mercoledì 24 dicembre 2014

Nel cuore, senza paura

Tutti hanno un cuore ed è un luogo importante dentro ciascuno. Brilla sempre, più o meno intensamente a seconda di quanto lo consideriamo importante, ma non smette mai di brillare, anche nei momenti di sofferenza. In questo luogo custodiamo sogni, sentimenti e persone. Non me ne voglia la mente, ma ritengo che il cuore sia un luogo migliore dove risiedere; c'è quel tipo di luminosità, al suo interno, che cura anche le ferite peggiori, quelle che il solo tempo non riuscirebbe mai a rimarginare. E il cuore può agire anche su se stesso se noi che amiamo siamo lì dentro insieme a tutto il resto. Anche se nel mondo le realtà di ciascun essere vivente sono le più disparate, quando il cuore accende la sua luce e la emette qualcosa cambia, per chi dà e per chi riceve, che ci piaccia o no. Questa è la magia del cuore, anche se qualcuno pensa che troppe parole sdolcinate siano da cestinare a priori, specialmente nei giorni di festa come questi. Giusto così solo se non c'è sincerità a monte e dentro le stesse parole. Ma se il seme del pensiero è nato dentro al cuore la sincerità sarà garantita.

Penso alle persone, a tutti coloro che hanno nel proprio cuore qualcuno. Non è un argomento facile... Penso a chi può mostrare ciò che ha nel proprio cuore ed è ricambiato, ogni giorno, e mi sento in pace perché immaginare che ciò esiste per qualcuno significa che questo qualcuno sta bene nonostante tutto, nonostante i problemi quotidiani. Significa che da qualche parte, le luci dei cuori si alimentano e si scaldano a vicenda, imparano ad amare rinnovandosi ogni volta che si confrontano così da mandare avanti la vita. Poi ci sono gli altri, quelli che hanno il cuore pieno di luce e d'amore ma sono rimasti soli con il contenuto del proprio cuore. E lì dentro, non c'è solo il sentimento, la persona che riteniamo speciale, c'è qualche lacrima, se non un fiume, c'è il dolore di una perdita, di una incomprensione, di un qualcosa che non è andato e si è fermato lì... Ed è qui che ci soffermiamo un po' anche noi, spesso, per raccogliere i frammenti di quel che resta se ne abbiamo la forza e il coraggio, oppure per imparare a guardare ciò che c'è senza farci travolgere. Ogni forma pensiero che passa da dentro il cuore diventa più forte perché coinvolge tutto di noi, totalmente, rendendo la faccenda ben più difficile da gestire. Penso a chi ha perso ed il presente ed il futuro non saranno più gli stessi... Penso all'impatto di questo stop che impone di rivedere tutto ciò che c'è nel cuore affinché il turbinìo che ha scompigliato il paesaggio interiore non impedisca di continuare a vivere ricordando la luce. Perché in certi punti della vita basta davvero poco per capovolgere tutto e iniziare a coltivare ombra in balìa del dolore, del rifiuto. Serve dunque tempo, ma non solo, serve che ci si ricordi in ogni momento possibile cosa è stato davvero importante e serve essere sinceri. Il ricordo appena sfiorato porta lacrime se intenso era ciò che abbiamo sentito e vissuto col cuore, e porta lacrime invisibili per chi non piange mai. Le lacrime invisibili sono subdole presenze che non penseremmo mai di trovare là dove un giorno le incontriamo, attaccate ad altri pensieri, ma soprattutto attaccate ad alcune reazioni, modi di fare che mostriamo, specialmente se non siamo abituati ad osservarci. Il cuore non va lasciato indurire, né va lasciato asciugare, per mantenerlo vivo ci si deve stare dentro a lavorare come in un laboratorio di artigiano. E se la felicità che sapevamo legata all'altra persona adesso non c'è, non importa, perché ci sarà la memoria di un sorriso più speciale di altri o di un momento particolare o di un abbraccio, di una frase, e non sarà solo l'immagine nella mente, sarà tutta la memoria che sta nel cuore a far andare avanti. Accettare e ammettere, senza paura di esser giudicati come rinunciatari qualora si scegliesse di proseguire il cammino da soli senza un compagno, che chi abbiamo amato ci ha colmato di qualcosa di inspiegabile, è un atto di forza.

Non è obbligatorio cedere alle pressioni altrui che dicono che da soli non si può stare, che vivere nei ricordi è negativo, lo diventa solo se non si usa ciò che impariamo nello starci a contatto. I ricordi si possono usare per migliorare il presente, sempre.
Imparare a convivere e a gestire, ma anche a conoscere bene in profondità ciò che c'è nel proprio cuore, è un percorso che può durare una vita e la scelta che operiamo ci appartiene sempre e deve appartenerci sempre, nessun altro può decidere al posto nostro per ciò che abbiamo nel cuore. Io ho impiegato molto tempo ad accettarlo per gli altri e a difenderlo per gli altri mentre pretendevo lo si accettasse per me. Non è mai facile domare il proprio ego quando c'è di mezzo il cuore che ti scombussola. Ho impiegato anni per comprendere che alla persona che ti entra nel cuore devi fiducia e libertà totale perché è così l'amarla davvero anche se l'ego, onnipresente, in virtù dei sentimenti provati, indurrebbe a fare tutto il contrario.
Ho fatto a botte con il non essere ricambiata, è vero, ma se posso salvare qualcosa da tutto questo, posso dire che ho capito qualcosa di importante, almeno per me. Ho imparato a non aver paura di scoprire che nel cuore c'è sempre chi non mi ricambia e che riesco a conviverci con una discreta dose di disinvoltura, senza più pretendere nulla come ho fatto in passato, perché forse non ho ancora esaurito tutto ciò che devo comprendere su questo argomento. E di rimando questa mia esperienza mi ha permesso di pensare che la vita non è fatta solo di stereotipi, di cose prefissate, progetti a scadenza cui ci si deve adattare pena l'esclusione dalla benemerenza altrui. Sono cresciuta imparando anche l'importanza dell'andare contro corrente quindi oggi non mi sconvolgo nel sentirmi me stessa nonostante tutto.

Non dimenticate mai che l'amare, ciascuno a vostro modo, purché luminoso, e mai morboso, è la cosa che conta di più in ogni circostanza. Per questo si deve combattere, per questo si deve lavorare su se stessi, per ritrovare il suo significato, affinché risuoni con sincerità dentro di voi. Che di problemi è pieno il mondo si sa, che di disperazione ce n'è a volontà si sa, che nelle difficoltà ci si vive è una realtà attuale ma che si può sempre ritornare nel cuore lo si sa meno. La pace passa dal cuore, dalla cura e dalla comprensione delle piccole cose, perché è su queste che si erigono le più grandi ed una base solida, lo sa anche un bambino, permette migliori e più stabili costruzioni. Il cuore insegna sempre e non smette mai di imparare.
Rita Buccini Between

sabato 8 novembre 2014

La presa di coscienza di qualcosa

Qui, il mio primo pensiero per iniziare a scrivere il post, è stato farmi una domanda: la presa di coscienza di qualcosa è sinonimo di diventare consapevole o di rendersi conto di qualcosa? Subito mi sono sentita di rispondere che ci sono delle sfumature da notare che aiutano nella comprensione del concetto, secondo me. Iniziamo dal rendersi conto di qualcosa: lo sento a pelle come un'azione più immediata, come accade nel corso di una conversazione quando ci viene detto qualcosa che riconosciamo di comprendere in quel preciso momento. In questo caso rendersi conto di qualcosa è sinonimo di capisco. Capisco la situazione che mi stai raccontando, me ne rendo conto. Tuttavia questo è solo un mio pensiero che deriva da come uso le frasi per esprimere le cose nel modo in cui le comprendo, ma per qualcuno potrebbe non essere lo stesso. Diventare consapevole credo sia più adatto ad esprimere il fatto che si è vissuto un percorso, più o meno lungo, il cui risultato è un cambio della nostra frequenza vibrazionale in seno alla consapevolezza. La consapevolezza la sento come un assestarsi di qualcosa dentro che permette di proseguire il proprio percorso con una chiarezza interiore migliore, e non solamente a livello mentale, poiché la consapevolezza abbraccia la persona nel suo complesso. Acquisire consapevolezza rende diversi dal giorno precedente e non si torna indietro se si ha cura di conservarla e di integrarla con ulteriore consapevolezza. La presa di coscienza, infine, si nutre di consapevolezza ma descrive l'attimo dilatandolo, secondo me, focalizza il momento in cui accade il tutto ma non ha l'immediatezza di pensiero e soprattutto è un tempo di cambiamento. Se penso usando questa frase, il titolo del post, riesco a ricordare e circoscrivere la memoria dalla quale posso attingere la consapevolezza stessa di ciò che sto comprendendo. Oggi mi è accaduto di prendere coscienza di qualcosa. Non è stato un lampo immediato ma un processo interiore appena un po' più lungo, e si sente che è così se si ascolta bene. Ho potuto vedere me stessa approcciarmi di nuovo ad un modo di fare come ero solita fare sempre, solo che questa volta la mia risposta interiore è stata diversa, e questo è accaduto perché è cambiato dentro di me qualcosa, perché ho impiegato del tempo per divenire lentamente consapevole rispetto ad alcune cose che, sommate insieme, hanno prodotto la me di oggi che è riuscita a sintetizzare un cambiamento sfociato in una presa di coscienza. Così oggi non mi sono sentita più in sintonia col vecchio pensiero che produceva le solite vecchie risposte, mentre ciò che mi ripropongo di fare è ascoltare questo assestamento interno che porta nuove risposte per modificare il modo che ho di pormi in genere. Un cambiamento di questo tipo richiede solo ascolto, soprattutto col cuore, anche se all'inizio il nuovo stato, come un salto quantico, deve stabilizzarsi per poterlo rendere completamente nostro da poterne usufruire con disinvoltura. Quello che impariamo, quello che sappiamo ora è che quel qualcosa di prima non lo sentiamo più comodo come una volta, che non vibra più in sintonia con ciò che siamo adesso ma non se ne deve aver paura. La presa di coscienza di qualcosa è sempre un salto positivo comunque perché la conoscenza è il nutrimento dell'anima, di tutto ciò che abbiamo dentro. E non saremmo nulla se non potessimo, nel corso della vita, acquisire conoscenza, consapevolezza e non potessimo operare su tutto questo. Rifiutare ciò che si comprende sotto forma di presa di coscienza per paura è scegliere la tana che è, sì comoda e protetta e non richiede sforzi, ma è anche assai buia. E qualche volta sarebbe bello sorprendersi a scoprire di noi stessi che un po' d'aria, i raggi del sole o la pioggia ci piacciono, anche se preferiremmo altro. Il primo passo è importante e talvolta si veste da presa di coscienza che arriva poiché siamo maturi a sufficienza per vederla e viverla, per sentirla, per sorprenderci a sentirla, a rendercene conto proprio mentre vaghiamo altrove con la mente. Questa sensazione insegna a riconoscere la verità di ciò che si sente, come una sorta di invito a non bastonarla totalmente a forza di dubbi, e insegna a diventare consapevoli di se stessi perché quando accade è come vedersi l'anima in uno specchio particolare: su una superficie rimangono le abitudini e i pensieri che non ci appartengono più, come su un filtro, sull'altra rimaniamo noi integri e purificati, pronti per nuove comprensioni. Rita Buccini Between

sabato 30 agosto 2014

Se ce la fai tu posso farcela anch'io

"Se tu ce la fai posso riuscirci anch'io" significa che ci siamo messi sulla frequenza positiva del pensare e ci siamo aperti almeno un po' da dentro, abbiamo aperto gli occhi e li abbiamo usati per osservare intorno a noi gli altri. In questo mondo non ci sono soltanto esempi negativi, distruttivi, ci sono anche esempi luminosi, persone che con il loro modo di essere possono dare una mano a noi che ancora non siamo capaci di risplendere pienamente.
Siamo abituati fin da piccoli a prendere esempio da altri, da chi ci sta intorno in modo più prossimo: familiari e amici, ma vi sono molte altre persone da osservare, anche se non le conosciamo. Non serve conoscere qualcuno per osservare ciò che fa, a meno che non lo si voglia studiare dettagliatamente; possiamo imparare qualcosa anche al volo purché si sappia osservare col cuore e non col velo di qualsivoglia tipo di pensiero o pregiudizio. Anche se, osservando uno sconosciuto che passa vicino a noi, potremmo non avere la certezza che le sue azioni o le sue parole fossero veritiere, potremmo lo stesso osservarlo e sarà il cuore a suggerirci se la persona in questione è autentica o meno.
Spesso capita di sentirsi incapaci di fare qualcosa, o di sentirsi inadatti nell'ambito di una qualche situazione, e in quel momento scatta qualcosa, magari non è per tutti così, però quello che si agita dentro è il pensiero che nessun altro al mondo in quel momento si sente come ci sentiamo noi, o sta male come stiamo noi. E' naturale pensare così, è l'ego di ciascuno che crea tale pensiero. Se ci si potesse astrarre dal nostro essere preso nel vortice di pensieri, vedremmo che in un mondo tanto vasto come quello in cui viviamo, tanti altri pensano la stessa cosa di se stessi. Poi accade un piccolo miracolo: incontriamo uno che passa, anonimo essere che ci dà una lezione. Può trattarsi della sua forza d'animo o del suo modo di fare e la nostra attenzione viene catturata. Qualche giorno fa ero seduta su di una panchina adiacente ad un parcheggio e mi riposavo per via del dolore alla gamba. Di fronte a me una macchina, verso la quale si dirige un giovane su di una sedia a rotelle. E' la sua macchina e tutto inizia con lui che apre il portabagagli. Risponde "no grazie" ad un uomo che gli chiede se ha bisogno di aiuto, è gentile e sorride e mentre parla con l'uomo inizia a smontare con attenzione e precisione la sua sedia. Prima un pezzo, poi un altro, finché non rimane una versione alleggerita della sua sedia. Chiude il bagagliaio e si porta al posto di guida. Apre la portiera e sale su sempre con gesti sicuri, precisi, che mi hanno comunicato fino alla fine, fin quando non ha messo in moto e se ne è andato, una gran forza di volontà che non trasudava fatica alcuna. Forse il suo corpo faceva fatica ma non ve ne era traccia nel suo animo. Ha smontato la sedia pezzo per pezzo dopo essere salito in macchina, l'ha ripiegata dopo aver tolto le ruote e questa operazione lunga e controllata ha richiesto diversi minuti nei quali io, lì seduta, osservavo. Mi ha fatto un dono speciale questo giovane sconosciuto, mi ha fatto vedere il mondo attraverso i suoi occhi, seppure inconsapevolmente, e mi ha risvegliato la forza di un pensiero potente: se c'è qualcuno al mondo capace di fare qualcosa che noi riteniamo di non poter fare, allora quella cosa non è impossibile da affrontare. Non importa come ci sentiamo o se non ci sentiamo in grado di farla, ciò che conta è che un altro essere umano ci è riuscito e questo è un dono di speranza. C'è una fratellanza tutta da scoprire in questo strambo mondo, fatta di persone che condividono lo stesso terreno per fare esperienze che sono condivisibili, se ne parliamo. A turno possiamo essere colui che fa da esempio e colui che osserva e questa è una realtà di fatto quotidiana. Il giovane sulla sedia a rotelle del quale ho parlato, mi ha lasciato un esempio anche perché in quel momento non ero distratta da troppi pensieri, avevo uno spiraglio aperto nella finestra dell'anima che mi ha permesso di rivolgere uno sguardo all'esterno e avevo in me la consapevolezza di fondo che siamo tutti parte di una unità. Se non avessi avuto tali premesse dentro di me quell'uomo non mi avrebbe lasciato lo stesso segno, forse non mi sarei neppure accorta della sua presenza, o lo avrei osservato senza vedere nulla, anzi avrei potuto commentare che mi faceva pena in tale situazione, ma non è stato così. La differenza tra il pensare in un modo o nell'altro la facciamo noi con la qualità di ciò che siamo e che ogni giorno coltiviamo di noi stessi. Così per il pensare, così per l'agire di conseguenza. RBBetween

mercoledì 27 agosto 2014

Convivere con il dolore

Sappiamo che il dolore è sostanzialmente di due tipi: fisico l'uno e appartenente alla sfera dei sentimenti l'altro. Entrambi fanno male e qualche volta i loro estremi si toccano fino a confonderci sulla posizione del loro confine. Un dolore dell'animo può essere somatizzato e un dolore fisico può arrivare a incidere l'anima.
Il dolore è una presenza scomoda, ti consuma le forze, ti piega i pensieri e ti rende sofferente.
Io, da qualche anno, vivo con addosso del dolore, fisico soprattutto. Il rumore di fondo che mi accompagna ogni giorno, ogni minuto mi fiacca ogni volta che mi lamento ma mi fortifica quando decido di resistere e combattere. Qualche volta, è vero, vince il dolore, ma qualche altra vinco io e si va ancora avanti. Qualche altra volta ancora sospendo i combattimenti e mi riposo perché ne sento il bisogno ma mi chiedo anche se, in queste occasioni in cui getto la spugna temporaneamente, se invece continuassi a combattere a spada tratta, cosa otterrei? Mi stancherei di più fino a non saper come uscirne oppure diverrei invincibile? So soltanto che se volessi davvero scoprirlo dovrei provare.  Per ora penso che aver cura di me sia non esagerare, sia fermarmi prima che sia tardi ma in fondo ho paura. Se guardo indietro, nel passato, vedo il tempo in cui combattevo e basta perché volevo scoprire cosa c'era oltre il muro, la barriera che la mente crea o prende in prestito dalle opinioni altrui, vivevo per guardare oltre. Adesso il dolore mi frena e mi fa perdere la voglia di combattere finché non mi scrollo di dosso la sensazione della fatica immane da affrontare. Ogni giorno, quando mi alzo, la prima cosa che sento è il dolore e se guardo la giornata che mi aspetta sento in prospettiva tutto il male che mi starà attaccato e questo mi toglie il respiro per un attimo, poi mi alzo e ricerco la forza del cuore, il suo sorriso interno, il suo calore. Guardo nel mio cuore e vedo che ce la posso fare a fare altri passi anche se fisicamente spesso sono dolorosi per me. E' il cuore che insegna a convivere con le difficoltà sia fisiche che non anche quando è proprio il cuore a provare dolore.
Ammiro chi riesce ad andare ancora oltre avendo menomazioni gravi o chi custodisce dolori nell'anima e sa sorridere e non fa pesare mai se stesso agli altri.
 La sofferenza unita alla solitudine spesso fa gridare per attirare attenzione perché in fondo tutti abbiamo bisogno di un abbraccio, di carezze del cuore, così non sempre si sa essere eleganti nel dolore. Per convivere col dolore a due cose principalmente si deve prestare attenzione: la prima, a controllare il proprio grido fino a trasformarlo in sorriso non solo delle labbra bensì anche degli occhi e per far questo servono tenacia e coraggio nonché si deve saper imparare a chiedere aiuto senza disperazione quando serve davvero; la seconda, se ci si lascia andare, che lo si faccia ricordando di stare in guardia per capire il punto laddove rimettersi in piedi diventa estremamente difficile così da rifiorire in tempo, come è nella natura di ciascuno fare nonostante tutto.
RBBetween

venerdì 8 agosto 2014

Tra il pesce pescato e l'insegnare a pescare

Fin dal giorno in cui conobbi la storia che raccontava come fosse più saggio, se non lungimirante, insegnare a pescare, invece di fornire solo il pesce già pescato a qualcuno che aveva bisogno di mangiare, sono stata convintissima sostenitrice dell'insegnare. Ho sempre vissuto, da quel momento in poi lottando per insegnare. Se sapevo qualcosa che poteva tornare utile anche ad altri ai fini della conoscenza, la prima cosa che facevo, senza pensarci su un attimo, era condividere il mio sapere. Ho sempre fatto così. Tuttavia, quando fai qualcosa in cui credi fermamente, non ti chiedi mai se ciò che fai è davvero giusto. Sai a grandi linee che lo è perché a monte hai già indagato e sai anche che sostieni la cosa giusta ma non ti passa certo per la mente che il tuo insegnare, in certe occasioni, può non essere la cosa giusta, non almeno per quel momento o per quella circostanza. Così la tua scelta del bene, dell'insegnare per condividere la tua conoscenza, per insegnare la via per trovarla, in certi momenti può essere un atto di violenza o di egoismo. Ripeto, in certi momenti, perché è qui che sta la differenza, nel riconoscere tali momenti. Nessuna delle due parti dell'azione, fornire il pesce pescato e insegnare a pescarlo allora, se comprendi e riconosci il momento adatto, è migliore dell'altra. La differenza la fa il cuore che insieme all'intelletto capisce il tempo e ciò che possiamo fornire. La morale della storia è incentrata sull'affermare che se fornisci il pesce pescato a qualcuno, in certo qual modo, lo rendi dipendente da te e lo lasci inetto per il suo futuro; se invece gli insegni a pescare lo rendi libero perché da quel giorno in poi saprà cavarsela da solo, potrà mangiare anche se tu non sarai lì a fornirgli il pesce di cui ha bisogno per vivere. Il messaggio è chiaro ma arriva un giorno, come è accaduto a me, in cui ti vedi e ti chiedi se tutte le volte che hai scelto di insegnare la tecnica per pescare a qualcuno, chicchessia, gli hai fatto un favore. Quante volte, forse, non era compito nostro né il momento adatto per usare quel tempo a disposizione fornendo mezzi e parole bensì era il tempo solo di donare il pesce pescato. Personalmente ricordo le volte in cui ho insistito per insegnare piuttosto che dare il cibo e in quel momento la mia totale convinzione di compiere del bene mi ha impedito di vedere chi avevo di fronte. E questa è una dimenticanza grave quando si trasferisce la propria consapevolezza nel cuore. Se non riusciamo a vedere chi abbiamo vicino come possiamo averne cura? Troppo bene è forse perdonabile ma ad un certo livello di consapevolezza troppo bene o troppo male si equivalgono perché sono atti che danneggiano l'altro. Il cuore questo non lo permette. Così, se qualcuno ha bisogno del vostro aiuto, guardatelo bene col cuore e chiedetegli cosa desidera. Se quel giorno la sua fame ha bisogno del pesce per placarsi non discutete, andate a pescare e donategli il cibo, capirete in seguito se chi avete vicino ha bisogno di imparare a pescare oppure no. E a quel punto se custodite in voi la sapienza del pescare potrete condividerne i segreti oppure, se non è così, potrete cercare insieme di imparare a farlo. RBBetween

martedì 17 giugno 2014

Stare insieme

Molte volte mi sono chiesta quale sia il significato più elevato dello stare insieme a qualcuno e, per contro, quale sia il motivo più rilevante che non permette di stare insieme in armonia. Al di là dei singoli casi credo che molto, se non tutto, ruoti attorno a quanto spazio concediamo all'altra persona dentro di noi. Se il recipiente è pieno qualsiasi aggiunta non sarà possibile a meno che l'aggiungere non comporti il traboccare della parte già presente. Così, però, avremmo la percezione di una perdita di se stessi da parte di chi vive male l'esperienza di un incontro che prevede il mescolarsi delle due componenti. Continuando metaforicamente direi anche che, di fondo, questo non riuscire a mescolarsi provoca malesseri e incomprensioni, e non ci vuole un genio per capirlo. Se siamo rigidi e pieni non c'è spazio a sufficienza in noi per far sì che l'altro si accomodi e, con la sua presenza, ci insegni qualcosa di importante, perché questo, l'insegnamento, è parte del bagaglio di scambio quando due esseri stanno insieme, ed è cosa maledettamente importante. Credo che per la maggior parte dei casi stare insieme a qualcuno sia la cosa più semplice e naturale che ci sia: il cuore o il corpo parlano, e noi li seguiamo. Stare insieme è facile, creare legami è facile e talmente spontaneo che non ce ne accorgiamo finché qualcosa non li fa vibrare o li spezza. "Mescolarsi" è più difficile, appena un po' di più perché per farlo bene, senza perdere la propria identità, pur rimanendo fluidi, si deve usare costantemente il cuore e ben poco il calcolo della mente. Il rispetto degli spazi altrui e il riconoscere i nostri aiuta a mantenere la corretta fluidità per permettere l'esistere ad entrambe le parti. E fare questo non è sempre semplice, a meno che non si sia pronti interiormente ad abbandonare la propria rigidezza composta di una vasta gamma di paure, reali o immaginarie. Chi sta insieme da molto tempo felicemente ha sicuramente in sé la chiave per capire ma non è detto che si interroghi su questo, poiché impiega il suo tempo vivendo e non pontificando. Chi, come me, ha solitudine e tempo o anche attitudine per pensare osserva e si chiede, perché talvolta vede quello che ha sbagliato ma vede anche quanta bellezza ci sia nel cuore delle persone così come vede quanta sofferenza possa derivare dall'incomprensione reciproca. Se stare insieme per qualcuno è naturale come respirare, per qualcun altro è uno scoglio apparentemente insormontabile che spaventa a tal punto da rinunciare ad affrontarlo. E tale rinuncia è animata da minuziose immagini di quante punte aguzze abbia tale scoglio e quanto siano taglienti. E' quando si presenta tale immagine che servirebbe, se non conoscere, almeno intuire il significato più elevato dello stare assieme. Giusto per stemperare le paure, per ridimensionare lo scoglio e riappropriarsi della facoltà di poter sentire col cuore, per allentarlo dalla morsa in cui viene tenuto stretto. Stare insieme è un tipo di percorso, una pista di base che nel corso del tempo possiamo decidere di lastricare o di lasciare così com'è, fatta di terreno naturale, per poter sentire sempre il contatto con le cose più vere, senza artifici umani di qualsivoglia natura. A coloro che stanno insieme la scelta, l'una cosa o l'altra varrà per coloro che ne partecipano. E così si arricchirà di significato il percorso. Così eccomi a pensare che stare insieme non debba mai essere dato per scontato, neppure quando tutte le cose vanno per il verso giusto. E l'amore, quel qualcosa di straordinariamente magico, e non saprei che altra parola usare, se sarà equamente distribuito tra se stessi, per mantenersi vivi, fluidi, luminosi, sinceri e spaziosi nei confronti altrui e l'altro, sotto forma di attenzione, cura, ascolto, dialogo, avremo sempre come risultato numerosi ottimi inizi ed evoluzione personale. Concludo, dal profondo del mio cuore, ricordandovi una cosa estremamente banale ma sempre efficace e meravigliosa: se amate qualcuno ditelo e dimostratelo avendo cura di ascoltare, in questo frangente così delicato, prima l'altro di voi stessi, non seguite ciecamente il vostro piacere personale prima di aver ascoltato i bisogni altrui. E se scoprirete, nel far ciò, che l'altra persona non prova per voi le stesse cose e se doveste scoprire che non c'è alcuna speranza per voi, mentre nel vostro cuore c'è ancora qualcosa, sappiate essere forti ed eleganti nel comprendere. Io non lo sono stata e ho perso molto, davvero molto. RBBetween

lunedì 16 giugno 2014

Bisogna adattarsi piano piano

Per adattarsi oppure per abituarsi serve del tempo. Ed è necessario distinguere tra l'un concetto e l'altro. L'abitudine non sempre è positiva, è un ripetersi di azioni, pensieri e modi di fare che talvolta esulano dalla nostra volontà cosciente. Si può non accorgersi di essersi abituati a qualcosa o anche a qualcuno. Si susseguono i giorni e si agisce sempre nello stesso modo per adattarci alla vita che ci si presenta davanti. L'adattarsi è allora la pura azione, il risultato di quanto plasticamente riusciamo ad essere per prendere una data forma. Riuscite a sentire la sottile differenza tra i due concetti che apparentemente sembrano essere la stessa cosa? L'abitudine si trascina dietro una coda fatta di vuoto di volontà, della nostra volontà, riempito con il lasciar essere qualcos'altro che non è noi, che non è la nostra presenza nel qui e ora. Spesso possiamo dire di noi stessi che siamo abituati anche a cose negative e se lo siamo significa che non combattiamo, lasciando quieta la volontà di reagire. Siamo abituati alla routine quotidiana ma non ne siamo adattati perché nell'abituarsi noi non siamo pienamente noi stessi, col nostro cuore. Se scegliamo coscientemente di adattarci invece possiamo usare la risonanza con la capacità della natura che sa cosa significa adattarsi. Basta osservare. L'acqua è lì a portata di osservazione ed è uno dei migliori esempi di capacità di adattamento per la sua "plasticità". L'acqua non possiede spigoli a temperatura ambiente, la sua fluidità permette di raggiungere ogni altro spigolo esistente per adattarvisi. E' la fluidità la caratteristica oggettiva che permette l'adattamento. E tuttavia essere adatti significa essere capaci, significa avere tutte le caratteristiche necessarie per svolgere un compito, per esempio. In tutto questo non c'è abitudine, non c'è il ripetere azioni indistintamente lasciando andare il tempo. Nell'adattarsi e nell'essere adatti c'è ricerca personale e attenzione. Ma va detto sempre anche che così come vi sono cattive abitudini esistono pure casi di adattamenti sbagliati, che sul momento non lo sembrano. Ma il nocciolo della questione è la presenza in noi stessi. Passare attraverso le esperienze, riuscendo a osservarle, permette di comprendere cosa stiamo vivendo, se un'abitudine che ci allontana dall'esercitare la propria volontà o se l'adattamento in corso porta qualcosa di buono oppure no.
Ci si abitua per forza di cose ma ci si adatta perché si lavora di comprensione e il lavoro non è quasi mai immediato, né nello sforzo richiesto né nei risultati. L'acqua è inconsapevole della propria capacità di adattarsi, è vero, ma la sua essenza insegna come sia possibile provarci invece con la consapevolezza che abbiamo noi a disposizione. Quasi nessuno ci insegna più ad osservare i movimenti della natura, la sua presenza manifesta, così non appena vi accadesse di capire ciò che essa ha da suggerire, per comprendere meglio ciò che abbiamo dentro, provate a non dirle di no. E ricordate che più le cose vanno lentamente, ma costantemente incrementate di forza di consapevolezza, più sarà stabile e duraturo il cambiamento.
Ragionando sempre in positivo, adattarsi piano piano è da preferire così come lo è fare in modo che la giusta lentezza comandi l'andare, ridimensionando la fretta, specialmente se l'adattamento che stiamo vivendo è nei riguardi della luce interiore. Sapete bene tutti che qualsiasi raggio di luce intensa ferisce gli occhi se questi non sono mantenuti a fessura e se si guarda direttamente la fonte. Però, giorno dopo giorno, accettare di esporsi alla luce, dapprima poco per volta, permetterà di aprire gli occhi interiori sempre più. RBBetween

sabato 24 maggio 2014

L'ombra del pregiudizio

Il pregiudizio non è altro che un pensiero. Un pensiero che abbiamo dentro, che abbiamo creato e che non si sa esattamente come mai, ma ce lo ritroviamo attaccato. Di questo pensiero sappiamo quando è nato perché eravamo lì anche noi, presenti al fatto, eppure lo abbiamo lasciato fare, crescere, attaccarsi ancora di più, invadere spazi che non gli competevano ma che col tempo gli sono sembrati giusti per se stesso. Così il pensiero è arrivato alla maturità di una vita quasi propria. E noi? Noi lo abbiamo lasciato fare, come se fosse giusto elargire libertà ad un pensiero che fin da subito ci era sembrato radicato. E se lo abbiamo lasciato esistere è perché lo credevamo solo un pensiero come tanti altri. Non siamo stati a sindacare su nulla, non c'era tempo per farlo, magari faticoso come compito, lo abbiamo giudicato innocuo per non doverci mettere a scavare più in profondità. Come si vede in natura, un seme che si radica nel terreno cresce se non lo si disturba e cresce anche meglio se lo si nutre. Non è difficile alimentare un pensiero, specialmente se si tratta di un pregiudizio la cui origine ha radici in un qualche strato di noi dove si è più sensibili e dove ci si irrita più facilmente. Se siamo punti sul vivo, come si dice, lì in quella abrasione, in quella ferita, vuoi anche infinitesima, se non ci preoccupiamo subito di pulirla, qualcosa accade. Spesso, se si riesce ad essere realmente sinceri con noi stessi, ci si può accorgere che il pensiero non ha bei colori ed è una compagnia nefasta perché quel giorno in cui si formò non eravamo disposti a comprendere. Così, paradossalmente, quello che il profondo luminoso di noi non avrebbe mai voluto accanto a sé, ce lo troviamo vicino. E poi abbiamo dimenticato e ci siamo distratti con altre cose ma abbiamo tirato fuori quel pensiero, il pregiudizio, nel momento in cui qualcosa di simile alla prima volta è accaduto. E abbiamo reagito prontamente, prima ancora di verificare alcunché, prima di lasciare parola, prima di qualsiasi altra cosa che potrebbe accadere se noi non intervenissimo subito, abbiamo alzato la mano o la voce. Il pregiudizio non è solo un'idea errata che si plasma addosso a qualcosa o a qualcuno o ad una situazione, è fondamentalmente la manifestazione della nostra pigrizia mentale, della superficialità, della disillusione e siccome non siamo mai davvero così cattivi alla base di molto di questo mal pensare c'è del dolore, c'è una ferita del cuore o c'è la paura che innesca il processo di autoprotezione o di protezione in genere, vuoi anche una protezione del proprio orgoglio. Quando l'azione nasce dal pregiudizio, dalla conservazione di un'impressione errata o non elaborata nella memoria, l'azione è una strada che non ha un cuore. Una via sterile come un ramo secco, per di là non si va da nessuna parte. E così agendo si crea nuovo dolore allontanando la pace. I cuori di ciascun essere vivente si fiaccano percorrendo tale strada all'ombra del pregiudizio. Parte della soluzione, però, è desiderare la comprensione, lo spiegarsi, il chiarirsi, tra due o più o semplicemente dentro se stessi. Le azioni basate sul pregiudizio o anche sul giudizio errato spesso si sommano tra loro e conducono lontano dal luogo dove c'è il dialogo e il dialogo va difeso sempre perché base della comunicazione. Questa ombra sul sentiero non è una buona ombra alla quale riposare, mai. La luce della sincerità porta un differente tipo di sofferenze poiché si portano allo scoperto parti di noi che spesso, ma anche scioccamente talvolta, non desideriamo mostrare ma non è motivo di vergogna mostrare se stessi così come si è, anche se la pressione del pensiero di massa non aiuta in questo, quando si predilige dirigere lo sguardo sull'uniformità e la conformità. Così rinunciando a tutti quei pensieri comodi, facili, sugli altri e sulle situazioni possiamo già ritrovare meglio la strada verso il cuore di luce che abbiamo tutti, più o meno nascosto in profondità. Ogni volta. ogni istante presente è quello che conta e che fa fede per l'aggiornamento della culla della mente dove facciamo nascere i pensieri.
R.B.Between

venerdì 3 gennaio 2014

La residenza del guerriero

Molti anni fa, ancora in piena adolescenza, ricordo che mi affascinava la figura del guerriero. L'uomo, semplice uomo tuttavia, che per le sue qualità di coraggio e forza combatteva tremende battaglie spesso da solo contro tutto e tutti. Mi catturava il carisma di quest'essere che diventava eroe e che non si stancava mai, non cedeva sotto i colpi nemici. Viaggiavo nell'immaginario, cavalcavo libri, storie e pensavo. Nutrivo la mia immaginazione e la mia anima con questa ammirazione che era assai vicina alla stima nei confronti di una simile figura. Non importava se intorno a me, nel mondo reale, non  trovavo una figura simile però, già allora, cercavo di trovare le radici di ciò che fa del guerriero un guerriero, nelle persone. Non era importante che una singola persona avesse in sé tutte le caratteristiche riconoscibili, era sufficiente che ce ne fosse una o addirittura mi bastava intuirne la potenzialità. Non mi rendevo conto, facendo così, che ricercavo l'essenza luminosa, la caratteristica pura del guerriero in ciascuno intorno a me. E non solo intorno a me. La mia ammirazione per certe qualità mi ha accompagnato nella crescita poiché le volevo anche dentro di me. E se non c'erano, cercavo il perché non ci fossero così da creare il seme per coltivare tali qualità che, comunque, mi sembravano in linea col mio essere. Fino al giorno in cui lessi il Manuale Del Guerriero Della Luce di Paulo Coelho. Ciò che lessi in quel libro sistemò insieme i pezzi sparsi dei miei pensieri sui guerrieri, sui combattenti, sui saggi e sulle persone normali così da distillare l'idea giusta con la quale proseguire il mio personale cammino. Questo cammino prosegue ancora, da una quindicina di anni, e in tutto questo tempo ho avuto modo di osservare fuori e dentro di me per comprendere come possa essere davvero un guerriero luminoso. Quando scrissi il titolo di questo post, pensando di accompagnarlo con dello scritto come sto facendo adesso, anche se allora non scrissi nulla, avevo in mente la sensazione che si prova quando si è molto combattuto e non si desidera altro che tornare a casa. Quando si dimentica la propria natura di guerriero e la stanchezza si insinua dentro per scorrere insieme al sangue e il sangue stesso smorza la sua luce, il rifugio è fondamentale perché non si è comunque ancora interessati a morire. Si ha bisogno di stare a riposo per far decantare la polvere delle battaglie e dunque al guerriero serve un posto dove stare, una residenza sicura che gli permetta di guarire per poi tornare a combattere. Dalla mia personale esperienza come aspirante guerriero luminoso sempre in divenire, attingo la consapevolezza, o se si preferisce l'intuizione, che la residenza del guerriero non è in altro luogo che dentro se stesso, nel distretto del cuore. Qui, si attinge forza alla fonte luminosa che trascende i moti umani pur vivendoli costantemente. Qui non manca mai il nutrimento né ciò che può sanare le ferite di ogni tipo dal momento che esattamente qui le si possono sentire con maggior dolore. Sembra un luogo impossibile eppure, se non si ha paura di risiedervi, questo è il luogo più adatto per continuare a vivere anche quando stiamo per morire. Se appare come un paradosso è solo perché ancora non ne abbiamo la chiave e nessun altro, al di fuori di noi, può forgiarla o trovarla. E nella residenza del guerriero non c'è spazio solo per il guerriero, non dimenticatelo.
RBBetween

giovedì 2 gennaio 2014

Siamo tutti a metà di qualcosa

Siamo tutti a metà di qualcosa semplicemente perché stiamo vivendo. Stiamo andando da qualche parte, per esempio, oppure abbiamo in corso dei pensieri da elaborare. Siamo impegnati e lo sappiamo bene ma quello che talvolta dimentichiamo è di applicare questa consapevolezza anche alle vite altrui. Se riuscissimo a trovare uno spazio dentro di noi in cui far accomodare sempre il fatto che tutti, come lo siamo noi, sono a metà di qualcosa, sapremmo essere più gentili gli uni con gli altri. Tireremmo fuori dal cappello magico tutte le predisposizioni che il cuore ha a disposizione per relazionarsi agli altri con comprensione. Da qui ne discenderebbe l'essere meno duri e meno severi, meno esigenti e meno intolleranti. "Mi stai facendo perdere tempo" potrebbe trasformarsi in personale allenamento in pazienza, comprendendo eventualmente la difficoltà altrui nell'eseguire un compito affidatogli. L'altro, che svolge il compito, potrebbe essere a metà del suo personale percorso nell'imparare a sveltirsi nell'eseguirlo o potrebbe non stare bene quel giorno ma esser stato costretto ad eseguirlo ugualmente con il risultato di apparire meno efficiente. Ricordare che questo essere a metà di qualcosa vale per ciascuno in ogni istante è più utile del desiderare clemenza o pazienza quando siamo noi ad essere sotto pressione, quando dobbiamo soddisfare richieste altrui mentre quando siamo in modalità "richiesta ad altri" vestiamo i panni del tiranno impaziente ed esigente. Credo che sarebbe più semplice partire col piede giusto nel percorso che dobbiamo affrontare gli uni verso gli altri proprio rammentando che i ruoli possono cambiare. La differenza sta nel tempo, in come lo consideriamo dentro di noi. Possiamo vivere accettando la sequenza di azioni e ruoli e non preoccuparci di essi finché non se ne presenta l'occasione oppure possiamo da subito mettere in conto, tenere a mente dentro in profondità, ancorando la radice di questo pensiero nel cuore, la contemporaneità che i ruoli scambiati girano per tutti, anche se accade solo prima o poi, e agire diluendo l'aggressività se stiamo chiedendo o agire senza subire lo stress da pressante attesa altrui se stiamo rispondendo ad una richiesta. Ricordiamoci chi siamo anche quando l'onda preme e sposta il baricentro così da far splendere con più costanza la luminosità della consapevolezza dell'agire e del pensare con il cuore.