lunedì 7 ottobre 2013

"Femminicidio"

Negli ultimi tempi molti fatti di cronaca riportano notizie di donne uccise da mariti o compagni, comunque uomini, maschi. Per questo motivo qualcuno ha iniziato a parlare di femminicidio invece di omicidio. E' su questa distinzione che vorrei soffermarmi a riflettere. Uccidere qualcuno è esecrabile e il condannare il fatto indiscutibile però è il distinguere che non mi piace. E sottolineo che si tratta solo di una mia opinione, il pensiero di una sconosciuta tra miliardi di persone. Forse si tratta di una sensazione mal percepita ma il fatto è che quando si dice "femminicidio" sembra si debba sottintendere tutto un mondo sottostante in cui se viene uccisa una donna, femmina, si deve automaticamente dispiacersi un pelino di più. La donna è fragile, la donna è dolce, la donna è bella, la donna ha la precedenza perché può fare figli così se chi la uccide è un uomo tutto si trasforma nell'immaginario di una preda indifesa assalita da un predatore spietato. Ma non è questa l'immagine che dovremmo avere né dovremmo accettare di voler vedere, al di là delle singole verità o della realtà di alcuni casi. L'omicidio è uccisione di un altro essere vivente senza distinzione di sesso, religione o colore della pelle. Questo è ciò che dovremmo sapere, e basterebbe, per comprendere che dovremmo rifiutare categoricamente l'atto così come la distinzione in femminicidio e, per contro, immagino esista la possibilità di dire in maschicidio, se volessimo ragionare in questi termini. Se venisse uccisa una donna, così come se venisse ucciso un uomo, si tratterebbe della morte di un essere umano che ha una sua storia e una sua vita e dei legami. E non credo che non esistano al mondo donne che uccidono uomini, magari i loro compagni o mariti, per lo stesso identico motivo che sta alla base di un femminicidio. Alla base di tante morti c'è rabbia, incomprensione, mancanza di dialogo, paziente dialogo, esasperazione che porta alla scelta sbagliata di un gesto incancellabile, ma sia uomini che donne possono soffrire nello stesso identico modo e per gli stessi motivi. Se si sceglie di porre l'accento sulla constatazione di omicidi di donne questo accento non dovrebbe avere altra forma se non quella del discutere del malessere che porta qualcuno a sopprimere fisicamente qualcun altro, non si dovrebbe, a mio avviso, colorare questo accento in modo da dipingere le donne come angeli e gli uomini come demoni. Tra l'altro un giorno potrebbe accadere il contrario, e si sbaglierebbe anche in quel caso, se si dipingessero le donne come demoni e gli uomini come angeli. La vita di ciascun essere umano, e più oltre di ciscun essere vivente, è preziosa e irripetibile per come essa si presenta con le sue peculiarità, così dovremmo impegnarci ad averne maggior cura ma soprattutto, certe mie esperienze personali me lo hanno insegnato, dovremmo odiare talmente tanto la guerra e la soppressione o la riduzione al silenzio di chi non vogliamo più sentire da cercare disperatamente di proseguire il dialogo, anche se questo ci sconvolge la vita per un po' o ci spaventa perché non ci sentiamo capaci o in vena di farlo. La comprensione è vitale, quella personale e quella reciproca a pari merito. E' quella che cerchiamo sempre, ma senza il dialogo tra le persone o senza quello interiore non la potremmo ottenere neppure frammentaria. E se qualcuno si domandasse cosa c'entra il comprendere se stessi o gli altri in questo discorso, risponderei che questo lavoro di cuore potrebbe impedire molti omicidi. RBBetween

sabato 7 settembre 2013

Noi non siamo gli errori che commettiamo

A chi non capita di sbagliare? Anche se siamo persone attente a non fare del male a noi stessi e agli altri mentre camminiamo sul sentiero della vita possiamo sempre, in qualsiasi momento, mettere il piede in fallo. Accade, è una certezza, com'è una certezza che l'errore lo abbiamo commesso e mai siamo, mai, noi stessi l'errore commesso. La verità che custodiamo dentro di noi in merito, è che esiste sempre un motivo alla base delle nostre azioni o delle nostre parole e di questo, volenti o nolenti, ne siamo responsabili. Noi continuiamo ad esistere con la consapevolezza o meno dell'aver commesso uno sbaglio che prima o dopo si ripresenterà ai nostri occhi per essere compreso. Noi esistevamo prima dell'errore ed esistiamo dopo di esso, modificati. La consapevolezza e l'insegnamento che ne riusciamo a trarre saranno l'effetto modificante. E tutto questo si sommerà a ciò che abbiamo imparato ad essere. Ciò che siamo, se riusciamo a far scorrere la vita e a respirare con l'anima, è la natura di esseri in costante divenire autorizzati a sbagliare ma non, di conseguenza, giustificati per questo. Sbagliare fa parte del processo di apprendimento. La giustificazione che vorremmo ci salvasse sempre e ci mettesse al riparo dal giudizio altrui non è un atto dovuto a nessuno perché tutti siamo comunque sempre responsabili di ciò che facciamo e diciamo e tutti possiamo sbagliare, prima o poi. Il vero dolore nasce nel vedere che gli altri ci giudicano in base ai nostri errori talvolta senza appello. Giudicandoci per l'errore commesso finiamo per diventare qualche volta l'essenza di tale errore anche ai nostri occhi. La definizione di ciò che siamo, da quel punto in poi, passerà per i nostri sbagli e se non viene concessa la possibilità di raccontare il perché, o se non viene concesso di ascoltare il nostro pentimento o di raccontare ciò che abbiamo imparato, vivremo in un mondo senza possibilità di perdono. Tutti sappiamo che il perdono più difficile con il quale possiamo arrivare a confrontarci è quello nei nostri confronti, quando ci sentiamo in colpa per ciò che abbiamo fatto. A meno che non si abbia il cuore sigillato, a nessuno piace vedere la sofferenza altrui provocata da noi.
L'ascolto e il dialogo sono da sempre alla base della possibilità di vedere nascere il germoglio del perdono, anche non totale, in attesa della comprensione profonda della natura delle cose e delle situazioni, nonché di se stessi. Tuttavia si deve accettare che le persone ferite dalle nostre parole o dalle nostre azioni non ci concedano l'appello che vorremmo; anche questo fa parte della varietà di situazioni che si incontrano sul sentiero. In assenza della possibilità di recupero che non ci viene  concessa dobbiamo convivere, oltre che con il fardello della consapevolezza del proprio errore, anche con il senso di impotenza avendo volontà di creare un nuovo equilibrio nella comprensione reciproca dei punti di vista. E i ruoli, non dimentichiamolo, spettano a turno a tutti quanti perché nessuno è esente dallo sbagliare; ecco perché il perdono dovrebbe essere considerato di più, perché prima o poi quando ci capita il ruolo di colui che ha sbagliato, dimenticando tutto, vorremmo solo essere perdonati o quantomeno ascoltati.  RBBetween

Dare le perle ai porci

E' un modo di dire; lo si usa quando si vuole esprimere il concetto che qualcuno non apprezza ciò che gli viene offerto. Il porco non lo fa apposta, lui non comprende il valore, non sa riconoscere la bellezza che noi attribuiamo alle perle, non sa cosa siano le perle: il porco cerca solo il cibo per sopravvivere. Noi abbiamo gettato le perle nel suo trogolo pensando che cose tanto preziose siano capaci si sfamarlo nel modo corretto, magari perché in un certo senso sfamano la nostra mente con il valore che attribuiamo loro. Per noi le perle sono doni preziosi ma il porco continua a cercare il cibo. Non vede le stesse cose che vediamo noi. Questo accade spesso anche tra esseri umani quando diamo agli altri qualcosa di noi con tutto ciò che siamo o con tutto il nostro cuore mentre chi dovrebbe ricevere il nostro "dono" si comporta in modo tale da non apprezzare minimamente. La stessa indifferenza del porco verso le perle possiamo provarla sulla nostra pelle quando amiamo qualcuno che non tiene a noi nello stesso modo in cui noi teniamo alla persona in questione, anzi non ci tiene affatto. Viaggiare su differenti binari di pensiero o di desideri personali può far incontrare anche questo tipo di situazione nella vita. E solitamente non siamo noi a renderci conto di stare dando perle ai porci, come si dice dunque, bensì sono gli altri che ce lo fanno notare. Noi crediamo in quello che facciamo e in ciò che proviamo. Ci siamo dentro e molto probabilmente siamo esattamente dentro al trogolo del porco in qualità di perle noi stessi. Se si verifica questo, quasi mai ci rendiamo conto di essere perle, noi ci sentiamo come normalmente ci si sente quando amiamo. Siamo noi stessi senza badare troppo a vantarci dei nostri pregi. Ma può accadere anche che si dica di conoscere bene il proprio valore in modo da autodefinirci perle e, in questo caso, non riconosceremo mai il porco come tale. Sono sempre gli altri, coloro che osservano dall'esterno, a vedere e definire la situazione.
Fosse poi anche il caso che il porco, invece di scansare le perle, se le mangiasse, purtroppo dovremmo concludere che, sapendo che le perle non sono un cibo nutriente e digeribile, il porco non ne ricaverà granché. Ecco dunque il ritratto crudo dell'assenza di speranza che sia possibile ricavare qualcosa di positivo dal dare le perle ai porci. Semplice, lineare, asciutto pensiero. Eppure, in qualche angolino della mia fantasia, mi piacerebbe pensare che l'evoluzione dei porci potesse passare attraverso il cibarsi di perle, tutte le perle che sono state date loro, lanciate da lontano o messe lentamente nella mangiatoia, offerte a mano aperta avvicinandosi con amore, o lasciate lì di notte mentre i porci dormono. Sarebbe bello pensare che nonostante tutto, da qualche parte, pur venendo considerato impossibile, ci sia sempre una possibilità per imparare a comprendersi veramente, per trasformare i cuori induriti dall'abitudine a considerarsi inadatti alle perle in cuori capaci di usarle per vivere. RBBetween

domenica 11 agosto 2013

La sedimentazione dei sentimenti per effetto del trascorrere del tempo

L'immagine di riferimento è un bacino d'acqua più o meno trasparente che, dopo un evento sconvolgente, cambia colore, perdendo in trasparenza. Dopo l'evento, in sospensione nell'acqua, c'è tutto il pulviscolo del fondo, terra o sabbia che sia. I sentimenti legati ai pensieri che viviamo e produciamo ogni giorno sono il nostro pulviscolo di fondo e quando accadono eventi sconvolgenti non siamo molto diversi da un bacino d'acqua che ha perso temporaneamente la sua trasparenza. E qui entra in gioco il tempo. Il trascorrere dei giorni è il passaggio del tempo ossia una corrente capace di permettere che il fondo ritrovi la sua tranquillità, ma solo se lo si lascia agire. Il tempo non può nulla se non collaboriamo con lui. Se nel trascorrere dei giorni contrastiamo il paziente agire del tempo alimentando l'agitazione del fondo rimuginando costantemente il tempo trascorrerà impotente. Impotente per noi, non in assoluto. Il tempo è una forza che agisce solo se la si lascia agire. Il rimuginare agita il fondo e la pace non si trova. La pace esiste in armonia con la propria trasparenza, la propria chiarezza di visione. Tuttavia, rimuginare talvolta serve per ricercare la comprensione che ci manca, un po' come buttare all'aria il contenuto di una stanza stipatissima di mille cose dimenticate per cercare quella giusta per il momento giusto, quella che serve. Dopo, però, si deve cercare di riordinare il tutto per poter entrare ancora dentro la stanza. L'equilibrio tra lo spazio vuoto e il pieno degli oggetti mostra il seme della chiarezza. Se i sentimenti sono il nostro pulviscolo ribelle la loro nuova sedimentazione per effetto del trascorrere del tempo è la condizione necessaria alla riconquista della trasparenza affinché si possa mostrare di nuovo al mondo il nostro reale colore. Ma la nuova sedimentazione, così come insegna la natura col suo bacino d'acqua sconvolto dal temporale, quando tutto tornerà trasparente, non vedrà sul fondo la stessa posizione dei frammenti di terra. Forse, parte della non accettazione e del combattere contro la tranquilla sedimentazione, nasce dalla conoscenza inconscia che le cose non potranno essere come prima. Non si accetta mai facilmente il cambiamento, profondo o superficiale che sia... E mentre si rimugina e non si accetta ci si dimentica della nostra trasparenza, del nostro colore. Il tempo se ne sta a guardare mentre noi agitiamo le acque interiori e aspetta sempre disponibile per chiunque, finché comprenderemo la sua presenza e vedremo la sua mano tesa in gesto di aiuto. Un'ultima cosa che credo importante: lasciare che sentimenti o anche  pensieri ribelli o dolorosi o inaccettabili si sedimentino non significa abbandonare la lotta, qualora ve ne sia da combattere per comprendere, significa divenire maggiormente presenti in se stessi per gestire la sedimentazione con consapevolezza, senza lasciarsi andare privi di controllo smettendo di guardare. E' accompagnare la sedimentazione il percorso di saggezza, perché ogni frammento che si presenterà dovrà essere guardato e con dolcezza affidato al tempo con atto di fiducia, affinché si collochi in un posto dentro di noi che non sia una soffitta polverosa o un'umida cantina dove parcheggiare le cose da dimenticare per stizza o per ripicca o con violenza. Rimanere svegli durante la sedimentazione è la sfida. RBBetween

domenica 7 luglio 2013

Tu sei tu, con il tuo nome e la tua identità

Ciascun essere vivente, in quanto entità materiale distinta, ha, di conseguenza, una sua identità. Non importa che si faccia parte di un gruppo, di un clan, di una società, di base si è comunque e sempre degli individui. E' in questo essere individui materialmente separati dagli altri la radice dell'identità. Ma la vera identità non è in dotazione, perché nella sua complessità di concetto è un qualcosa che si costruisce nel tempo, durante la vita. Ricordando però che la sua base esiste sempre fin dall'inizio. Non è mai facile rendersi conto dove finiscono gli altri e i loro pensieri con le loro abitudini che ci ritroviamo a condividere oppure ad accettare come fossero nostre davvero, senza che le abbiamo mai vagliate a sufficienza per comprendere che sono realmente anche nostre. L'esempio più facile e vicino con cui ci possiamo confrontare sono i genitori. Quante volte ci hanno detto che somigliamo a nostro padre o a nostra madre o noi stessi siamo stati a dirlo in qualche occasione. Facile conclusione da trarre avendoli osservati e avendo riscontrato in noi certi atteggiamenti o caratteristiche. Non parlo dell'eredità genetica che può rendere i corpi straordinariamente simili a quelli dei nostri genitori o dei fratelli o sorelle, parlo dell'eredità più sottile con cui abbiamo a che fare. L'eredità genetica è intoccabile, salvo casi estremi in cui si voglia talmente deviare dalla somiglianza da richiedere interventi chirurgici, mentre l'altra eredità, quella più sottile, possiamo elaborarla o quanto meno impegnarsi a comprenderla. In questa elaborazione e comprensione sta il processo per riprendere la propria identità, quella che ci fa dire che siamo unici, pur somigliando un po' a qualcuno. L'unicità è un dato di fatto, almeno io lo ritengo tale, se mi metto a riflettere su tutto quanto. Se non impariamo ad essere noi stessi con le cose che vogliamo che facciano parte di noi, avendole comprese abbastanza in profondità, avremo sempre delle pendenze e dei legami inconsci che ci rubano l'energia dell'identità vera, che è un diritto di tutti. Diritto averla e dovere riconoscerla. Quando nasciamo entriamo dentro forme pensiero che non ci appartengono poiché ancora non siamo in grado di produrne e cresciamo all'interno di queste come se ci stessimo muovendo su delle rotaie. Rotaie inizialmente utili, finché non siamo in grado di costruirne di nostre. Fa parte della vita come essere nutriti e vestiti con qualcosa che accettiamo ciecamente per il fatto che non abbiamo ancora sviluppato la capacità di badare a noi stessi da soli. Solo che se non si inizia mai, nel corso della vita, a farsi delle domande per rivedere come siamo fatti davvero senza questo filtro, in fondo cresciamo poco e continuiamo a identificarci con qualcuno o con qualcosa sminuendo il potenziale di libertà che potremmo avere e sperimentare. Il percorso è complesso ma il concetto è semplice. E il giorno in cui ci si sveglia quanto basta per intuire che quel dato atteggiamento o quel lato del carattere non ci calzano a pennello, anzi, a dirla tutta si prova fastidio a viverseli addosso, è il giorno giusto per muovere un passo sul sentiero della modifica. Ricordo le volte in cui mi sono ritrovata a fare qualcosa in un modo che non mi sentivo proprio, non mi andava, e dopo averlo fatto sempre nella stessa maniera mi guardavo dentro pentendomi o dispiacendomi perché sapevo di non essere completamente me stessa mentre agivo, ecco, in quei casi mi sono messa lì a spulciare i miei atteggiamenti in relazione ai miei sentimenti, non all'impalcatura dei pensieri, e ho confrontato questi con il modo di fare dei miei genitori. Il risultato è stato divenire maggiormente consapevole di come sono io ma anche di come sono loro. Sono riuscita a separare dei movimenti inconsci perché li ho fatti emergere tramite la domanda e il ragionamento e il confronto. Ho ripreso me stessa un po' di più. Se una cosa non ci piace, un lato caratteriale, un modo di pensare che si scopre acquisito e mai veramente ottenuto da ragionamento o per averlo fatto passare dal proprio cuore, possiamo metterci lì e cercare un modo per cambiare qualcosa. Non sta scritto da nessuna parte che non si possa fare, tranne nelle convenzioni che vogliono vedere la discendenza come una clonazione o a livello societario dove il non uniformarsi implica automaticamente, nei casi peggiori, l'isolamento. Se tu sei tu, ti senti tu, e vivi la tua identità. Puoi rapportarti agli altri e al mondo con maggiore serenità. RBB

domenica 19 maggio 2013

Ritratto di una quarantenne

Eccoci, sono arrivata alla famigerata soglia degli "anta". Nessuna festa né grande né piccola. Solo un giorno come gli altri. E pace, mentre si cerca di mettere ordine negli anni passati. Lo specchio rimanda un'immagine che non riesco mai a vedere bene poiché vivo con quella mentale che ho di me, a partire dal sentirmi magra e bella. E qui, alla risata, viene concesso di entrare in scena. La verità non è mai facile da accettare perché, soffermandosi su ciò che racconta lo specchio, il tempo passato lo si vede eccome. Basta saper guardare. La linea della schiena, una certa pesantezza che incurva le spalle, un po' di pancia che si spera se ne vada via standosene a dieta, come perennemente dovrei fare soprattutto per mantenere la salute, ma che spesso resta lì, forse come monito per la volontà da esercitare ancora e ancora per non soccombere. Eppure il tempo è passato ma non lo trovo nelle rughe che ancora non ci sono, no, lo trovo distribuito equamente fuori e dentro in angoli che mi sono propri. E tutto questo fa di me ciò che sono nel presente e mi pone la domanda se ancora mi accorgo di come vanno le cose, se ancora le vedo senza travisarne nemmeno l'ombra e, nonostante tutto, se riesco ancora a combattere quando serve. E qui, sul combattere, si scopre il nervo. Quando combatti da una vita intera per tutto: da bambina per affermare che esisti pure tu e non sono gli adulti i soli a poter esprimere se stessi; da adolescente per ribadire il concetto dell'affermazione e per non sentirsi isolati se si comprende piano piano di essere qualcuno che non si uniforma al branco; da giovane adulta che intraprende strade inusuali all'inseguimento della conoscenza pura, alla ricerca di quel seme o di quella chiave che ti apre la porta di mondi oltre l'apparenza che non ti soddisfa; poi più in là incontro alla sofferenza altrui che ti lascia il segno e la morte che non vorresti mai vedere da giovane; ecco, quando combatti sempre sviluppi la corazza. E dunque, in tutto questo combattere, è stato messo su un arsenale appropriato fatto di volontà ferrea, talvolta tagliente più di una lama affilata, scudi perfettamente trasparenti adatti a qualsiasi occasione, fatti della prontezza di risposta agli eventi qualsiasi essi siano. I muscoli si sono irrigiditi nell'attesa del prossimo colpo ma nel tempo non ci si rende più conto di stare costantemente in allerta per tutto, così si sviluppa un adattamento cronico a qualsiasi cosa, e che sia bella o brutta diventa indifferente. Si finisce per non riconoscere più quando è il momento per mollare la presa per rilassarsi, soprattutto perché le volte in cui ci hai provato ti è arrivato un nuovo colpo. E' così che si diventa diffidenti e guardinghi come un segugio sempre pronto alla caccia. E, mentre sei impegnato in questo modo di esistere, non si avvicina nessuno e tu, in quell'angolo ancora libero da tutto questo rigore, desideri che ci sia qualcuno, anche uno solo, che se ne freghi delle tue spine e dei tuoi modi bruschi (che cerchi perennemente di equilibrare con tutta la dolcezza e gentilezza che riesci a trovare dentro di te) e ti cerchi, invece di allontanarti, che ti perdoni se sbagli, che abbia pazienza. Eppure non fai nulla per agevolare questo avvicinare. Sei talmente abituata a badare a te stessa che il costante e talvolta inconscio esame che fai agli altri non risulta mai superato. Salvo il caso dell'entrata in gioco del cuore. E anche qui, anzi soprattutto qui, vorresti ma non sai mai come fare e ti ritrovi con nulla. Poi hai paura, una stupida paura - che cerchi di esorcizzare con la filosofia - di stare vicino a qualcuno. E il tempo continua a passare. E per stare vicino a qualcuno non mi riferisco all'avere un compagno, mi riferisco agli affetti in genere. Ho visto negli occhi altrui, soprattutto di coloro che mi conoscono appena, una sorta di percezione che mantiene a distanza e non ci metto molto a comprendere quale sia la causa poiché la conosco. Perché mi vedo. La trascuratezza, talvolta voluta come maschera, talvolta per sola stanchezza di aggiungere gesti in più che portino ad una cura maggiore, sono la mia forma e colore per chi guarda. E in tutto questo, quando si è incentrati su se stessi per difendersi, non ci si rende conto della cosa più banale del mondo, che tanta difesa rifornisce di energia l'importanza personale in un modo subdolo. Si cerca approvazione negando se stessi affinché ci sia qualcuno che ci dia soddisfazione, acclamandoci in qualche modo, o ci consoli o ci venga a dire "poverino quanto soffre". E qui, serve una parentesi per escludere da questo discorso chi soffre veramente. Per quanto mi riguarda ho avuto le mie dosi di dolore, come dicevo prima, brutte da vedere e da vivere, ma dentro, in fondo, mettendomi col massimo della volontà a cercare, ho poi trovato la forza per uscirne e se, dentro, questa forza si riesce a trovarla, si smette di essere deboli e bisognosi. Se dopo aver trovato tale forza si continua inconsciamente a sentirsi bisognosi di una carezza altrui si mente a noi stessi poiché la carezza già siamo riusciti a farcela da soli. Ovvio che una carezza faccia sempre piacere, me ne rendo conto, ma per una come me, abituata a non averne, soprattutto metaforicamente parlando, tutto si trasforma in una questione di non sapersi difendere adeguatamente se si ammette di volerne, perché è ancora attiva l'ottica del guerriero. Eppure, il vero guerriero, non è colui, o colei, che sta perennemente pronto e in guardia con le armi spiegate e a portata di mano, è semplicemente un essere che sa riconoscere quando sia il tempo di combattere e quando sia il tempo di riposare deponendo qualsiasi arma. Il vero guerriero potrebbe rimanere senza armi o senza protezione e tuttavia sarebbe ugualmente capace di difendere se stesso e chi ama. Questi quarant'anni trascorsi in un soffio hanno visto molte cose, poche vissute in carne ed ossa ma moltissime, quasi infinite, quelle vissute con la mente e con il cuore. L'equilibrio tra le cose alle quali ho rinunciato si pareggia nella consapevolezza di non aver rimpianti per tali decisioni. Ho imparato, entro questa disciplina che mi ha forgiata, a masticare i bocconi che non riescono a scendere facilmente e mai a sputarli giusto per onorare la vita e ciò che offre così come ho imparato a vedere la bellezza nelle cose semplici e in posti in cui non si penserebbe mai di guardare o di trovarla. Se è vero, come si dice, che siamo ciò che mangiamo, posso comprendere la mia mancanza di avvenenza dovuta a bocconi amari di vario tipo mandati giù o ancora in fase di digestione. Non mi posso lamentare e neppure voglio farlo perchè ho molto, anche troppo ma non lo so gestire, e vivo sempre facendo a meno di tutto. Non spicco perché non voglio spiccare. Ho i miei sogni e disideri come tutti e molti li lascio nel cassetto, forse per paura o forse per non avere la scrivania vuota. Ho le mie tristezze e le mie commozioni come tutti. Sono in vita e devo, ogni giorno, imparare a rivedere come si vive, come si guida questa strana macchina che è ciò che siamo. RBBetween

lunedì 4 marzo 2013

Saggia raccomandazione per un goloso

Eccomi, rea confessa, sono una golosa. Ma sono anche una che ci ragiona sopra. Questo discorso mi è venuto in mente oggi a pranzo mentre, forchettata dopo forchettata, mi gustavo dei tortelli ripieni di spinaci e ricotta conditi con del sugo ai funghi. Ottimi. E lì ho pensato al fatto che per tutta la vita ho mangiato con voracità perché inseguivo la soddisfazione della gola. E quando la voracità non era proprio velocità o bocca piena era "ne prendo ancora un po' perché è buonissimo". Ecco, la consapevolezza mentale acquisita tramite il senso del gusto nutre la testa ma danneggia il corpo se non c'è equilibrio tra le due componenti. La golosità fa agire verso la seconda porzione, potendola avere, e questo fa dimenticare che si dovrebbe mangiare per nutrire il corpo e meno per soddisfare l'appetito. E la golosità, in essenza, è un'attitudine che si ritrova ogni volta che si desidera avere, qualcosa che piace, in maniera ripetuta. Ci si definisce golosi se quella data cosa piace davvero molto, e lo si sente con un'intensità che vibra in modo viscerale, ma non è facile controllarsi. Al di là della definizione ristretta all'ambito del cibo, per cui la parola si applica bene, penso che si possa essere golosi anche di una lettura o di una persona, benché si possa meglio definire che tale golosità sia una passione. Questo per dire che comunque, in fondo, tutto è un'operazione mentale. Va bene, sappiamo che un dato cibo ha quel dato sapore e che proprio quello ci rende golosi. Lo sappiamo perché lo abbiamo acquisito, abbiamo sperimentato, abbiamo assaggiato. Ma è anche vero, in parallelo, che per molte cose della vita si potrebbe dire lo stesso, dopo averle "assaggiate". Il comune denominatore è la registrazione mentale di un fattore che per noi è il top nella nostra personale classifica di gusto. Conosciamo il sapore di un cibo così come conosciamo il sapore delle lacrime o di un abbraccio. Rimane tutto agli atti nella memoria e ci permette di operare delle scelte che per qualcuno sono consapevoli, per qualcun altro inconsapevoli. E se ci penso, anche guardando me stessa, non associo la golosità a delle sensazioni spiacevoli. In quel momento, quando sei al cospetto dell'oggetto del quale sei goloso, ti senti bene, sei allegro, contento. Ti vuoi gustare quel sapore il più a lungo possibile così ripeti l'azione, ne prendi un'altra fetta. Ma anche l'ennesima fetta finisce e tu ti ritrovi con niente da assaporare. E se (per tornare al cibo) mangi velocemente riduci il tempo utile per il godimento. Ecco la saggia raccomandazione che oggi ho fatto a me stessa: per vari motivi, primo per la salute, imponiti di masticare più lentamente e sii presente in ogni boccone che mandi giù, perché solo così potrai assaporare più a lungo ciò che ti piace e perché se ti rovini ingurgitando le cose solo per sentirne il sapore, crogiolandoti nell'idea che hai mangiato una cosa buonissima, poi potresti non avere sempre il corpo che ti accompagna in questo gioco. Non è facile per un goloso farsi bastare un solo piatto ma si può fare. Se poi si decide che non ce ne importa granché e si sorvola sul peso che questa decisione avrà sul fisico, così sia, ma ad un certo punto le conseguenze sbucheranno da qualche parte o svolteranno l'angolo inaspettatamente. Parola di golosa con esperienza. RBB

martedì 26 febbraio 2013

Giovanni B.

Solo il nome, con l'iniziale del cognome. Solo il nome perché il cognome definisce il personaggio pubblico e qui, in questo spazio che gli dedico, vorrei raccontare la sensazione che mi è giunta vicino avendolo incontrato, senza badare al resto. Non posso dire di conoscerlo ma ciò che si sente in sua presenza è stato sufficiente per suggerirmi di ascoltare. Di ascoltare senza guardare, per non giudicare, per non filtrare i pensieri tramite le maglie di un chi è. Giovanni, come molte altre persone, è qualcuno che si conosce per il lavoro che svolge. Ma è anche, e prima di ogni altra cosa, un uomo come tutti gli altri. Il suo passo è leggero ma la sua impronta non svanisce, resta lì e ti fa ancora pensare all'uomo e non al personaggio intriso del suo mestiere. E questo accade quando una persona ha dentro di sé la sostanza che sublima dal cuore. Lo spirito non manca e si diffonde tra la gente che gli sta intorno. Lui c'è per amore e per passione, se ho letto bene nella forma della sua impronta, e credo sia per questo motivo che ciò che dà di sé resta nella memoria altrui. Come accade un po' a chiunque, ci saranno quelli che lo amano e coloro che non possono soffrirlo ma questo credo sia  l'aggancio con la realtà che non si dovrebbe mai dimenticare, ossia che non ci sono mai realmente personaggi ma persone. Parlo di lui perché mi ha fatto tornare in mente qualcosa in cui credo fermamente, credo che sia importante guardare le persone al di là della loro superficie esterna, sia che questa venga costruita ad arte, sia che esista da sola come frutto delle reazioni del carattere. Poi accade di incontrare qualcuno come Giovanni che con la sua sola presenza in una stanza te lo rammenta. Direi di lui le stesse cose anche se non sapessi ciò che so del suo lavoro, quindi tengo a bada questa annotazione a margine e vado avanti. Ho visto un uomo che scrive parole bellissime, che fluiscono da un distretto dell'anima o anche del cuore, e le dona per amicizia anche se giurerei di aver visto solo un dono al di là dell'amicizia. Navigare tra le parole che i poeti conoscono, portarle a toccare la musica, unirle, mescolarle per farne melodia per tutti o solo per qualcuno, è l'attitudine interiore di un uomo che ha molte cose dentro da raccontare. Vale la pena, anzi, direi che è solo un piacere ascoltarlo. E un uomo, il cui guscio conosciuto può servire a molti per definirlo, che non si serve di esso per definirsi, si aggiudica un posto tra coloro che fanno l'esempio. Non l'idolo, non propriamente il modello su cui plasmarsi, ma una luce di riferimento. Riuscire a rimanere se stessi significa anche, in qualche modo, coltivarsi dentro piuttosto che fuori. Giovanni ha le sue timidezze, i suoi momenti migliori e peggiori, come tutti, ma sono sicura che la radice che lo contraddistingue sia profonda nel suo cuore.

lunedì 25 febbraio 2013

Rimanere umani

Stay human. Ho un'amica che ogni giorno pensa e scrive su facebook queste semplici e potenti parole la sera prima di dormire. Non si stanca mai di rammentarlo a chiunque. Ha ragione ed è da ammirare per questa sua costanza e perché il suo cuore, così, batte sempre anche per chi non è tutelato dallo stesso pensiero e modo di essere, per chi magari intorno non ha lo stesso raggio di cuore che possa permettergli di esistere. Semplicemente e basilarmente di esistere con tutto se stesso e con tutto ciò che è e che può essere ma, soprattutto, con ciò che potrebbe diventare se fosse possibile creare  opportunità di crescita e sviluppo personale. Ecco perché essere umani comprende non solo usare sempre il cuore ma anche pensare di creare spazi e opportunità per imparare. Essere umani è rendere liberi dentro. Essere umani è crederci sempre e dialogare. Uno dei miei sinonimi personali per definire il rimanere umani, e dunque l'esserlo pienamente al meglio possibile, è il concetto del venirsi incontro. Laddove vedo che ciò non accade, per me, non c'è umanità. Nella burocrazia che si ritiene costretta a mostrare di non poterci fare nulla non c'è alcun venirsi incontro. Nelle carte, se si fanno parlare solo ed esclusivamente loro, anche quando è palese la richiesta di aiuto da parte di qualcuno che sta davvero male, non c'è alcun cuore a meno che tra quelle righe non vi siano state scritte parole che inizialmente siano discese da esso. Rispettiamo dunque le leggi ma non smettiamo di ascoltare le persone. E le persone, anche se è faticoso riconoscerlo, sono casi singoli, non massa da trattare con la vista sfuocata che renda irriconoscibili i lineamenti di ciascuno. Guardare in modo superficiale le persone non comprende umanità. Tutti abbiamo bisogno di molte cose diverse e se non esiste il venirsi incontro esisteranno sempre discriminazione, preferenze, ingiustizie, definizioni di casta che ragionando a livello di cuore non hanno significato costruttivo alcuno. Dedicato a Terry. RBB

Guardare il male e non vedere il bene

Accade spesso, e non si capisce mai se avviene perché siamo portati a vedere le cose in questo modo per carattere oppure per abitudine. Se ci si basasse sui notiziari quotidiani sarei portata a pensare che è maggiore il male del bene un po' ovunque, ma non credo sia vero, poiché di avvenimenti positivi ce ne sono ogni giorno, fosse anche in ugual numero di quelli negativi. Il fatto è che forse non incidono le menti e i pensieri così come riescono a fare le notizie di natura negativa. Dunque la risposta potrebbe essere che l'abitudine a tanto male raccontato può arrivare a plasmare un po' il carattere. Il carattere come nota personale che, data la mole di fastidio generato dalla consapevolezza dell'esistenza di cose negative, invece di ribellarsi producendo luce per tentare di contrastare il buio, accetta inconsapevolmente e si adegua a ragionare in un dato modo anche e soprattutto per stanchezza. Questo è il mio ragionamento personale per capire per quale motivo ci siano persone che si focalizzano sul male, invece di ricordare sempre il bene per innescare un tipo di evoluzione interiore che porti a comprendere il senso del perdono, rivolto a se stessi e agli altri, e all'esercizio dell'umanità del cuore. Ovviamente dipende sempre dal punto di vista di partenza e dalle inclinazioni personali che trovano, intorno a loro, il terreno più o meno adatto a sviluppare le idee che già hanno in germe. Ci si concentra dunque sul male perché fa male? Potrebbe essere anche questo e di solito ci si arrabbia maggiormente con le persone che amiamo e che ci fanno stare male in qualche modo. Le ferite inferte da un amico fanno più male di quelle inferte da un qualsiasi sconosciuto. Solo che una volta accusato il colpo come si fa a non cercare di distendere il clima proprio in ragione dell'amicizia? Sempre che l'amicizia in questione coinvolga davvero il cuore. Dove c'è affetto e sincerità il dialogo non dovrebbe mai mancare. Offendersi e smettere di vedere i momenti positivi pieni di affetto o d'amore a favore della concentrazione del pensiero su un solo istante di dolore è inizialmente una reazione personale, da analizzare volendola in seguito affrontare, ma se continua diviene una scelta. E guardare il male con impeto e determinazione da offesa, fatte salve le ragioni che portano a ciò, resta la nuda verità del fatto che del bene si sospende l'osservazione e il ricordo. Oggettivamente un cuneo di dolore cancella un oceano di bene. Ma solo se glielo lasciamo fare. E questa temporanea cecità vale a livello singolo o globale. Il vero lavoro che inizia a fare il cuore, dal momento doloroso, è quello di non lasciare all'ego lo spazio per amplificare la ferita o per dipingerla con colori diversi da quelli con cui è stata disegnata. Perché si può partire per la tangente con la mente anche in questo caso e non solo quando si ricama su emozioni positive. L'una e l'altra parte, quando siamo colpiti dentro in qualche modo, innescano vortici di pensieri che si orientano verso la luce o verso l'ombra a seconda di come ci sentiamo. Cose buone fanno sognare e cose non buone fanno odiare. Quindi se intorno troviamo spesso notizie globali piene di male questo non dovrebbe essere la scusa per assorbirne l'influenza negativa dimenticando, per questa inerzia indotta, di credere sempre che il bene esiste, e può esistere a partire da noi che continuiamo a volercene ricordare nonostante tutto. Così in grande, per nutrire positivamente l'atteggiamento nei confronti della vita, un po' anche per non disilludersi continuamente ma soprattutto per non lasciare che accada causa terzi che neppure ci conoscono, così in piccolo, in famiglia o in amicizia o in amore per trovare il punto d'incontro e non gettare via in un lampo tutto quanto è stato, nato e vissuto coinvolgendo il cuore. RBBetween

venerdì 8 febbraio 2013

Quando il cuore si strappa

Accade. Talvolta accade e la sensazione che si prova è orribile. Rimanere vivi con tale ferita dentro strazia. E quando provi una cosa del genere, in quel momento, non hai parole per descrivere come ti senti. Si può scegliere di non parlare o si può parlare finché la voce non se ne va così da credere di poter mostrare almeno un granello di ciò che si prova. In realtà quasi nulla serve quando il cuore si strappa. Servirebbe che le cose tornassero a posto da sole come quando ci si sveglia da un incubo e si è felici di aprire gli occhi per vedere e toccare tutte le cose conosciute che ci confortano. Sarebbe semplice e sarebbe sufficiente, solo che purtroppo non accade. E noi con il cuore strappato ci ritroviamo da qualche parte a piangere come se le lacrime fossero il sangue e forse le lacrime sono il sangue del cuore. Il sangue dell'anima del cuore. Ce ne stiamo in un luogo distante dagli altri mentre stiamo così vicini a tutto e tutti ma separati da un muro trasparente su cui rimbalza l'anima. E non si smette di piangere. Si vorrebbe ancora sentire il calore, la vicinanza, l'allegria condivisa nei momenti spensierati. Ogni brandello di cuore strappato cerca l'altro capo aggrappandosi a tutto ciò che trova nella memoria per contrastare il rifiuto che in quel momento occupa tanto spazio dentro. Ma il non accettare la realtà dei fatti so, per esperienza, che è solo una fase e che se ancora una sola fibra di quel cuore strappato batte, vibrando dell'amore provato, la fase più dura e scura lascerà il posto all'inizio della guarigione. In questa guarigione speciale, però, ciò che rimane dentro al cuore, che si rigenera tramite l'amore che continua a provare, è un segno. Non è una cicatrice uguale a quelle che possiamo vedere sulla pelle quando ci facciamo male, è diversa, perché in essa custodiamo tutto quello che credevamo perduto e poiché le cose stanno così brilla di più. Ciò che passa attraverso la tempesta si offre al dopo come l'aria piena di goccioline che aspettano che la luce del sole le colpisca per renderle arcobaleno. Se qualcosa può essere fatta per chi soffre, quando si strappa il cuore, oltre alla vicinanza che faccia sentire il calore dell'affetto, si può offrire, come sto facendo adesso, parole che rammentino che non si è mai soli con tali sofferenze, poiché in molti più di quelli che crediamo le provano o le hanno provate. Sebbene per ciascuno l'intorno sia differente, in realtà le somiglianze eventuali non saranno altro che le sfumature che permetteranno di avvicinarci gli uni agli altri, abbastanza da sentirci capaci di abbracciarci per stemperare il dolore provato. Una cosa in cui credo, anche se per qualcuno discutibile, è che chi abita il nostro cuore è solo quello che é, al di là della sua forma o della sua natura. Il linguaggio che lega i cuori non conosce distinzioni, secondo me, e va oltre ogni apparenza rendendo chi amiamo solo e sempre chi amiamo. Punto. E se perdiamo chi amiamo il cuore si strappa. Punto. Il respiro dell'amore che rimane dentro di noi saprà sempre come rianimarci nonostante tutto. Da soli ce la possiamo fare ma serve una incrollabile forza di volontà, ciò che invece è meglio è non affrontare le cose da soli. Cercate chi può darvi una mano metaforicamente e materialmente e accettate ogni abbraccio che vi viene offerto se qualcuno ve lo offre. Se non siete così fortunati sappiate almeno che non siete soli mai perché, anche se in quel momento non vedete niente e tutto sembra orribile e scuro, qualcun altro da qualche parte nel mondo potrebbe avere il cuore strappato come il vostro o ridotto in peggiori condizioni. Che questo faccia parte della vita lo raccontano i saggi e coloro che lo hanno provato anche se si potrebbe dire che se ne potrebbe volentieri fare a meno per vivere la vita con più felicità. E la felicità è così effimera, in certi casi, che passare il resto del tempo a maledire l'accaduto non porta nuova felicità. Può far sfogare per un po' ma non è la soluzione. Quando passano davanti agli occhi le immagini dei momenti che non saranno più si sente tutto il flusso della malinconia mista al dolore. Farsene una ragione, in quei momenti, quando la ferita è fresca, non è possibile. Piangete se dovete, se quello è ciò che vi sembra giusto, ma rimanete con un dito del piede ancorati a terra per non morire, rischiando di farvi trascinare via dal fiume di lacrime. Non smettete di ascoltare il mondo, nonostante la sofferenza, e ricordate sempre che ciò che rimane nella memoria, anche se nei momenti peggiori scotta maneggiarla, è anche e soprattutto dentro al cuore che credete strappato irrimediabilmente. Ricordarmi di questo mi ha aiutato a trovare un po' di pace per sperare di non piangere immediatamente alla menzione di alcuni ricordi. Forse ciò che si ottiene col tempo è proprio il tempo, così da non piangere subito ma solo un po' dopo. Rita Buccini Between

sabato 19 gennaio 2013

Le radici della sofferenza

Diversi anni fa ebbi modo di leggere alcune pagine di un libro in cui l'attuale Dalai Lama rispondeva a delle domande. Purtroppo non ricordo quale fosse il libro ma ricordo che mi colpì il concetto della necessità di andare alla ricerca delle radici della sofferenza. Da allora, ogni volta che mi imbatto nelle varie difficoltà personali mie o altrui riporto in superficie questo pensiero.
Quando un concetto mi colpisce tanto da stamparsi a fuoco dentro, so che la mia parte più profonda ne riconosce l'utilità ai fini della comprensione e del nutrimento dell'anima. Questa è una mia necessità. Anche prima di quel giorno guardavo il mondo degli altri sintonizzandomi sull'inconscio bisogno di sapere come si sta, come se la mia eterna muta domanda verso gli altri fosse questa sempre e in primis. Quindi altrettanto automaticamente e istantaneamente mi ponevo, e mi pongo ancora oggi, in ascolto andando subito sotto la superficie per sentire la risposta eventuale. Mi viene automatico pormi così e con la stessa facilità con cui qualcuno potrebbe osservare un qualsiasi altro particolare che potesse fornirgli le informazioni che sta cercando interiormente per comprendere. Così scoprire che dietro i mille modi di porsi delle persone, nonché di me stessa, quando non si brilla di gioia o si è in pace e in piena salute fisica e mentale, i motivi che li disegnano possono pescare a varie profondità e che in questi stessi strati di varia profondità vi siano dei punti dolenti mi ha aperto gli occhi su qualcosa di essenziale. Innanzi tutto la forza di questo pensiero sta nel proporre l'immagine della radice. Una radice, prima ancora di essere considerata un elemento che sta da qualche parte, è un qualcosa che scava per approfondire mentre il suo compito principale è cercare nutrimento. Secondariamente si può aggiungere la sua collocazione, sotto terra o in acqua o in aria a seconda di quali piante abbiamo in mente o conosciamo, e da qui aggiungere metafore, oppure si può pensare alle radici come elementi importanti per l'ancoraggio al substrato. Ma l'essenza della radice è il suo movimento verso la ricerca di ciò che serve per la vita dell'essere della quale è propaggine. Ognuno di noi ha bisogno di conoscere più verità su se stesso e di illuminare un po' le sue profondità, anche se l'atteggiamento più frequente è ignorare tutto ciò che è difficile da elaborare o che considerandolo si pensa possa far stare male. Meglio non scavare, meglio non guardare troppo, meglio lasciare la sofferenza lì dov'è e proseguire oltre senza il bagaglio pesante che essa contribuisce a caricare. Solo che radici e sofferenza, due semplici ingredienti, possono creare un pasto completo per la consapevolezza. La sofferenza ha delle radici e seguirne la pista porta a rivedere cosa fa stare male e a potersi confrontare con ciò, se si decide di guardare. La sofferenza, più che altro quella dell'animo, del cuore, della ricerca della consapevolezza, non quella fisica, crea un dolore che si riflette in moltissime azioni quotidiane, si mescola ai sentimenti e alle parole e crea di noi un ritratto il quale non credo sia veritiero. Innegabile che nell'istante presente lo sia, oltre a sembrarlo, ma la verità di ciò che noi siamo, ciascun essere umano nel suo profondo, è più luce di quello che siamo portati a credere. E le radici della sofferenza pur andando in profondità, poiché lì si trovano, possono essere viste in parte in superficie, dove le reazioni ne sono specchio. E sofferenza non è solo uno stare male nel modo più semplice che ci viene in mente, sofferenza è anche "una sofferenza" più generica dove la parola rappresenta uno stato vibratorio alterato, come definirei io, una sorta di pressione sulla naturale armonia dello stato di benessere. Osservare ed osservarsi per comprendere se stessi e gli altri pone sulla strada della ricerca interiore guidata dalla direzione che indica la radice, che nasce da qualsiasi cosa che ci fa soffrire, ci disturba, ci infastidisce, ci fa stare male, ci opprime, ci destabilizza, ci irrita, qualsiasi cosa che sfiora le pareti sensibili dell'anima o gli spigoli del carattere con il quale siamo cresciuti. Non siamo esseri perfetti né perfettamente sferici così è naturale che il mondo con le sue manifestazioni o gli altri con le loro personalità, urtino parti di noi e generino qualcosa. Reagire è secondario e dipende da ciò che abbiamo dentro e da ciò che pensiamo, la prima cosa che accade è l'impatto che genera il pensiero o un sentimento. La sofferenza intesa come voce interna che racconta come ci sentiamo nei confronti di ciò che accade, per evitare che metta radici troppo profonde, dovrebbe essere ascoltata subito. Lasciarla gridare e allontanarsi da essa per mettere sufficiente distanza per evitare di sentirla fa sprofondare le radici. E con il tempo ignorare ciò che realmente non ignoriamo rende le radici più difficili da scavare. Il paziente lavoro da giardiniere di ciascuno dovrebbe essere almeno il provarci, ricongiungendosi con se stessi per smettere di soffrire ricercando le radici delle nostre sofferenze. Rita Buccini Between