sabato 31 marzo 2012

Sotto la pelle della gelosia

Nello specifico vorrei dire qualcosa a proposito di quello che ruota attorno alla gelosia che prova una donna nei confronti di un'altra donna, in campo sentimentale. Parlo dunque analizzando qualcosa che mi appartiene, poiché l'ho provato, ma ci è voluto del tempo per inquadrarlo abbastanza bene da non irritarmi ogni volta che sfioravo il pensiero. La padronanza del sentimento e della comprensione acquisita è ancora imperfetta e ammetto che potrebbe accadermi ancora di soffermarmi in superficie, senza andare oltre, senza esplorare tutto quello che si trova sotto la pelle della gelosia, ossia in quel luogo dove alcuni pensieri, e di conseguenza i punti di vista che li generano, si modificano un po'. Tutto parte da come vediamo noi stessi in relazione alla situazione. Provare dei sentimenti per qualcuno, a parte ammettere la complessità di ciò che si prova dovendola raccontare, mette anche in discussione chi siamo e come siamo. Per qualcuno questo fatto è più consapevole, per qualcun altro rimane a livello più inconscio. Però tutti quanti reagiamo con un moto dell'animo dando voce al dolore, con più o meno eleganza, gridando o agendo anche malamente laddove la forza delle parole non ci sembra poter rappresentare al meglio ciò che stiamo provando, un po' come fanno i bambini piccolissimi che riescono ad esprimersi solo tramite il pianto in tutte le sue gamme di strepiti. Questo moto dell'animo che si manifesta sotto forma di gelosia è formato da più di un sentimento. Finché lo si vive perché la ferita fa male, si vede tutto di un colore solo, quasi uniforme. Se si riesce ad avere abbastanza forza interiore, e si riescono a domare l'animo irrequieto e l'ego apparentemente umiliato, può crearsi una fessura che permette di vedere oltre la superficie. Sostanzialmente, nella mia gelosia, si nascondeva il dispetto nei confronti di me stessa per l'invidia, in parte inconsapevole, nei confronti dell'altra che ho poi compreso essere, a sua volta, lo schermo di un diverso sentimento, strano doverlo ammettere, ma ciò che ho sempre provato era ammirazione. Questa ammirazione fa scatenare una rabbia contro tutto e tutti perché porta a galla la consapevolezza della percezione di noi stessi per come sappiamo essere davvero. E certi guizzi inconsci, sapendoli leggere senza mentire a se stessi, parlano con una sincerità disarmante, raccontandoci come siamo anche quando non lo vogliamo ammettere. La reale sofferenza di una donna non è davvero l'essere messa da parte, quello è solo l'alibi per non mettersi a guardare che, se si perde l'ammirazione di qualcuno, è perché abbiamo smesso noi per prime di farlo nei nostri confronti. La stima di se stessi non la si perde quasi mai volontariamente, ci sono sempre migliaia di cose in mezzo che ci fiaccano e ci fanno così dimenticare come si fa a splendere da dentro. Io sono sempre stata sgraziata nei movimenti e spesso anche nei modi, disattenta al mio involucro esterno perché perennemente concentrata ad ascoltare e decifrare il mondo di dentro così, anche solo immaginare la competizione con una donna che incarna una sorta di modello al quale inconsciamente si vorrebbe tendere, ha scatenato la reazione. E vedere l'altra essere se stessa emanando la sua bellezza interiore, mentre tu ti senti una palla piena di spigoli, fa deragliare il pensiero. E' qui che nasce l'invidia ed è qui che, contemporaneamente, si dimentica che ciò che si sta vedendo è una cosa bella che suscita ammirazione. Se l'invidia e l'ammirazione fossero prese come riferimento per comprendere, senza cedere al lato oscuro di vendette o mere imitazioni, si avrebbe un modello al quale guardare per rendersi conto di come siamo e di come vorremmo essere. Il segreto, nemmeno poi così segreto secondo me, poiché di semplice constatazione, è l'essere se stessi davvero. Ed è nella parola "davvero" tutto il valore della consapevolezza. Una donna, così come un uomo, che comprende la sua peculiarità, inizia a distinguersi e, se vuole, può così competere con gli altri poiché nel suo bagaglio ci sarà qualcosa di unico che nessun altro avrà. Così si compete davvero e con sincerità, anche se va messo in conto che proprio per queste peculiarità, che portiamo alla luce accettandoci come siamo, potremmo anche essere scartati. Da notare che è la paura di essere scartati che ci fa desiderare di assomigliare a qualche modello preesistente, facendoci rimandare il confronto con noi stessi e facendoci ignorare come siamo e ciò che potremmo valorizzare di quel che abbiamo in dotazione per natura. Il mio percorso è ancora in costruzione ma sono riuscita a vedere cosa c'è sotto la pelle della gelosia e questo non è poco. Se ciò che si scopre e si capisce riesce a rimanere accanto a noi alla luce del sole, senza tornare in qualche meandro nascosto delle cose sapute ma dimenticate, allora in piccola parte si rende giustizia alla persona che non potevamo sopportare a causa della gelosia provata, perché è stata per un istante il nostro specchio per l'anima. La stima di se stessi è il valore che ci diamo e nessuno dovrebbe avere la forza di abbatterlo.

mercoledì 28 marzo 2012

Due viandanti con lo zaino sulle spalle

Il dono che la sintesi fa agli esseri umani è quello di poter vedere qualcosa di complicato, da descrivere tramite le sole parole, mediante un'immagine rappresentativa. Ogni tanto aggiungo un pezzo all'immagine come fosse il tassello di un disegno intarsiato. In questo modo porto avanti la comprensione delle cose, ovviamente secondo il mio punto di vista. In questi giorni ho finito di leggere un libro che mi ha fatto vedere meglio l' immagine che porto con me da molto tempo a proposito di come vedo la coppia. L'immagine è quella del titolo di questo post. Un viandante è una persona che procede a piedi lungo un cammino che può comprendere una meta oppure no. La cosa principale è dunque il procedere lungo un percorso e questo il viandante lo fa. La scelta di camminare a piedi significa che non si ha fretta di arrivare da qualche parte e che si accetta il percorso con tutte le sue difficoltà. Si spera in un buon paio di scarpe robuste ma si potrebbe procedere anche a piedi nudi, se fosse necessario, per comprendere meglio la pelle del pianeta o per mettere alla prova il coraggio personale o la resistenza fisica. Una specie di partita leale con la vita. I due viandanti sanno che non troveranno sempre un percorso in pianura e sanno che insieme potrebbero arrivare dove ciascuno dei due da solo non potrebbe arrivare. Anche se non è detto, ma questa è un'altra storia. Comunque sia qui su questa strada ci sono due viandanti che procedono fianco a fianco, talvolta prendendosi per mano, talaltra stando semplicemente vicini. Procedere insieme in questo modo permette a entrambi di vedere la strada davanti a loro, così nessuno dei due impegna esclusivamente lo sguardo dell'altro con la sua presenza. Eppure possono camminare guardandosi negli occhi per scrutare reciprocamente nell'animo altrui e, magari, perché no, potrebbero parlarsi, senza proferire parola, solo tramite lo sguardo. Davanti a loro si apre la strada e il cuore la illumina quando la luce intorno si affievolisce. Dietro di loro c'è il percorso fatto e negli zaini, oltre al carico personale, si aggiunge la memoria. Cosa contengano gli zaini ciascun viandante lo sa ma, qualche volta, uno di loro potrebbe dimenticarlo così, nell'incessante procedere, il compagno di viaggio che può vedere lo zaino sulla schiena dell'altro può anche aiutarlo a ricordare o a gestire parte del carico che ha. Entrambi sanno che lo zaino che ciascuno ha in dotazione da sempre fa parte della stessa vita e del cammino perché lì dentro c'è tutto ciò che serve per andare avanti. Talvolta ci si può scambiare il carico per un breve tratto o si può avere il permesso di aprirlo per attingere da esso anche se non è il nostro zaino. E se accadesse un giorno di esser disperati, perché si crede di aver perduto qualcosa di importante, ci si potrebbe sorprendere nell'ascoltare, dal compagno di viaggio, che ciò che stiamo cercando è appeso allo zaino. Così i due viandanti si amano, proteggendosi a vicenda rammentando e indicandosi l'un l'altro ciò che momentaneamente non si riesce a vedere solo perché viene portato dietro da tanto tempo. E' così che, secondo me, la vita e il suo cammino assumono un senso speciale e rendono le cose più vive e ricche di significato, per continuare ad imparare donandosi qualcosa reciprocamente. Tutto il resto non è fatica a meno che non si classifichi ciò che si prova come un peso, è il respiro della vita assieme al battito del cuore o, meglio, dei cuori di chi condivide il cuore più grande del percorso.

Momento

Un momento è definito come un minimo lasso di tempo. Entro questo tempo può accadere qualsiasi cosa mentre la memoria scrive il suo appunto mentale. Come si dice, ci sono momenti belli e momenti brutti. Eppure, cercare di descrivere una porzione così breve di tempo, potrebbe richiedere centinaia di parole e altrettanti pensieri concatenati. La ricchezza di un momento, così come quella del più breve istante, è fatta di ciò che riusciamo a comprendere di esso e di tutto quello che ricordiamo. Procediamo camminando nella vita portando con noi la valvola dei sentimenti sempre attivata, quindi ogni momento che ci sembra più intenso di altri si lega alla memoria tramite ciò che proviamo. Normalmente si tende a vivere notando alcuni momenti particolari solo dopo che sono esistiti, poche volte mentre esistono, e questo forse perché non mettiamo costantemente in conto che ogni momento che viviamo è innegabilmente irripetibile. Ci sono sempre una marea di altre cose da fare e da pensare e si vive proiettati sempre un passo oltre quello realmente presente, così il momento smorza i suoi colori, si fa ugualmente ricordo in noi ma con meno nitidezza. E quanto riusciamo a ricordare dipende dal valore che diamo al momento stesso che si sta vivendo. Se lo giudichiamo cosa da poco ce ne scordiamo quasi subito. Poi però accade qualcosa e si comprende il valore di ogni momento già trascorso, che non tornerà mai più, e si darebbe qualsiasi cosa per rivivere il momento che ci lega, tramite la memoria, a qualcosa o a qualcuno di importante. Ci si sente così stupidi per esser stati disattenti, impotenti a cambiare il corso di ciò che è stato e, nel presente, si ha solo un sentimento con mille diramazioni che vibra di malinconia, di vuoto, di senso di colpa, di dispiacere, di consapevolezza dello scorrere impietoso del tempo. Se avessimo la possibilità di conoscere in anticipo il futuro, come ci relazioneremmo con gli altri? E,  soprattutto, come tratteremmo le persone che amiamo? Quando provo a immaginare questa scena vedo cosa non vorrei fare. Non vorrei trovarmi a vivere pensando ad altro mentre sto facendo qualcosa o sto avendo a che fare con chi amo. Un abbraccio, il semplice condividere un qualsiasi momento che fa parte del quotidiano, anche fosse la solita routine, non è mai privo di valore né di peso dentro alla memoria del cuore. Oggi ci siamo, perché non approfittarne per godersi il momento?

lunedì 26 marzo 2012

Muse - Starlight

Brivido di consapevolezza

Solitamente la consapevolezza è un fluire di energia che nasce nel momento in cui il frutto che abbiamo curato giunge a maturazione, tanto per esprimersi metaforicamente. E' un fatto positivo in genere, più o meno di impatto, più o meno in profondità. Ma quando, come nel caso di un fatto violento che avviene vicino a noi, nasce un brivido per la consapevolezza, si resta interdetti. Va bene, oggi non sono passata da quella strada, ma di solito ci passo. Va bene, una volta accaduto ci sono pochissime probabilità che accada di nuovo proprio lì. Va bene, la vita espone continuamente a qualsiasi tipo di pericolo però... però mi scorre lo stesso un brivido leggendo la notizia che oggi, proprio nella strada che capita di percorrere, un uomo ha sparato ad un altro uomo, le notizie dicono che era il fratello. Oggi ero da tutt'altra parte ma sconvolge questo soffio che sfiora così da vicino. Al di là del chiedersi cosa sia questa strana cosa della casualità che un giorno, all'improvviso, un atto così violento passi e porti via la vita di qualcuno, resta una consapevolezza che vibra in un modo particolare. Una consapevolezza che in certi casi dovrebbe svegliare un po' tutti per interrogarsi urgentemente se va bene risolvere le questioni per mezzo di una qualsiasi arma. La prima volta che ho visto una pistola dal vero, non in tv, è stato nemmeno tanti anni fa, nella fondina di un poliziotto. E anche se quel pezzo di metallo, dalla potenzialità mortale, stava in silenzio dentro una fondina, alla vita di un uomo che difende la giustizia, un brivido c'è stato anche quel giorno. Il brivido era il pensiero legato all'ipotesi di ciò che potrebbe accadere. Come si fa a non accorgersi del dolore che scaturisce dall'impatto di un colpo rapido, più di quanto un uomo lo potrebbe naturalmente essere mai, di un pezzo di metallo dentro la carne. E se vi state contorcendo dentro a leggere queste parole come fate a non combattere ogni istante della vostra vita contro qualsiasi forma di rabbia e violenza? Come si fa a non cercare soluzioni alternative pacifiche? Perché non si cerca il dialogo che permetta di combattere su di un campo di battaglia fatto di conoscenza e comprensione reciproca, soprattutto ricordando che può essere successo a noi in passato o potrebbe accadere a noi in futuro, di trovarsi nel punto di lotta per il motivo considerato. E che importa se le questioni si prospettino da risolvere in un tempo lungo? Un colpo di pistola è rapido e veloce e segue lo scoppio di dentro ma non è mai la soluzione. Mai, perché se si uccide la vita non resta più nulla per cercare la soluzione. La soluzione facile, da sempre, è quella che piace di più, e mi chiedo perché. Perché piace di più la meta del percorso? La ricchezza di informazioni è nel cammino, la meta è cosa secondaria. Comunque, per non uscire dal tema, torno a dire che vivere in un mondo dove si debba sentire spesso un brivido di consapevolezza come questo non è un mondo sano. Soprattutto se percorrendo quella strada non sono sola, perché con me c'è una piccola vita che dovrebbe avere diritto a imparare solo i colori della consapevolezza, non le ombre dei brividi di una paura causata da qualcuno di cui, normalmente, ci si dovrebbe fidare, perché parte del gruppo umano al quale si appartiene.

venerdì 23 marzo 2012

Cos'è un figlio

I più attenti dovrebbero aver già notato qualcosa sulla quale discutere, leggendo il titolo. Se, come me, pensate che un figlio sia "chi" invece di "cosa", ci sarete arrivati. E la definizione vale, con la sua sfumatura, anche per gli adulti. Prima di essere "cosa", siamo "chi", ossia creature vitali con una personalità ed unici e irripetibili, con potenzialità da riconoscere e sviluppare. A maggior ragione questo vale per un figlio, che è un nuovo essere umano e non un oggetto che abbiamo creato. Non fraintendetemi, mettendo al mondo dei figli, il fatto di averli prodotti materialmente permette di credere che ci appartengano, ma qui deve nascere la distinzione, che diviene l'anima del rispetto per il nuovo nato. Il senso di appartenenza è viscerale ma la mente, che controlla alcuni concetti, dovrebbe suggerire che la parola "mio", per un figlio, comprende solo un riferimento. Tutto ciò che discende dal concetto di possedere, appartenere come oggetto, inquina il rapporto con un altro essere umano. Un figlio è dunque un essere umano che esiste poiché qualcuno ha favorito la sua esistenza e qui si dovrebbe vedere la grandezza del dono della vita che si dà e che ci viene dato. Spesso mi esprimo tramite metafore,  immagini che sintetizzano dei concetti, in questo caso mi piace pensare che ogni essere vivente che partecipa alla vita, accettandola, e dandola a sua volta, sia come un magico giocoliere luminoso dai colori dell'arcobaleno, che mantiene in volo tutte le cose che deve gestire, toccandole senza mai farle cadere, mantenendo così il ritmo più grande della vita stessa. E questo lo sanno fare tutti e tutti lo fanno comunque, in un modo o nell'altro, anche se la vita talvolta ci priva di alcune capacità. Dare alla luce un figlio può avere molteplici radici, può essere molte cose, nel bene e nel male, però quello che esiste alla fine del percorso è un altro essere umano, su questo non ci sono dubbi. E se di questo essere umano che arriva in un luogo che non conosce, che tutto deve imparare, pensiamo che sia un oggetto, non sapremo aiutarlo a crescere né ad imparare a vedere se stesso come un essere umano, un individuo che partecipa alla vita insieme a chi c'era prima di lui e a chi verrà dopo. Un figlio non è una moneta di scambio, non è un pacco da spedire né da scartare, non è un fastidio né un giocattolo rumoroso, non è il bersaglio di qualsiasi voglia di vendetta o di rivalsa, non è uno contenitore dove riporre i propri desideri da realizzare se a noi non è riuscito, non è un errore da cancellare, semmai un dono da valorizzare che insegni all'adulto a rapportarsi con un evento di tale sconvolgente portata, comunque sia, poiché un figlio induce anche lo sviluppo del cuore di un genitore. E se un figlio crescendo non può, per qualsiasi motivo, produrre a sua volta un figlio, nel cuore e nell'anima di questo figlio cresciuto, nascosto dal dolore credo ci sia anche un seme di consapevolezza ricco di speranza, magari dimenticato, magari incrostato di dubbio e paura, però, questo seme, che potrebbe essere infinitamente piccolo, non è assente, perché è in dotazione ad ogni creatura vivente. Esso è fatto della forza che fa vedere le cose dolorose in modo da piegarle verso raggi di luce che provengono dalla conoscenza di ciò che si ha, e dal fatto che un "figlio" può essere qualsiasi cosa che noi stessi diamo con tutto il nostro cuore. E in questo è compreso l'impegno per creare benessere per un altro essere umano, anche se questo non è carne della nostra carne. Si potrebbe quasi dire che ogni prodotto del cuore è un figlio perché dove c'è amore, ci sono forza e luce sufficienti per sviluppare anche il sogno più impossibile da realizzare. Ciò che nutriamo con impegno ha la nostra forza e vibra di essa, così come accade per un figlio, quando lo mettiamo al mondo. Anche se un figlio è innegabilmente un parte di noi, ciò che gli dobbiamo è l'impegno a riconoscere che una volta venuto al mondo, sviluppandosi, non reclameremo, né rivorremo indietro il dono che abbiamo fatto, così quella parte di noi non ci apparterrà più e nemmeno ci mancherà perché si sarà trasformata in un frutto che può ancora insegnarci qualcosa. Se non lo lasciassimo sviluppare, favorendolo nei suoi bisogni, se fossimo ancora troppo attaccati alla sua forma così come l'abbiamo conosciuta, e volessimo continuare a vederla senza modifiche, il dono non sarebbe più totale e l'egoismo prevarrebbe. Ma un figlio, sintesi del concetto della discendenza che lasciamo a chi verrà dopo di noi, in qualsiasi forma sia, se lo avremo ben curato e amato, ci mostrerà un giorno, chi siamo noi stessi e qual'è il nostro sogno.

giovedì 22 marzo 2012

Non esistere più per qualcuno

Qualche volta accade. E' accaduto anche a me, tempo fa. Quello che non mi fa dimenticare l'impatto non è mai stato il sentimento dell'offesa, del tipo "come osa tizio o caio eliminarmi, chissicredediessere!" con conseguente pensiero di spedire il tizio o caio di turno in uno di quei luoghi sempre menzionati quando qualcuno ci fa arrabbiare, ho provato solo dolore, sempre. Questo dolore profondo ha assunto molte sfumature come il passaggio cromatico degli ematomi con il passare del tempo. Oggi, non so bene per quale congiunzione astrale, se volessimo crederci, ho ripensato per l'ennesima volta a questo fatto. Oggi, però, questo pensiero è stato accompagnato dalla consapevolezza che capita anche ad altre persone, così come è già accaduto in ogni tempo e luogo. Non che prima non ne fossi consapevole, prima ero solo più concentrata sul dolore che provavo io. E lo stesso non è diminuito il dolore ma ho un po' più forza per poterlo gestire, anche attraverso queste parole che sto scrivendo. E quello che vedo è sempre lo stesso, il pensiero di fondo che accompagna anche la mia esperienza, al di là dei motivi che sono diversi per ciascuno, è il tempo e come esso si piega in questa occasione. Quando i giorni iniziano a trascorrere dal fatto che decreta la non esistenza, il tempo, se la ferita del cuore non riesce a rimarginarsi, cambia il suo ritmo. La Terra ancora girerà, vedendo il sole alba dopo alba e tramonto dopo tramonto ma coloro che non esistono più per qualcuno hanno un sottilissimo filo che li tiene legati al ricordo del litigio. E percorrono questo filo più spesso di quanto vorrebbero, avanti e indietro da quel giorno al momento presente, per capacitarsi, per interrogarsi, per capire quanta colpa si ha, quanto si è ferito l'altro che non ci vuole mai più vedere né sentir nominare, chiedendosi all'infinito come sia possibile che non si possa farsi perdonare e si sbatte contro una roccia talmente dura da sfinirsi. E mentre si sbatte contro questi pensieri con tutto il carico di dolore e colpe, e con la speranza praticamente inesistente di recuperare un qualsiasi dialogo, ci si sente impotenti e stupidi per non riuscire a convincere il cuore dell'anima a smettere di sperare. E mentre si pensa questo, emerge la convinzione che il massimo del rispetto che si deve all'altro, sia lasciare le cose come stanno, rispettando il desiderio altrui. Poi si scivola in un altro pensiero, che suggerisce alla mente che, in questo infinito silenzio ad oltranza, ci siano due sole note per noi, che ancora combattiamo nel dolore, l'una è l'indifferenza che l'altro può provare nei nostri confronti mentre l'altra è l'odio, o qualcosa che gli si avvicina. E a questo punto non sai cosa preferire e, quando ci pensi, ti senti anche peggio. Se non esistono gesti e non esistono parole che possono essere dette, neppure quando il cuore mette in gioco tutto se stesso, non esistono porte né finestre né speranze. E, credetemi, non è un bell'ambiente. Così il tempo passa, passa, passa. E paradossalmente non passa mai veramente, anche se intorno ci sono cose che ne scandiscono l'andare e sono ben visibili e riconoscibili. Parte di questo dolore che provo io, al di là dello specifico, è la consapevolezza che aggiungiamo giorni su giorni  vivendo ma, non essendo la vita eterna, ne restano sempre meno per vivere l'esperienza della pace. Quella pace che vorrebbe nascere nel punto più impervio dell'esperienza umana, dove si scontrano gli uomini su questioni importanti. Eppure, quando ripenso alla mia esperienza, mi chiedo se questo silenzio sia la misura del dolore che ho procurato in un cuore, o sia la misura della mia mostruosità fatta di incomprensione degli altri. E se, come oggi, capita di sentire che un'altra persona si chiede "cosa posso fare o posso dire per rimediare", da spettatore, la sofferenza riemerge, e vorrei gridare, non solo piangere. Com'è possibile che non si riesca a vedere che tutti, assolutamente tutti possiamo sbagliare, pur manifestando ciascuno le proprie ragioni nel momento del confronto. Ed è chiaro come il sole che entrambi hanno la propria ragione da difendere, altrimenti non esisterebbe il confronto, ma poi? Poi cosa si fa, cosa si prova dopo aver voltato le spalle con veemenza a qualcuno? Io so solo cosa prova chi resta a guardare la schiena di chi se ne va...

lunedì 19 marzo 2012

Scegliere l'indirizzo di studio adatto

Oggi, parlando di questo argomento con amici, mi sono resa conto di qualcosa che mi appartiene. Prima  non ci avevo fatto caso, anche se sembra impossibile che sia così, dato che quando frequentavo l'università, avevo scelto uno specifico indirizzo di studio. Sono tornata indietro col pensiero e mi sono vista in quegli anni. Ricordo bene che mi piaceva cosa stavo studiando ma non guardavo al futuro. Ero affascinata da molti argomenti e, in qualche modo, potrei definirmi adesso "onnivora" nei confronti di questi. Mi rendo conto di essere stata dispersiva per assecondare il desiderio di sapere in generale, cosa che, invece, starebbe forse meglio come interesse personale, da nutrire in aggiunta allo studio specifico sul quale concentrarsi. Quando si è molto giovani, la percezione del tempo a disposizione per fare le cose credo sia lievemente diversa da quando ci si sveglia, a circa trent'anni o più, e si scopre che, anche se di tempo ancora ce n'è, in realtà questo scorre stranamente più velocemente. Se, come me, si è lasciato che il tempo vivesse se stesso impiegandolo nell'esplorazione di tutto, ma senza approfondire quasi nulla di ciò che era materiale di studio ufficiale, si ottiene che arrivi un giorno in cui si vede cos'è successo. Quando si presenti questo giorno non credo sia dato sapere, né credo si possa sapere con estrema certezza nemmeno se si presenti,  anche se propendo per la sua manifestazione prima o poi, comunque resta il fatto che la scelta di questo indirizzo di studio, che indirizza al vita stessa da qualche parte, per farci poi vedere il mondo tramite le conoscenze che così si acquisiscono, sia determinante. Forse si potrebbe affermare che si è fortunati a comprendere, da ragazzini, quale sia, per non perdere tempo prezioso lungo la strada, tuttavia credo anche che un modo per capire davvero ci sia. Tutti manifestiamo delle inclinazioni per un dato tipo di conoscenza, e le proprie abilità emergono anche quando siamo ragazzi, se non prima da bambini. Certe volte è anche vero che queste capacità non sono così totalmente manifeste, ma vivono e fanno parte di noi come fossero un margine, un contorno, una sfumatura che si palesa solo ogni tanto ma ci rende presenti in essa e felici. Nel mio caso, quello che ho visto oggi, è stato lo scrivere che mi accompagna dal giorno alle elementari, quando la maestra mi dette un voto alto per un tema. Ricordo ancora l'argomento del tema libero che svolsi, era il dialogo tra una foglia e il vento. Più o meno da allora ho sempre scritto e ricordo che mi piaceva molto, non mi pesava e quando sapevo che quel giorno ci sarebbe stato il tema, andavo a scuola più volentieri. Come ho scritto in precedenza, qualche post fa, in alcuni momenti più pesanti della vita ho usato lo scrivere come forma di "guarigione", come se inconsciamente cercassi in me la cosa che poteva confortarmi per non soccombere. Poi, negli anni, la passione per l'esprimermi correttamente per scritto, mi ha portato a stare attenta e a non smettere mai di acquisire informazioni necessarie per rendere impeccabile l'applicazione in questa attività che, evidentemente, mi è sempre appartenuta profondamente, più di quanto credessi. Oggi sono una quasi quarantenne che non si guadagna la vita con ciò che ama fare di più, anche se non è detto che potrei davvero farlo dal momento che scrivere non è una occupazione tra le più utili, né remunerative.  Comunque sia la cosa basilare da riconoscere, o almeno cercare di farlo, è leggere dentro ciò che siamo per trovare quello che possiamo fare per stare bene, così da non stancarsi mai nel farlo. In un mondo ideale c'è posto per tutti, immagino mentre scrivo queste righe. Solo che il realismo del mondo che si presenta adesso non ha posto affinché, tutti coloro che si accingono a lavorare, lo facciano seguendo le loro inclinazioni. Eppure ugualmente ogni giorno combattiamo per i sogni e gli ideali che abbiamo e per diventare realizzati in qualcosa che amiamo, se questo è ciò a cui teniamo. Vivere, dunque, tendendo alla propria meta prefissata, aiuta a nutrire il sogno e a comprendere ogni giorno se la strada scelta è quella veramente adatta a noi e a ciò che siamo e possiamo dare, essendo noi stessi. Io questo non l'ho fatto dal punto di vista dello studio puntando l'occhio al lavoro, sono andata avanti senza accorgermi di quello che mi piaceva fare davvero, accontentandomi di accettare ciò che avevo di fronte, pur piacendomi in quel momento ed usandolo, comunque, per imparare qualcosa, perché questo è il mio modo di fare. Anch'io combatto qualche volta contro stanchezza e idiozie varie in ambito lavorativo, ma commetto forse ancora l'errore di non dedicarmi con più intensità a ciò che amo fare, ritagliando i ritagli di tempo. Forse non credo totalmente in me e nelle mie capacità, però oggi ho visto il valore della scelta, e del riconoscere la nota che ci appartiene, per essere davvero se stessi, conquistando la forza che ci rende resistenti alle intemperie e alla depressione. Se troviamo cosa amiamo dentro di noi, questa cosa che abbiamo trovato si trasforma, quasi automaticamente, in un sostegno importante, un fondamento sul quale poter contare nei momenti meno felici.

domenica 18 marzo 2012

Un anno di blog

Oggi questo blog compie un anno. Un anno di tante parole e di altrettanti pensieri scritti e lasciati come abbozzo altrove. Ho pensato ad una canzone anche se il testo non esprimere esattamente il pensiero, l'ho scelta infatti perché è nel titolo l'idea per riassumere quello che ho fatto in queste pagine virtuali. Un anno d'amore, perché questo è ciò che è stato...

Qualcosa di te in me (e di me in te)

Camminiamo per la strada lasciando che i piedi calpestino l'asfalto di città, un qualsiasi sentiero o prato in campagna o la sabbia in riva al mare. Ovunque e, nella maggior parte dei casi, con la testa altrove elaborando in continuazione pensieri. C'è poco spazio per ascoltare il suono di fondo che viene prodotto dalla vicinanza con gli altri. Il più delle volte lo si capisce solo dopo, quanto importante sia stato incontrare qualcuno. E aver trascorso del tempo, o aver avuto a che fare con qualcuno, lascia sempre qualcosa, sia nell'uno che nell'altro, come se fossimo fatti esternamente di soffice zucchero filato colorato, a ciascuno il suo colore, che, sfiorando l'altro magicamente, si fonde e scambia parti di sé. Impalpabile sensazione, forse solo immaginazione ma quando accade, se potessimo vedere questo scambio, capiremmo il dono che riceviamo dall'aver vissuto l'incontro. E' innegabile che ci siano anche incontri spiacevoli e per essi sappiamo da soli riconoscerne subito l'effetto, nella maggioranza dei casi, anche se per altre occasioni ugualmente dopo ci accorgiamo che non siamo stati bene. Pur tuttavia qualcosa è stato lo stesso scambiato. Il fatto che quasi sempre si veda l'effetto che fa a noi l'incontro, positivo o negativo che sia, significa solamente che siamo concentrati su noi stessi e su ciò che proviamo, non riservando spazio per provare almeno un po' a immaginare l'effetto dell'incontro sull'altra persona. I più potrebbero commentare domandandosi a cosa serva in fondo immaginare cosa prova l'altro, dato che quasi sempre non si riesce a capire correttamente cosa prova un'altra persona, specialmente se già per noi stessi è di difficile comprensione. Però, un però è d'obbligo per provare ad allargare l'orizzonte ristretto dall'ego, dalla focalizzazione abituale su di noi. Prima ho parlato di scambio perché credo che in ogni caso ci sia della reciprocità in quel che accade. Questa specie di magia non è a senso unico solo perché non si vede il tutto nella sua interezza, io personalmente cerco di mettere in conto il pensiero che, anche se non lo vedo, qualcosa accade nell'altra persona. Questo non l'ho imparato subito, purtroppo, come invece avrei dovuto per aver maggior cura degli altri, ma se ciò che lascio nell'altro è cosa positiva sicuramente un giorno lo saprò perché l'altro, che ha interagito con me, mi farà capire o me lo dirà in una qualche occasione. Lo stesso vale se ciò che lascio nell'altro è cosa negativa. Milioni sono le cose che lasciamo e che ci vengono lasciate, alcune comprensibili, altre meno, altre ancora così sottilmente penetranti da riemergere in superficie anche molto tempo dopo che l'incontro, breve o prolungato che sia, è avvenuto.
Non credo che siamo pieni di soli nostri pensieri, nostre produzioni, credo ci sia spazio anche per ciò che gli altri in qualche modo, lasciandoci qualcosa, ci insegnano, poiché quando lo scopriamo, accorgendocene, dobbiamo comunque misurarci con questo qualcosa. Se fosse un elemento destabilizzante dovremmo combattere per riconquistare il nostro equilibrio ed entro questo percorso, per rimettere a posto i vari pezzi, saremmo obbligati a vederli bene per riconoscerne i margini da accostare gli uni agli altri in modo corretto, come le tessere di un puzzle. Quindi vediamo ciò che è nostro e ci appartiene perché lo riconosciamo tale, e ciò che è stato lasciato dall'altro, perché dobbiamo distinguerlo per ricostruirci. E anche se le cose non tornassero "come prima", così come sempre vorremmo per evitare di accettare il presente che si modifica in continuazione, avremmo comunque qualcosa in più, innegabilmente. Avremmo noi stessi maggiormente consapevoli di come siamo fatti, dal momento che abbiamo dovuto guardare la forma dei pezzi che ci compongono. Questo è ciò che voglio sempre ricordare nei momenti in cui comprendo che mi è stato lasciato addosso un frammento di questo strano zucchero filato che vibra negativamente. Per ricordare la forza che ho scoperto di avere, per non dimenticare che posso rialzarmi e camminare ancora. Se poi ciò che ho ricevuto è un ciuffo di tale magico zucchero filato dai colori brillanti allora sarò orgogliosa di fonderlo nel mio essere per avere sempre con me il ricordo di chi chi mi ha sfiorato. Conoscendomi, però, so che, sia i ciuffi negativi che quelli positivi, prima di classificarli come tali, arroccandomi in una qualsiasi posizione, sarei spinta a vederli oltre la loro apparente classificazione, per prediligere l'opportunità che ho per approfondire la conoscenza di me stessa. Poi so che salverei e perdonerei nel negativo facendo spuntare fiori dalle rocce mentre, purtroppo, tenderei a oziare nel positivo, per timore che tutto finisca così velocemente da non nutrire abbastanza il mio bisogno di scaldare il cuore, perché pochi sono i guizzi di felicità che accadono. Ma questa sono io. Ciascuno ha la sua sfumatura.

martedì 13 marzo 2012

Constatare pieni e vuoti

L'atto del constatare, come definisce il vocabolo, implica rendersi conto di qualcosa in modo diretto, quindi toccando con le proprie mani o vedendo con i propri occhi. Intimamente il messaggio arriva ma non sempre riesce comprensibile per la mente se non si è capaci di accettare ciò che si sta constatando. Altre volte accettare in toto ciò che si sta constatando porta a creare delle pareti entro le quali si può ristagnare. Quando un vuoto immenso, come una gigantesca ferita della quale sembra difficile riunire i lembi per ricucirli, vive in noi, per un periodo di tempo, lo si vive e si sta male, ma inizialmente non si sa definire esattamente questo vuoto. Con l'andare del tempo, rimanendo a contatto con tale vuoto, pur soffrendo sempre per mille motivi legati alla ragione che lo hanno originato, non solo per il vuoto stesso, si arriva, in certi casi, a constatare l'esistenza del vuoto e lo si vede bene, e questa chiarezza talvolta non è gradita. Non è gradita perché constatare il vuoto in questo modo lo rende una cosa ovvia e il primo pensiero di reazione è sentire il vuoto tanto incredibilmente reale da non vedere vie di uscita al dolore che il vuoto porta con sé. La strana paradossale caratteristica di un vuoto è quella di far soffocare come se si avesse un peso sul cuore. Un vuoto è anche pieno di noi e del nostro dolore, quel dolore che si prova per la causa del vuoto. Finché si rimane nella modalità nebulosa sembra di percepire un filo di speranza, che ci illudiamo sia nascosta da qualche parte fuori dalla nostra vista, e vogliamo credere che comunque ci sia. L'incertezza della definizione certa (scusate il bisticcio di parole) del vuoto permette ai confini del dolore di essere altrettanto nebulosi e questo, a sua volta, permette l'ipotesi di porte come uscite di sicurezza. La certezza, specialmente se enfatizzata come assoluta, distrugge la speranza. Quando si arriva a constatare si crea una certezza che, nel caso di un vuoto, aggiunge dolore, mentre nel caso di un pieno, così come si può definire tutto ciò che c'è ed è visibile e tangibile intorno a noi, inibisce la capacità di andare oltre l'apparenza e riduce la forza dei sogni. Tutta questa dose di realtà crea tanti piccoli tasselli trasparenti ma incredibilmente resistenti che, col tempo, la mente stanca di soffrire, o di sognare, utilizza per fare delle pareti, spesso involontarie, entro le quali ci sistemiamo senza accorgercene. Prima di pensare ad una qualsiasi soluzione per tornare a stare meno male serve arrivare a constatare, ossia a rendersi conto, cosa vediamo e sentiamo. E' un passaggio nel percorso evolutivo della comprensione. Quindi accettare il vuoto, se il cuore lo rifiuta, è un lavoro laborioso, lungo, che fa stare male ad ogni boccone ingoiato, fa piangere e più ci si sforza per cercare di accettare più si piange. Inutile dire il contrario o dire che va tutto bene, qui l'assenza di sincerità aggiunge peso al groppo in gola e sul cuore. Ok, vuoto, ti vedo, ma non pretendere che riesca subito a guardarti negli occhi. Servirà del tempo, così com'è per tutti, più che abituarsi, imparare a convivere con un qualsiasi vuoto personale, come un no assoluto, una presenza che non c'è più, una qualsiasi sofferenza che la vita disegna. E adattarsi non significa gettare la spugna come fossimo sconfitti, specialmente nel caso di gravi vuoti nella vita, semplicemente è riprendere in mano la gestione mentale dei confini, che ci sono apparsi lucidi e senza fessure, per disegnare con amore e pazienza una porta o una finestra a seconda delle proprie inclinazioni personali. Per non lasciare alla forza della constatazione di farsi ovvietà e di rubarci la possibilità di sperare ancora. Solo nel caso di no assoluti, laddove si constati non esserci davvero speranza per ricucire un qualsiasi dialogo, si provi a rilassare il respiro cercando di non affogare nelle lacrime che potrebbero scorrere copiose, ci si dia un contegno che per il momento non si ha, costringendo un qualsiasi muscolo del volto che ricordi come si sorride, a sorridere, in attesa che il tempo scorra ancora. Poi si provi a usare per il meglio la caratteristica del constatare i pieni, ciò che c'è, ma solo quel tanto che permetta ancora di vedere i confini della realtà che comprende i sogni. L'eccesso di constatazione dei pieni può aiutare a sostenersi dopo aver constatato un vuoto ma, raggiungendo l'altro estremo, in qualche modo, si ottiene un dolore di tipo diverso, ma pur sempre un dolore. Il dolore del vedere solo ciò che si presenta agli occhi senza andare oltre, dimenticando la fantasia, i colori, le possibilità che fanno respirare l'anima, dimenticando di credere nelle potenzialità che ciascuno custodisce sempre più in profondità fin quasi a rendere il tutto irraggiungibile.

venerdì 9 marzo 2012

Tiromancino - Imparare Dal Vento

Imparare dal vento

A ben osservare, il vento ha molte personalità a seconda della sua intensità, del suo calore, della direzione da cui proviene, come gli esseri umani, del resto. Oggi è una giornata di marzo non troppo calda, qui nella città dove abito, e il vento spazza le strade e le anime. Il cielo è azzurro e fa da sfondo a rami altissimi che hanno miriadi di gemme. Qualche fiore qua e là sugli alberi da frutto come promessa di quello che sarà, poiché la vita scorre sempre. Quello che mi ha colpito è stata la flessibilità dei rami sbattuti dal vento. Penso alla grandezza di un albero, alla sua vita che sembra scorra incredibilmente lenta, specialmente se si ha di fronte un esemplare secolare. Vedo quei rami sottili, eppure resistenti, che non possono fare altro che lasciarsi piegare dal vento che passa di lì. E non ci sono storie, l'albero non può spostarsi come faremmo noi se qualcosa che non ci piace ci stesse venendo addosso, e il vento non cambia direzione per fare un favore all'albero. Nella natura è scritta un'altra legge. Quindi l'albero si adatta con il suo essere flessibile fin quasi, se si osserva per un po', ad accarezzare il vento stesso, come se lo accompagnasse nel suo andare, nel suo passare attraverso i rami. E il vento va e basta, portando con sé tutto ciò che è, e tutto ciò che ha, perché sa che forse di lì non ripasserà mai in quelle identiche circostanze. Il vento non ha bisogno di chiedere nulla a nessuno, semmai è vero, qualche volta, il contrario, quando è al vento che gli uomini affidano i loro pensieri o i loro sogni o le loro preghiere. Il vento è affidabile e non tradisce perché mostra sempre se stesso così com'è. Il vento sostiene le ali di chi lo sa riconoscere come un alleato e, sfiorando il cielo e le nuvole, quando ci sono, insegna a non avere paura delle cose intangibili o di quelle che sono effimere, come lo sono le nubi. Il vento va e nessuno mai sa se davvero si estingue da qualche parte e poi rinasce o se esiste un unico mitico vento, magico come il sogno di un bambino, che si gonfia e si placa percorrendo tutto il mondo conosciuto. Il vento fa respirare perché sollecita questo su e giù dei polmoni che seguono il ritmo dello strato sottile di anima che li colora. E questo sottile strato di anima che colora i polmoni sa parlare con il vento. L'umile spazzino silenzioso e impeccabile di tutti i rifiuti fumosi delle macchine umane compie il suo lavoro e se ne va, lasciando il suo dono prezioso di ossigeno e azoto, l'aria rinfrescata e pulita, che gli uomini non sanno apprezzare abbastanza da mantenere. La forza del vento può toccare limiti non umani quando vortici plumbei e violenti spazzano luoghi nel mondo abitati e non. E l'anima si ritrae, sentendo questo urlo, e cerca un rifugio per evitare di essere travolta ma, come accade qualche volta nella vita, non sempre è possibile ripararsi, così vortici di vento ci investono e ci spaventano con la loro voce disumana. Poi il vento si placa di nuovo e, che sia memore o immemore di ciò che ha fatto, non è realmente importante perché ciò che conta è come siamo stati noi in sua presenza. Per imparare davvero non serve guardare ciò che ci viene addosso, o ci sfiora soltanto, attribuendogli colpe o meriti, serve poter vedere ciò che siamo noi o ciò che diventiamo in quel momento. Il vento passa e ci sconvolge o ci travolge, ci sconquassa, ci arruffa, ci spinge da qualche parte, ci carezza soltanto ma è ascoltando l'eco che il vento provoca in noi che impariamo a conoscere come siamo fatti, tramite le reazioni. Qualche volta la giacca a vento è utile e qualche volta no, sta a noi capire qual'è il momento adatto per indossarla.

domenica 4 marzo 2012

Darsi

Immaginiamo che l'amore sia una forza, o meglio un flusso quasi tangibile che scorre all'interno di un corpo così come avviene per la circolazione sanguigna. Per entrambi i flussi, quello del sangue e quello dell'amore, non si può negare la partecipazione del cuore. Il sangue irrora i tessuti con lo scopo di far arrivare ossigeno e nutrienti alle cellule così come accade all'interno del tronco di un albero quando la linfa vi scorre.
Se per molto tempo si rimane chiusi entro dei confini, propri o imposti, reali o immaginati, o supposti, questo flusso si interrompe e qualcosa inizia a fermarsi o a ristagnare. La conseguenza di questo stop è qualcosa che arriva fino in superficie ma rimbalza al di sotto di essa e come un'eco ritorna dentro. Come se la pelle divenisse uno schermo per gli impulsi dell'animo. Così questo qualcosa, definito o indefinibile che sia, a seconda della sua forza, se ne torna giù nel profondo, oppure svanisce, oppure si infrange ma le schegge che rimangono sotto pelle fanno male. Fa male anche quando tutto ciò che voleva uscire non ce la fa ad oltrepassare la soglia che incontra. Per combattere, in questo caso, serve la volontà di trovare il punto in cui, con un colpo solo, si possa riuscire a creare una microfrattura che poi dia origine alla corretta apertura. Un po' come essere il pulcino che da dentro l'uovo cerca il modo di uscire per nascere. Le rinascite interiori possono presentarsi anche con questa modalità e ciò accade se il flusso della forza del sentimento che si prova scorre senza incertezze. Questa piccola esplosione, come una fioritura in primavera, è la prima radice del darsi agli altri.
Le cose si complicano se con consapevolezza e volontà creiamo, non proprio dei confini, ma l'ambiente stesso entro cui dimorare. I confini sono barricate, possono essere singoli pensieri. Gli spazi completi, adibiti a proprio rifugio, invece sono formati da più di un pensiero, sono il modo di vedere che viene scelto come abile costruzione per proteggere in qualche modo se stessi, non contando il fatto che, qualche volta, questi spazi complessi dentro di noi sono il frutto di elaborazioni inconsce. Quando si abitano questi spazi non è mai facile darsi, non è facile nemmeno mostrare chi o cosa siamo davvero, perché gran parte di chi o cosa siamo è impegnata a mantenere eretti i muri che costruiscono tale abitazione. Per darsi, per condividere qualcosa di quello che abbiamo dentro di vero e sincero, serve che si sia, almeno un po', liberi da pensieri vincolanti. Non conta mostrare abilmente una facciata, darsi davvero è altra faccenda e non se ne comprende il significato finché non si lascia scorrere tutto ciò che proviamo, soprattutto ciò che si origina nel cuore. Mettere in gioco le parti di noi che riteniamo maggiormente vulnerabili è un atto di coraggio e di fiducia e il motivo per il quale non lo si fa spesso, oltre ad aver paura di soffrire, è anche voler tutelare quello che amiamo. Possiamo talvolta anche gridare al mondo intero che non ci piacciamo ma dentro, nel profondo sappiamo che non riusciamo davvero a non amarci, così elaboriamo complicatissimi sistemi di protezione come robuste tele di ragno nelle quali rischiamo di rimanere intrappolati anche noi qualche volta. E questo frena il flusso, interrompe il passo, distribuisce il tempo in tondo ed ostruisce le vie dalle quali passa la luce del cuore, principalmente verso se stessi. Ha ragione chi dice che per amare qualcuno bisogna prima saper amare se stessi.
Per imparare a darsi non serve avere fretta, basta iniziare e, ascoltando i battiti del cuore, seguire l'ispirazione.

Luca Carboni - L'Amore Che Cos'è

giovedì 1 marzo 2012

"Mi fai venire voglia di essere una persona migliore"

Prendo spunto dalla frase che pronuncia Jack Nicholson nel film "Qualcosa è cambiato" quando Helen Hunt gli chiede di farle un complimento. Mi colpiscono queste parole perché fanno capire bene dei sentimenti che non sono facili da esprimere. Non ho visto questo film al cinema, nell'anno in cui uscì nelle sale, l'ho visto molti anni dopo in televisione. Ho sentito vicina questa frase per ciò che esprime perché mi è capitato di provare questa forza, questo desiderio di cambiare qualcosa di me. Non è che quando ho sentito questo non mi piacessi, semplicemente non mi vedevo in modo definito, vivevo la mia vita, abituata alle abitudini. Quando ho incontrato, nove anni fa, questa persona speciale, ho sentito una grande forza dentro di me e con il cuore e la mente in subbuglio mi sono innamorata. All'inizio non capivo come mi sentivo, ero felice di averlo incontrato, mi faceva stare bene senza sapere perché dato che non ci vedevamo quasi mai. Non era nulla di ciò che faceva o diceva all'origine di questi battiti del cuore impazziti. Eppure dopo le rare volte in cui lo vedevo mi sentivo diversa dentro, quanto bastava per accorgermi che in me c'erano cose che avevo trascurato o che non mi piacevano. Non mi trovavo più a mio agio con i miei soliti modi di fare e ne vedevo alcune pecche. Tuttora, pur essendo io responsabile di aver rovinato ogni possibilità di comunicazione, principalmente a causa dei miei modi ancora non totalmente modificati in meglio, mi fa ancora venire voglia di essere una persona migliore. Quando guardo indietro trovo una me che sentiva, come sente ancora oggi nonostante tutto quello che è esistito, questa strana forza dentro legata a del calore buono. Nove anni fa ero stanca, ingrassata troppo, a detta di qualcuno dimostravo dieci anni di più, ma l'aver sentito rinascere un fuoco dentro, che avevo dimenticato, soprattutto con la meraviglia che questo risveglio fosse determinato dalla stessa persona che avevo perduto di vista sedici anni prima, da ragazzina, era fonte di gioia pura. La vita poi non va quasi mai come si vorrebbe quindi rimangono cose non dette e cose ancora da dire ma il senso profondo rimane e non perde di significato. Nove anni fa questo sentimento mi ha fatto venire voglia di prendermi maggior cura del mio aspetto che non era solo per far colpo sulla persona in questione, anche se in parte inconsciamente scopro che era così, era una cosa diversa, era un soffio di vita stessa, mentre sull'aspetto di come rapportarmi agli altri sto ancora lavorando, sulla scia di quello che ho sempre provato, sulla scia di questa forza positiva che talvolta un altro essere umano riesce ad innescare dentro un cuore. E non ultimo, tutto questo, fa sentire il coraggio di credere ancora in qualcosa e di essere in grado di affrontarla, sentire dentro di potercela fare a compiere anche un passo che, con la sua impronta, potrebbe segnare un tempo nuovo.