo e impariamo a pensare con la nostra testa. Imparare le preghiere a memoria faceva parte della tradizione che avevano vissuto i genitori e i nonni. In fondo, anche se non capivo totalmente il significato, mi adeguavo. E ogni sera recitavo la preghiera. Era un momento particolare, di raccoglimento mentale, anche se non me ne rendevo conto. Crescendo ho sviluppato i miei pensieri e ho trasformato questo momento serale in un tempo per ricapitolare la giornata. Lo prendevo come un esercizio per rafforzare la memoria e contemporaneamente per rendermi conto di ciò che avevo fatto nella giornata appena trascorsa. Per andare a caccia di tutti quei piccoli errori quotidiani che, se trascurati, diventano pieghe del carattere difficili da stirare. Per esempio se, guardando come mi ero comportata, vedevo che avevo fatto soffrire qualcuno o ero stata scontrosa o troppo pigra o non avevo fatto i compiti che avrei dovuto fare o avevo mancato di rispetto ai nonni o ai miei genitori, come talvolta accadeva data la mia propensione a ribattere sempre su tutto, cercavo di farmi una promessa per l'indomani. Mi promettevo di vegliare sul mio comportamento di modo che se mi fossi comportata malamente, vedendomi come non mi piaceva essere, avrei potuto cambiare qualcosa in quel momento. La lotta è sempre stata dura e non sempre vinta ma gli anni mi sono serviti per allenarmi in queste operazioni di doccia psicologica serale. Per lungo tempo, da ragazzina, questa è stata la mia strana preghiera serale. Non me ne vogliano i più religiosi ma ho creduto fosse più importante cercare di ripulire i miei difetti, se li riuscivo a vedere, piuttosto di ripetere costantemente delle parole che non riuscivo a sentire con un vivo significato per la mia realtà quotidiana. Mi sembrava meglio, in ogni caso, essere pulita nel mio cuore, per poter magari un giorno comprendere davvero il significato di una qualsiasi preghiera. Tutt'oggi cerco di andare a dormire avendo cura di fare le stesse operazioni di "pulizia" dell'anima, per vedere dove ho sbagliato. C'è da dire che ci sono fatti che, per il loro accadimento e la mia responsabilità in essi, mi portano a rivederli e riviverli molto spesso, anche di giorno, perché per il momento non trovano la pace di una sistemazione nella comprensione. Sono dei pesi dentro, nei pressi del cuore, per aver ferito persone che si amano e che, senza riceverne perdono dalle stesse, stanno lì a vagare in me, alla ricerca costante di una collocazione. Ci sono dispiaceri che fanno sovente compagnia a questi pesi e nemmeno il loro farsi compagnia cambia di molto il risultato. Ma so una cosa, che servono tempo e profonda comprensione per fare in modo che ogni tassello trovi un suo posto nel disegno della vita. E perché accada questo non bastano tutte le preghiere del mondo, serve amore, null'altro che amore.
Andare a dormire avendo dentro cumuli di pensieri irrisolti e tumulti che intaccano la pace, che dovrebbe nutrire ogni cuore, non fa bene e non servono medici né luminari per capirlo, ecco perché, operare una risoluzione per concludere in pace la serata, fa stare meglio. Avere cura di se stessi passa anche dall'accorgersi di questa piccola cosa. Andare a dormire arrabbiati poi è come bere una tazza di veleno. Mi rendo perfettamente conto che le mie sono solo parole ma spero sempre che qualcuno che legga e condivida il pensiero ci sia. Che lo condivida nella sua vita quotidiana e lo usi come trampolino per una sua riflessione personale in merito. Chi riesce ad andare a dormire in pace avendo visto di sé qualcosa di buono, o ben fatto, che rispetti l'altro, che abbia visto amore invece di odio o rancore o distanza, sono sicura che, nonostante tutti gli altri problemi che potrebbe avere, si sveglierà con i colori dell'alba più vividi dentro se stesso e potrà provare a posare il proprio passo con un po' più di sicurezza sul sentiero della vita. La sicurezza di stare bene con se stessi che genera onestà e buon senso e apre il cuore sciogliendo, talvolta, anche quei nodi che a prima vista sembrano impossibili da sciogliere.
Buona notte di pace e buon risveglio di luce.

Ronan Keating - Baby can I hold you

lunedì 8 agosto 2011

Fretta

Uno sguardo sul vocabolario mi dice esattamente così: che la fretta è il bisogno di fare qualcosa o di avere qualcosa con sollecitudine. Non è una bella sensazione ma è assai comune. Fin troppo spesso la si prova, a volte anche quando non ce n'è ragione, ma ci si trova a fare ciò che si sta facendo con fretta, sull'onda della velocità precedente. Poniamo di fare molte cose una dopo l'altra, senza pause, perché si vuole finire il prima possibile o perché i vari impegni lo richiedono, ecco, se si ha poi una porzione di tempo del quale disporre liberamente si può procedere di corsa anche se in quel momento non ce n'è proprio motivo. Oggi mi sono accorta di comportarmi così. Finito il mio impegno quotidiano avrei dovuto dire a me stessa "ok, ora mi rilasso, cammino piano, perché non ho una scadenza per recarmi dove devo andare" e invece no, mi sono trovata a correre come ho fatto nei giorni precedenti, meglio dire nei mesi precedenti, per essere precisi. Quando mi sono resa conto di ciò che stavo facendo ho rallentato il passo, poi mi sono distratta e ho proseguito con la fretta dentro. Non è facile rallentare anche se lo si vuole. L'abitudine gioca un ruolo di rilievo in questa partita nel flusso del tempo. E ogni volta che mi accorgo di questo ritmo errato, perché il presente non lo richiede, mi impongo un ritmo più rilassato nella speranza, prima o poi, di renderlo mio tanto quanto la fretta abituale. Leggendo "Momo" di Michael Ende ho riflettuto meglio sull'argomento e sul malessere che porta agli esseri viventi ogni ritmo imposto che non rispetti il proprio personale andare. L'argomento principale del libro è il Tempo, prezioso come una risorsa inestimabile, che viene rubato da esseri d'ombra che istigano gli uomini a fare sempre di più per poter risparmiare tempo da depositare a favore di tali esseri, i quali se ne nutrono. C'è da riflettere leggendo queste pagine. Di tutto il libro questo è un brano che ritengo interessante:

"Esiste un grande eppur quotidiano mistero. Tutti gli uomini ne partecipano ma pochissimi si fermano a rifletterci. Quasi tutti si limitano a prenderlo come viene e non se ne meravigliano affatto. Questo mistero è il Tempo. Esistono calendari e orologi per misurarlo, misure di ben poco significato, perché tutti sappiamo che, talvolta, un'unica ora ci può sembrare un'eternità, e un'altra invece passa in un attimo... dipende da quel che viviamo in quest'ora. Perché il tempo è vita. E la vita dimora nel cuore."
MOMO di M. ENDE

Ho sempre cercato di capire cosa fosse il Tempo e quando ho compreso che è fatto di presente come sua unica manifestazione tangibile eppure effimera per la sua immediata trasformazione, ho provato a stare il più possibile nel presente. Leggendo questo libro, in un punto si parla proprio di questo effetto del tempo che viviamo, che vediamo e ne siamo testimoni solo nell'istante presente. E' la percezione stessa di questo presente che ci rende vigili in esso, sempre che lo riusciamo a comprendere davvero. Infinite volte preferiamo il passato o il futuro per gestire il nostro andare. Anche uno sfasamento minimo nel tempo come potrebbe essere il fare una cosa mentre stiamo già pensando a quella da fare dopo non fa stare esattamente nel presente. Sono sensazioni e i più non hanno tempo per badare a certe sciocchezze o sottigliezze, ma la differenza c'è e si misura con un'altra percezione altrettanto importante. Questa è la voce della mia esperienza personale. Tale percezione è molto simile a sentirsi una unità, come se si sentisse svanire lo sfasamento temporale tra il fare e il pensare, come se un'immagine si sovrapponesse e combaciasse perfettamente su quella sottostante e così facendo qualcosa iniziasse a scorrere in modo più fluido dentro, senza scatti. Non è facile descrivere questa sensazione dello stare nel presente dopo essersi conquistati questa comprensione, serve un po' di immaginazione che segua il suggerimento delle parole utilizzate per descriverla, poiché per ciascuno la sensazione potrebbe differire. Nessuno è identico agli altri benché si sia simili. Questa è la realtà da tenere sempre presente quando si esprime un concetto personale, derivante da esperienza personale, ma che potrebbe descrivere una sensazione comune. Non arriviamo tutti dalla stessa strada quando ci ritroviamo da qualche parte. Scusate la digressione, ma di  tempo ce n'era per permettersela. Per tornare al tema di questo post, la fretta, devo ammettere che anche se sto attenta a vivere nel presente, scivolo spesso in essa. La fretta ruba l'attenzione necessaria a mantenersi nell'adesso, nel qui e ora, ricreando il lieve sfasamento. Avendo fretta si è portati a svolgere i propri compiti con il corpo impegnato in qualcosa e la mente proiettata nel dopo, nel futuro prossimo. Quante cose faccio poi ripensando a cose passate, giusto perché mi sento di ripensare a qualcosa, o riflettere, e non ho più il tempo che avevo una volta a disposizione per starmene un po' in silenzio soltanto a pensare.  Da sempre abituata a fare più cose nello stesso momento per soddisfare forse un desiderio di efficienza, ancora non so ben capirlo, mi trovo a correre a destra e a manca senza posa, arrivando a sera chiedendomi spesso "ma perché vado tanto di fretta?". Com'è possibile che i giorni corrano tanto e sfuggano via? Forse corrono nell'esatta misura di quanto corro io stessa... Adesso il mio presente è fatto di fretta anche senza motivo e spero di riuscire a ritrovare quella pace che avevo tempo fa, che ho conosciuto e mi ha mostrato il vero ritmo umano che è quello del cuore, lento, incessante ed efficiente, impeccabile e in sintonia con la natura, che non è altro che l'ascoltare se stessi e l'aver cura di mantenere questo speciale dialogo interiore con domande e ricerca di risposte, nonostante tutto quello che incontriamo nella vita e che ci impedisce, il più delle volte, di dedicarci a noi stessi e alle persone che amiamo con la stessa cura e lo stesso cuore.
Cercando di non abusare del detto "Non rimandare a domani ciò che potresti fare oggi" nato, credo, per invogliare all'azione chi è pigro, cercherò, dove posso, di rimandare a domani qualcuna di quelle cose che mi verrebbe da fare oggi per riprendermi un po' di tempo per sognare anche di giorno, non solo di notte mentre dormo. :-)

venerdì 5 agosto 2011

Menzogne involontarie

In questi giorni sto leggendo un libro veramente interessane, si tratta di "Momo" di Michael Ende. Il periodo che mi ha suggerito un pensiero è questo che segue.

"Soltanto Momo era capace di attendere a lungo e di capirlo. Sapeva che lui si prendeva tanto tempo per non dire mai qualche cosa di insincero. Perché, nella sua opinione, tutta l'infelicità del mondo nasceva dalle troppe menzogne, quelle intenzionali ma anche da quelle involontarie, tristi frutti della fretta e dell'indecisione."
 MOMO di M. ENDE


Ecco, non avevo mai pensato veramente al fatto che ci fossero menzogne involontarie, semplicemente perché non definendole così ho sempre guardato da un solo punto di vista. Una menzogna è per definizione una affermazione con cui si altera volontariamente la verità per cui non mi ero soffermata sulla possibilità che potesse avere questa sfumatura, che si potesse definire anche involontaria. E dire questo è di effetto perché impattando sulla mente apre nuovi spiragli alla comprensione. E' vero, certe condizioni, certe circostanze possono alterare la verità che esprimiamo anche senza volerlo. In prima fila l'essere insinceri con noi stessi genera questo tipo di bugie. A volte capita che non si scavi abbastanza in profondità per comprendere davvero ciò che abbiamo dentro e il risultato è una verità che, in qualche modo, è "superficiale", nel senso letterale del termine, che prende solo le cose che stanno più in superficie, più vicine alla consapevolezza ordinaria, quella riconducibile, in ogni momento, alle cose che sappiamo bene di noi per abitudine. Certe volte può succedere che altri vedano di noi qualcosa che noi stessi non vediamo subito e quando parliamo, attingendo da ciò che vediamo dentro di noi senza averlo  visto nella sua totalità, possiamo benissimo mentire senza rendercene conto. Non c'è cattiveria in questo né dolo, c'è solo un tempo mancato, nel senso che non siamo ancora arrivati nel punto in cui c'è la consapevolezza più completa. E se è vero che possa accadere che si mandino nel mondo menzogne involontarie perché non abbiamo ancora compreso qualcosa, è anche vero che per fretta e indifferenza, o disattenzione nei confronti di noi stessi, si ottenga costantemente lo stesso risultato. Guardare in profondità è faticoso e doloroso e non c'è nessuna assicurazione che il risultato sia positivo. Forse utile ma si deve saperlo apprezzare così com'è, seppure ci porta alla luce, in superficie, qualcosa che non ci piace vedere di come siamo. Perché il giorno che vediamo come siamo davvero scatta qualcosa, quasi sempre, che impedisce di richiudere gli occhi su ciò che si è visto. La consapevolezza acquisita non permette facilmente di distogliere lo sguardo e forse uno dei motivi per scansare l'introspezione è proprio questo, guadagnare in scomodità non è piacevole, perché ogni percorso di comprensione è scomodo così come lo è tutto ciò che richiede di modificare qualcosa alla quale si è abituati. Non si vedono sempre difetti di noi ma anche cose belle e positive, capacità latenti che aspettano solo di essere nutrite. La sincerità con se stessi è fatta quasi completamente dalla conoscenza profonda, o almeno un po' meno superficiale, di noi. Tuttavia il senso di una menzogna involontaria mi fa pensare al malessere di chi non si fa mai domande, ma questo è il mio parere. Mi spiego. Ho sempre creduto nel potere del porsi delle domande, lo associo alla potenzialità di arricchimento personale in seno alla conoscenza in genere. Se non ci sono domande le cose che potrebbero aver bisogno di essere comprese rimangono a galleggiare in superficie e non si sviluppano mai, come un seme che non va dentro la terra. Eppure farsi delle domande è sia scelta personale sia incapacità a farlo magari perché nessuno lo ha insegnato. Credo però che se un giorno le domande bussassero alla porta si dovrebbe almeno ascoltarle prima di scacciarle malamente.