venerdì 28 ottobre 2011

Poter contare su chi ti vuole bene

L'idea per questo post di oggi mi è giunta dalle parole di nonno Egidio, classe 1913, che mi raccontava di aver visto in tv un commento fatto per una persona che compiva cento anni. Il senso del discorso era che, per arrivare bene a festeggiare il secolo o, in senso più ampio, per stare bene comunque di anno in anno, specialmente dirigendosi verso le molte primavere, si deve aver cura di coloro che ci vogliono bene. Chi ti ama è una risorsa preziosa che ti permette di vivere "con l'animo disteso", così ha detto il nonno. Concordo con lui. Mi faceva capire che arrivando alla sua "giovane età", come la definisce lui, quando tanti amici coetanei non ci sono più, ma restano solo discendenti che hanno vite con poco spazio per tali giovanotti, se discendenti ce ne sono, avere persone intorno che ti regalano un sorriso, un po' di compagnia anche se non così spesso, un aiuto quando serve, è davvero importante, se non vitale. I giorni scorrono con un ritmo lento e sempre uguale ma se hai l'animo disteso dall'affetto di qualcuno camminare ancora è meno faticoso. Credo comunque che ciò valga per qualsiasi età. Essere a conoscenza di vivere nel cuore di qualcuno, se non infastidisce, è una bella fonte di energia e di calore, al tempo stesso sai sempre che chi ti ama è disposto a saltare giù dal letto, anche nel cuore della notte, per venire a darti una mano. Il cuore sa sempre di chi potersi fidare e lo potete capire lasciando aperto un canale di sensazione non codificabile da parole, dove la mente sia necessariamente interdetta, per far posto al vero sentire a pelle, e non solo. Riconoscere vero qualcosa non passa mai dal distretto della testa, lo si sente con il corpo, tutto il resto sono approssimazioni magari utili, ma incomplete. Questo non è un fatto negativo, così come non è sbagliato riconoscere il vero attraverso il ragionamento, è solo una cosa diversa. Quando decidiamo di dare ascolto a certe sensazioni che sentiamo fortemente avere a che fare con la vibrazione del cuore sappiamo, con buona dose di certezza, che siamo sulla lunghezza d'onda giusta. Così amando, così riconoscendo chi ci ama, così imparando ad avere cura di noi stessi per poter continuare ad amare e per potersi mantenere vivi per coloro che ci amano. Elisir di lunga vita.

giovedì 27 ottobre 2011

Forme di decisione

Ho provato ad analizzare ulteriormente l'argomento facendomi uno schema. Non è una classifica definitiva, è solo un modo per esplorare il solito argomento da un altro punto di vista. E, come sempre, si tratta solo del mio parere. Credo che si possa partire suddividendo i tipi di decisione in due categorie principali che dipendono dall'essenza del movimento che generano: le decisioni statiche e quelle dinamiche. Le decisioni statiche comprendono le prese di posizione che portano ad impuntarsi su qualcosa per non smuoversi da lì, mentre le altre si suddividono in decisioni per andare avanti e in decisioni per tornare sui propri passi, una sorta, queste ultime, di decisioni che cancellano quelle precedentemente prese. Questo come panoramica generale. Il denominatore comune ad ogni decisione è sempre la volontà personale diretta al proprio scopo. Se poi si volesse indagare ancora direi che mi vengono in mente, figurandomeli, tre modi di decidere, uno lo definirei come la forma del tuffo, un altro come il cammino, un altro ancora come lo sfondamento, per quanto riguarda le forme dinamiche. Se vi siete tuffati, qualche volta nel corso della vostra vita, ricorderete che prima eravate in un luogo e poi, un attimo dopo esservi tuffati, vi trovavate in un altro completamente diverso. Prima aria e poi acqua e, se ci pensate bene, potete notare due cose fondamentali: la prima e più immediata è la differenza del mezzo nel quale siete immersi, completamente circondati da esso, la seconda è che nonostante ci si questa differenza, ciò che non cambia è l'essere completamente circondati da qualcosa. Metaforicamente parlando, essere immersi in qualcosa è paragonabile al modo in cui viviamo, poiché siamo immersi nel  corpo e nella vita che in esso scorre e siamo dentro ai nostri pensieri, ai vari ragionamenti che facciamo costantemente, così una forma di decisione, che prevede di tuffarsi in qualcosa, mi suggerisce l'immagine di qualcuno che porta tutto se stesso laddove ha deciso di andare e lo fa accettando di non lasciare neppure un capello dall'altra parte. Una sorta di piena accettazione dell'atto decisionale, come può capitare quando si vuol cambiare modo di vivere. Tenendo ancora presente la metafora dell'acqua come mezzo di destinazione direi che essa rispecchia un po' l'idea della componente di ignoto che ci si trova comunque ad affrontare. Che si tratti di acqua di mare o di una piscina, quando ci siamo dentro, ci troviamo senza poter toccare un punto fermo con i piedi, almeno all'inizio. La prima reazione dopo il tuffo è quella di lasciare che il corpo torni in superficie per poi eventualmente nuotare. E in quel momento non si sa quale sia la direzione da prendere poiché ogni centimetro della nostra pelle è lambito dall'acqua. Ne siamo immersi ma non la conosciamo bene come conoscevamo bene l'aria alla quale eravamo abituati fino all'istante prima di tuffarci. Credo che i tipi di decisione dove si accetta tutto, anche mettere in conto le incognite richieda molto coraggio, esattamente quello di un tuffatore.
La forma decisionale del cammino è abbastanza intuitiva, appartiene a coloro che nonostante tutto preferiscono non cambiare totalmente ciò che hanno per non perdersi, per poter mantenere d'occhio l'orizzonte e per poter sperimentare due diverse opzioni che si accompagnano a questo tipo di decisione. Coloro che camminano scegliendo di guardare solo avanti e mai più indietro e coloro che viaggiano avanti ma ogni tanto si voltano per dare uno sguardo al passato. Camminare è per chi ama avere sempre il controllo del proprio passo, per chi è radicato in qualcosa e per chi ritiene che il pensiero di dover recidere certi legami sia distruttivo in un modo, al momento, inconcepibile.
La forma decisionale che prevede varcare un ostacolo senza aggirarlo né saltarlo è una delle più difficili da vivere, forse non per la consapevolezza da sviluppare per affrontarla ma per lo sforzo richiesto per non cedere mentre si va avanti. Spesso il mezzo da "sfondare" è nei casi peggiori colloso o elastico e resistente ai vari tentativi, così come potrebbe essere un vizio dannoso. Questo tipo di decisioni sono quasi sempre la volontà di cambiare noi stessi una volta scovato quello che riteniamo un difetto che non ci permette di vivere serenamente. Combattere contro se stessi richiede sempre una dose immensa di forza di volontà e la decisione, in questo caso, deve essere supportata da un valido motivo che permetta di riuscire nell'impresa. E quando si riesce ad andare oltre il proprio ostacolo, perché la resistenza del mezzo con il quale ci siamo misurati ha perso la partita contro la nostra forza di volontà, ciò che si prova è la carezza della serenità come promessa di speranza per il nuovo presente che abbiamo determinato con la decisione di sfondare la barriera che avevamo davanti.

Red Hot Chili Peppers - Road Trippin'

Un'occhiata al mondo da dietro l'angolo

Se non si vive costantemente esposti, ma si conduce la propria esistenza da un punto protetto può capitare, qualche volta, di sporgersi un po' nel mondo per la curiosità di vederlo più da vicino. Parlo di quel tipo di curiosità non troppo invadente, quella accompagnata da un sorriso complice e disarmante fatto a se stessi perché ci viene da ridere per come siamo goffi nell'affrontare qualcosa che scopriamo desiderare ma che non abbiamo mai avuto il reale coraggio di assecondare. Questo è il modo in cui mi sono sentita oggi. Io che muovo i miei passi sempre guardando dove sto camminando, valutando il terreno per prevedere se ci sono buche, oggi mi sono scoperta a camminare senza badare a dove mettevo i piedi, metaforicamente parlando. Così, navigando col pensiero in mezzo ad un'idea nuova, ad un proposito nuovo, non sapendo bene cosa aspettarmi, mi son messa a fare progetti. Magari domani mi alzerò come sempre, tornando abbastanza in me da convincermi che potrei fare una cosa sciocca, enormemente sciocca, ma stasera l'idea ha continuato a nutrirsi da sola così mi sono sentita sporgere dal solito angolo dove ho messo un po' delle mie radici, per potermi proteggere adeguatamente, ovviamente secondo il mio personale canone di riferimento. Osando sporgermi col pensiero automaticamente mi son sentita sporgere tutta verso una parte di mondo che non conosco, che mi è estraneo. Quel che provo è un misto di paura e mancanza di essa, non per incoscienza ma per l'esatto suo contrario. La paura è la mia ancora per evitare di sporgermi talmente da non saper più tornare indietro, mentre la mancanza di paura è data dalla forza del desiderio che, quando si manifesta, non ha alcun limite per se stesso, così come accade per ogni sogno che nutriamo con tanta parte di ciò che siamo. Il limite lo pone la mente ragionante, che mette in fila pro e contro e stila classifiche ed usa statistiche per premettere all'anima di sporgersi o meno oltre il proprio rifugio o soltanto oltre il luogo riparato dove abitualmente sta. Il cuore e il fuoco della passione donano le ali ai sogni, null'altro. Poi, comunque, sempre che lo si riconosca giusto, si deve qualcosa al nostro essere in questo mondo, che vorremmo poter vedere più da vicino con maggiore pienezza di significato tanto da raccogliere direttamente, a contatto con esso, le sue possibili avventure scritte per noi, dunque gli dobbiamo un'ulteriore riflessione. Soppesare quanto egoismo permei la decisione che vogliamo prendere, poiché essa avrà comunque un impatto, non solo sulla nostra vita ma anche su quella di qualcun altro. In certi casi è così, se non siamo totalmente soli e senza alcun legame. Nessuno dice di rinunciare ad un sogno o, in scala minore, ad un semplice desiderio da realizzare, anzi, far vivere i propri sogni è fortemente raccomandato per non morire dentro, ma è la modulazione della forza che mettiamo nella volontà di realizzazione di qualcosa alla quale teniamo che conta, per muoversi con grazia e intelligenza nel mondo. E questa è la teoria, anche se per me, al momento, ogni movenza è a dir poco sgraziata. Mi limito ancora a mettere solamente la punta del naso fuori, per annusare il mondo così vasto, perché ciò che ho imparato mi permette di conoscere solo una parte di esso e questa parte non è quella che ha a che vedere con la sua componente materiale. Il mio mondo mentale, il mio palazzo fatto di pensieri e intuizioni, talvolta giuste, talvolta no, mi protegge su questo piano e se mi sporgo da un angolo di esso, per vedere quello che ancora non conosco, perché non l'ho ancora sperimentato, è un fatto da comprendere, pur non essendo facile convincere me stessa che ci sono altri lati inesplorati tra le file dei desideri che mi compongono. Può darsi che decida di fare la cosa che vorrei fare oppure comprenda che non fa per me perché la riconosco essere un guizzo momentaneo, non importa, perché comunque il tempo scorrerà, con me che continuo a vivere e pensare finché non comprenderò davvero la cosa giusta. E riconoscere davvero la cosa giusta è un atto che fa capo al cuore, come dico sempre. Lì ogni cosa sembra chiarirsi e prendere vita da sola e, se accade questo, e lo sentite così, avrete la risposta che state cercando, saprete che state decidendo o avete deciso nel modo migliore, saprete tutto ciò che serve per capire dove dirigere il vostro stesso cuore, saprete perdonare, saprete l'indirizzo della pace, tanto per citare le cose più importanti, se anche voi le ritenete tali, e avrete sempre un flusso di energia in più per nutrire i vostri sogni.

mercoledì 26 ottobre 2011

Prendere una decisione

Quando ho bisogno di comprendere bene qualcosa, cerco mentalmente di suddividere i componenti del concetto, dopo averli individuati, per aggiungere ulteriore comprensione riferendomi al singolo significato di ogni cosa. Quindi unisco il tutto come fossero gli ingredienti di una ricetta e ho una panoramica abbastanza estesa di quello che sto cercando di capire. Questa è la premessa per affrontare la vastità del concetto di decisione, per parlarne un po' qui. Quando siamo chiamati a prendere una decisione significa che il sentiero che stiamo percorrendo sta per cambiare aspetto strutturale, almeno in parte. Magari cambia il paesaggio o ci si trova davanti ad un bivio, se non a più strade che si diramano, oppure finisce la parte in piana e inizia quella scoscesa, o viceversa, questo per sintetizzare e rendere metaforico un vasto campo di opzioni. Dunque, in un dato momento, ci ritroviamo in un punto in cui il flusso regolare del nostro scorrere quotidiano richiede riflessione e presenza. Una decisione, di qualsiasi tipo essa sia, modifica comunque il proseguo del cammino, con più o meno enfasi, ma pur sempre definendo un diverso ritmo del passo, anche solo per pochi istanti. E' un punto cruciale, secondo me. Ciascuno sa bene come si sente quando si trova a tu per tu con una decisione da prendere. Prendere significa compiere l'azione di raccogliere qualcosa per portarla con me e "prendere una decisione" significa anche portare con me la consapevolezza di aver deciso, non poi così diverso dal sapere di essere responsabile della decisione stessa. In tutto questo, nel punto di viraggio, si incontrano il prima e il dopo l'atto di volontà che definisce il decidere. E come siamo definisce come ci sentiamo prima e dopo. Come si arriva al punto della decisione dipende non solo dalla propria volontà ma anche da fattori esterni, qualche volta ci arriviamo volendo arrivarci e qualche altra ci arriviamo nostro malgrado. Quello che non cambia, arrivati a questo punto, è l'affrontarlo. Si va avanti, prendendo una decisione che porta una qualche modifica, o ci si può rifiutare di decidere proseguendo come sempre, ma credo non sia del tutto sbagliato affermare che, comunque, nel caso del non decidere, si sia paradossalmente presa lo stesso una decisione. Si è presa la decisione di non decidere. Decidere può infastidire, spaventare, essere estremamente difficile, ma è ciò che allena la volontà per arbitrare se stessi. Quando si è confusi, trovarsi nel momento di dover decidere qualcosa è una spiacevole sensazione, specialmente se siamo coscienti di questo e se siamo persone che vorrebbero sempre prendere la decisione giusta, quella che porta a proseguire il cammino sul sentiero meno accidentato. E qualche volta si sbaglia, pur avendo creduto di scegliere bene. Non siamo perfetti né infallibili anche se spesso viviamo con alte aspettative su molte delle cose che fanno parte del nostro mondo personale. Dunque possiamo concederci tempo per prendere una decisione per cercare di limitare eventuali errori. C'è chi vive prendendo quotidianamente decisioni, anche importanti, e chi rimanda o vive nel dubbio costante. E qualche volta si possono capovolgere pure questi casi laddove certi frangenti rendano l'uno indeciso e l'altro determinato. Dunque, c'è solo sempre quel punto strategico della presenza umana con tutta la sua mole di pensieri e sentimenti, in cui siamo lì da soli con noi stessi, faccia a faccia con quello che conosciamo di noi fino a quel momento e, compattando tutto in un unico bagaglio a mano, cerchiamo di attraversare la strettoia attraverso il canale della volontà decisionale, per ricomparire di là incolumi il più possibile con ancora il bagaglio in mano per andare avanti, spesso combattendo il rumore di fondo che si insinua sotto pelle per la paura di aver preso la decisione sbagliata. Poiché si tratta di un momento abbastanza delicato, averne cura sembra la cosa più saggia da fare, anche se qualche volta proprio da decisioni rapide nascono le cose che ci rendono più felici. La mente pondera, il cuore segue il calore e la luce, la pancia scalpita, comunque sia se nel prendere una qualsiasi decisione riusciamo a riconoscere qual'è, in quel preciso istante, la cosa migliore da fare o da dire, saremo certi che avremo messo piede sul nuovo tratto di sentiero che ci attende, anche se per il momento non riusciamo a riconoscerlo.

lunedì 24 ottobre 2011

Un altro posto vuoto nel mondo

E' una notizia. Arriva, sconvolge, lascia tutti con un colpo diretto allo stomaco da incassare. La morte di qualcuno è sempre una notizia di questo tipo. Il metabolismo mentale si disconnette per un po' poi riparte, se va bene, senza il rigetto dell'idea, senza il rifiuto per il dover accettare che certe cose accadano senza poter far nulla per impedirle in qualche modo. Se non va bene, non ci sono parole, i sentimenti si annodano tra loro e si sta solo molto male. E se va bene, a quelli che stanno intorno, restano in mano le parole e i pensieri che cercano la forza per incanalarsi nel dare calore dove questo viene a mancare, dove la sospensione del respiro generata dall'impatto violento con la realtà dei fatti ha creato il gelo in chi viene toccato personalmente dall'evento. Un ragazzo, un motociclista, oggi se n'è andato. Così come è già accaduto e così come NON accadrà di nuovo in futuro, se potesse essere sufficiente dirlo con tutta la forza della volontà che c'è in ogni persona che prova questo sentimento. Qualcuno dice che chi lascia la propria vita nell'attività che ama in fondo sa a cosa va incontro, mettendolo forse in conto tra i rischi del mestiere, come se pensare a questo velato alibi contro la realtà del pericolo che, spietato, non riconosce nessuno, si possa stare meglio. Forse per qualcuno è vero così, e ciò aiuta a non morire di dolore, per poter continuare a credere che si può correre fin quasi a superare il vento, per misurarsi con se stessi e con gli altri, per l'adrenalina che scorre e nutre la voglia di volare e di toccare il limite, per sbirciare oltre da quel punto di vista privilegiato e tornare a terra prima di ripartire per la prossima avventura, la prossima gara, la prossima sfida. Tutti allora ricordano che l'atleta era anche un uomo e per quanto eccellesse nella sua specialità era sempre un uomo, con una famiglia, dei legami, con le cose che amava e che pensava. Lui c'era e occupava un posto nel mondo, in mezzo agli altri. Sorrideva, amava, viveva. Adesso un errore lo ha portato via. Sì, un errore, e non importa di chi o dovuto a cosa, personale, altrui, perché non cambia il non esserci più. Quello che resta è solo un altro posto vuoto nel mondo e mai nessuno, davvero, potrà mai occuparlo. Ogni volta che accadono eventi simili tra loro, questo ripetersi dovrebbe entrare dentro ogni mente per rimanere stampato a fuoco nella coscienza quotidiana, come monito per comprendere fino in fondo senza mezze misure che qualcosa può cambiare. Se valutiamo che l'attenzione in noi è carente, ok, d'ora in poi rallenteremo anche soltanto una frazione di secondo per permettere una migliore gestione dell'azione che richiede l'attenzione e ci impegneremo a intensificarla. Ne va sempre della vita. Questo non vale solo per l'attenzione, è un esempio, il senso è guardare bene per accorgersi dove sta il punto debole per insufflarci nuova energia, per proseguire in sicurezza, non per continuare a correre per il mero gusto di farlo, ma per continuare a correre con un occhio rivolto alla salvaguardia della vita così, se si rivelasse necessario, potremmo decelerare senza alcuna rinuncia. Dopo, vorresti rimediare dopo l'accaduto, vorresti tornare indietro nel tempo per distruggere il bolide della persona cara, vorresti dirgli di rimanere a casa quel giorno, vorresti tante di quelle cose che tutte insieme non riescono a stare nella mente oppure vorresti soltanto aver avuto più tempo per salutarlo se poi ti convinci che solo cavalcando il suo sogno poteva stare bene... Chi resta deve aggiustare gli spazi dentro di sé per trovare un equilibrio che impedisca di impazzire quando il pensiero torna lì. Se poi accade un fatto simile, la storia dunque si ripete, il dolore si risveglia, così oggi andandosene Marco si è risvegliata la memoria del giorno in cui se n'è andato Nicolò. Nicolò, un ragazzo che ho conosciuto, Marco, un ragazzo che non conoscevo, ma non vedo la differenza, purtroppo entrambi hanno lasciato vuoto il loro posto nel mondo...

sabato 22 ottobre 2011

George Michael & Aretha Franklin - I Knew You Were Waiting (For Me)

Malumori e comprensione

Solitamente essere di malumore significa far spuntare un bel po' di spine che andranno a pungere chi ci sta intorno proprio in quel momento. I motivi sono i più disparati e la gamma di sfumature di violenza di reazione o di velocità della stessa non si contano. Quando siamo di malumore si reagisce male, è lapalissiano. Siamo concentrati sulla nostra sofferenza, sul nostro fastidio, che se ne comprenda o meno con chiarezza l'essenza, e ciò che mostriamo agli altri non è certo il nostro lato migliore, semplicemente perché in quel momento siamo occupati ad ascoltare la vibrazione disarmonica che abbiamo dentro, da qualche parte. E più avvertiamo di essere incapaci a definire esattamente la posizione di questa vibrazione non armonica più aumenta il fastidio. Sappiamo solo che stiamo male, o così così, o ci sentiamo uno schifo tale che qualcosa smette di funzionare nella capacità di comunicare con le persone attorno a noi e il risultato va dal dire cose che non pensiamo davvero, anche se lo scoppio di rabbia momentaneo ci guida la parola, al compiere azioni che mai compiremmo se fossimo in noi. Il malumore prolungato è deleterio come quello intenso e momentaneo perché comunque in quel tempo non siamo in sintonia con noi stessi e non siamo davvero noi. E' vero, fa parte di noi, ci definisce in quell'istante, ma non "siamo" noi. L'essere noi discende da ciò che ci definisce nel tempo, nel susseguirsi dei giorni, nella sintesi tra quelli belli e quelli brutti, da come ci rialziamo se cadiamo, da come impariamo ad imparare e da come riusciamo ad insegnare, da come ci inseriamo, nel corso della nostra stessa storia, su questo mondo, dalle cose che riteniamo davvero importanti, da quello che comprendiamo essere la differenza tra bene e male, da tutte queste cose nasce il nostro "essere". Uno scatto d'ira, il malumore, il fastidio che genera ulteriore fastidio in un vortice ascendente non sono ciò che ci definisce se non per quel momento che, saggiamente, non dovrebbe essere preso come l'unico istante in cui abbiamo vissuto ciò che siamo, senza una storia precedente fatta di istanti completamente differenti. Quello che ho scelto di vedere degli altri nasce dalla riflessione che la vita è composta da una serie di momenti diversi, quelli buoni e quelli meno buoni, non mi piace farmi un'idea della persona sulla base dei singoli momenti, preferisco mettere insieme tutto ciò che mi viene mostrato pur mantenendo comunque il canale dell'osservazione sintonizzato sul cuore delle persone, piuttosto che sulla loro sola apparenza e sul loro modo di inserirsi nel mondo. Questo mio andare oltre ha dei vantaggi ma anche degli svantaggi. Per apparenza, per precisare,  intendo la somma degli atteggiamenti dati dalle abitudini, dai modi di fare che non ci appartengono davvero, da quelli che invece ci caratterizzano perché nascono più nel profondo, e molto meno da come ci si veste o ci si esprime, in altre parole la "maschera" che usiamo per vivere in mezzo agli altri, senza intendere con quest'ultima parola alcun significato negativo, ma solo oggettivamente riconoscere quel qualcosa che più o meno tutti sviluppiamo diventando grandi. Se dunque si salta la maschera, nei casi positivi, si può trovare una sintonia profonda con le persone e, per comunicare, basta davvero poco quando l'anima si aggancia da cuore a cuore e da sguardo a sguardo. Negli altri casi andare oltre la maschera di qualcuno è come invadere una privacy, come commettere una violenza poiché l'altro, se ha bisogno di sentirsi al sicuro dietro le cose che ha messo su per proteggere ciò che fa parte della sua anima più profonda, si ritrova nudo suo malgrado. Comunque, per tornare al discorso dei malumori, come ho scritto nel titolo del post, c'è bisogno di comprensione e questa, in me, discende dal mio modo di essere, perché quando vado oltre l'apparenza di cui parlavo, nello spazio dove vibra la verità di ciò che siamo, trovo solo quella che riconosco essere una difficoltà momentanea e, nel caso si trattasse di qualcosa di più grave e duraturo, vedrei solo sofferenza e vorrei poter comprenderne il perché. Questo dico da spettatore del malumore altrui, quando si presenta, perché credo fermamente nelle seconde occasioni, ma anche nelle terze e quarte, e anche un po' più in là. A prescindere da questo, quando sono di malumore io, benché cerchi di trovare prima possibile il bandolo della matassa per tornare a sentirmi me stessa in armonia, vorrei incontrare o avere vicino persone altrettanto capaci di comprendermi e perdonarmi per qualsiasi cavolata stia dicendo o facendo. Se non ci comprendiamo proprio nei momenti peggiori come possiamo convivere consapevolmente con qualcuno? Non siamo ventiquattr'ore su ventiquattro perfetti, splendenti, pacifici, disponibili, amabili, gentili, non lo siamo e neppure dovremmo aver paura di ammetterlo anche se l'ego subirebbe un piccolo affronto. Per rilassare l'anima serve solo ammettere che parte dello spazio che abbiamo dentro è per i momenti di malumore propri ma soprattutto per quelli altrui, per potersi comprendere davvero e stare sereni in compagnia degli altri. Una volta avevo paura del malumore altrui, non della rabbia, poiché quest'ultima l'ho sempre voluta combattere a spada tratta, anche se paradossalmente vivendola io stessa, facendomela passare attraverso, arrabbiandomi, ma il malumore altrui, generato da un fastidio o da una sofferenza magari fisica che porta a "ringhiare" parole aspre, mi colpiva più di quanto volessi. Negli ultimi tempi ho notato che il pugno che mi arriva dritto allo stomaco in questi casi ha perso potenza di impatto, forse perché ho imparato a considerare un po' più di spazio in me per il malumore altrui. Forse ho allargato un po' la pista del rispetto per gli altri, rendendomi così conto anche di un'altra cosa, che prima non ne avevo così tanto come credevo.

martedì 18 ottobre 2011

Elvis Presley - Are You Lonesome Tonight

Il valore del presente

Qualcuno dice che il tempo sia un'illusione, qualcun altro trova che il tempo esista come entità reale. Credo che ci siano, come sempre, molte sfumature per questo pensiero che deriva, non soltanto da ciò che viene riconosciuto come reale dalla moltitudine, ma anche dalla percezione personale. Si può accettare il pensiero comune e usarlo come linea base per lo sviluppo del nostro pensiero, senza preoccuparsi di rivedere il concetto, poiché non siamo tutti degli studiosi. Va bene, l'orologio è un oggetto indispensabile, e con sé porta l'abitudine alla consequenzialità, e da questo discende la forte consapevolezza che ci siano un passato, un presente e un futuro. Il prima dell'adesso, l'adesso e dopo l'adesso. Mi ha sempre affascinato pensare al tempo e alle sue caratteristiche. Ciascuno poi ha le sue preferenze e, che si scelga o meno di vivere un determinato tempo proiettandosi indietro, in avanti, o rimanendo nel presente, ogni cosa che accade avendo a che fare con esso è sempre un'esperienza importante. La mia osservazione di questo strano nastro che c'è ma non si vede davvero, se non per ciò che lo delimita e lo descrive, mi fa prediligere il presente. Forse l'influenza di alcune letture filosofiche, non so, forse l'averle fatte passare dentro di me per verificarle mi ha fatto capire che lo strumento che misura il tempo in realtà è uno strumento che segna un ritmo. Se chiudete gli occhi avvicinando un orologio non digitale all'orecchio potete sentire solo tic tac tic tac tic tac. E' la vista dunque di uno scorrere sequenziale di numeri ciò che crea, passatemi la parola, l'illusione dello passare del tempo. Senza vedere questo sarebbe solo un ritmo e non sapremmo altra informazione a proposito del tempo. Non ci sarebbe un passato, così come lo intendiamo, né un futuro così come lo crediamo. Ci sarebbe un eterno presente fatto di un rumore che si ripete nell'attimo nel quale lo si ascolta. A questo punto, aprendo gli occhi, il mondo intero, con tutto ciò che mostra e con tutto ciò che ha accumulato come informazioni, mi assale e mi fa dimenticare questa breve intuizione, così ritorno con i famosi piedi per terra e guardo l'orologio per non fare tardi ad un certo appuntamento. Questa è un'opzione possibile. Il giorno che ho riaperto gli occhi, dopo questa riflessione sul tempo e gli orologi, non ho dimenticato e ho imparato a vedere le cose da un altro punto di vista. Semplicemente mi ci trovavo più a mio agio rispetto al pensare comune. Così adesso uso l'orologio solo perché vivo in mezzo agli altri, per aver rispetto del vivere che ci accomuna, per non deludere chi mi sta aspettando con il mio ritardo, per organizzare il giorno in modo da essere abbastanza efficiente per portare avanti le cose della vita. Per il resto, dentro di me, c'è un costante presente fatto dell'attenzione per quello che si può fare adesso, e soprattutto, a livello più profondo, per quello che posso fare usando la volontà volendo dare il meglio di me. E dare il meglio di se stessi richiede attenzione e cura lavorando per riprendere tutte quelle appendici del nostro pensiero che stanno nel passato o nel futuro, ovunque tranne che qui e adesso. E non si immagina mai, senza averlo sperimentato, quanta energia e lucidità si possono recuperare, stando con la volontà nel presente. La mia tendenza a farmi prendere la mano dalla malinconia, a ciò che ho perduto, mi portano talvolta nel tempo passato, o meglio, nelle immagini della memoria legate a ciò che è stato. Vi indugio, ci rimugino, e mi perdo un po' da quelle parti, poi mi ricordo della forza del presente, anche se non dimentico, e torno qui nell'adesso per averne cura come meglio posso perché so che solo così, una sequenza di buoni e positivi "presente", mi daranno un futuro migliore. Pur non sapendo, comunque, cosa accadrà come eventi specifici, so che il futuro sarà solo il presente da venire e se mi riesce di essere presente nel Presente sono sicura di portare con me più consapevolezza e più energia. Non mi stancherò mai di ripetere che l'onestà verso se stessi e verso gli altri è un valido metodo per andare a letto la sera senza rimorsi né rimpianti, per potersi alzare al mattino con la possibilità, senza impedimenti dati dall'attaccamento del pensiero verso lo ieri, di vivere meglio nel presente. In quest'ottica mi è sempre piaciuto pensare, forse poeticamente, al fatto che ogni giorno non è davvero un frammento di tempo che viene dopo il precedente, ma è solo una nuova occasione di vivere l'unica possibilità che abbiamo a disposizione per recuperare qualcosa se abbiamo sbagliato, o di rinnovarla, o di risistemarla, o di perfezionarla, di crescere paradossalmente in riferimento allo ieri, e il giorno, anche se i colori cambiano, se gli eventi spesso non si ripetono, se le persone e le cose cambiano, si modificano, nascono o muoiono, è sempre lo stesso spazio temporale che abbiamo, null'altro che un'occasione di vita nella luce del giorno, al di là di qualsiasi mirabolante attività umana che non tenga conto del nome dell'ora nella quale si svolge.

domenica 9 ottobre 2011

Gemme di pece, gemme di pace

Se fossimo un albero centenario sapremmo stare dritti durante le tempeste perché il tronco sarebbe robusto e la memoria sosterrebbe il presente con la conoscenza. Però non potremmo spostarci se un fulmine arrivasse a colpirci. Un essere umano cerca riparo durante la tempesta, corre e si sposta fino a trovare rifugio lontano dal luogo dove i fulmini cadono. Il primo è ancorato alla terra e ne trae nutrimento con le sue radici che non dimentica mai, l'altro percorre la terra in ogni direzione, non è ancorato a nulla eppure si attacca a tutto per poter vivere, o meglio per non morire, poiché spesso dimentica le sue radici, i suoi contatti con la terra e con il cuore. E la tempesta quando si presenta non fa distinzioni tra l'uomo e l'albero. Intensità e violenza che strapazzano ciò che incontrano, l'una realtà di acqua dal cielo, l'altra metafora che si colora di significati differenti per ciascun essere umano. E come l'albero anche l'uomo mette gemme nel suo tempo di transizione, quando cambia qualcosa nel suo mondo. Se per l'albero il tempo decretato per le gemme è la primavera nei climi temperati, per l'uomo il clima viene determinato dalle circostanze e da ciò possono derivare o meno delle gemme. Se l'albero emette gemme comunque ad un certo punto dell'anno, l'uomo, escludendo la metafora di un figlio, può dare, se le produce, sostanzialmente due categorie di gemme. In questo caso le gemme sono la reazione che viviamo quando si scatena la tempesta. Parlo della tempesta perché gli avvenimenti positivi nel corso della vita umana, sintetizzando molto, portano sempre il proseguire con serenità il percorso preesistente o una svolta in meglio. Questo dominio luminoso non prevede praticamente mai reazioni negative. Sono le tempeste, in genere, gli eventi che mettono alla prova la reazione umana e determinano il tipo di gemma che ne nascerà in seguito. Così possono esistere gemme di pece, oscure, globose, appiccicose, piene di dolore stagnante, che daranno rami arrabbiati, violenti, instabili, che si seccano facilmente. E infinite sfumature a seconda del carattere di ciascuno, della forza e della volontà di reagire, eventualmente, alla consapevolezza del malessere provato. Poi ci sono le gemme di pace, che nascono da tronchi ugualmente martoriati dalle tempeste ma non hanno sangue rappreso, gelato nella ferita ricevuta. Riescono così a nascere gemme di pace che daranno rami verdi e flessibili, ricchi di linfa vitale dai quali si può star certi nasceranno fiori ed altre gemme. E anche qui infinite sfumature dovute a ciò che siamo. Un botanico attento, se osservasse il punto nel quale nascono le varie gemme, sia dell'uno che dell'altro tipo, vedrebbe molte cose. Vedrebbe che all'origine delle gemme di pece ci sono lacrime di animi molto sensibili che però non sanno rendersi conto di quel che accade per poterlo affrontare nel migliore dei modi. Vedrebbe la loro impotenza apparente poiché credono di non farcela e vedrebbe i casi in cui questa impotenza è reale ed è questa che li rende più deboli rispetto agli altri. Animi folli o creduti tali per eccesso di estrosità che si sbilanciano con le loro esibizioni fuori dagli schemi e in questo essere oltre, quando arriva la tempesta, possono trovarsi tanto scoperti da non trovare più l'indirizzo del loro rifugio di salvezza. Questa è solo un'ipotesi, un mio pensiero, anche se credo che non basterebbe tutta la superficie del mondo da usare come carta dove scrivere dei singoli diversi casi esistenti, di tutti quei perché alla base di ogni reazione umana e dello scaturire delle gemme. E non è assolutamente detto che una gemma che nasce di pece non possa poi generare un giorno una gemma di pace. Così come può essere vero il contrario. Fa parte della vita, del suo ciclo e delle sue leggi di equilibrio, ammetterlo. Una gemma di pace, infine, è una sorta di vittoria sulla tempesta perché in essa c'è la sintesi di ciò che siamo riusciti a fare di buono nonostante tutto. Una gemma di pace racconta la storia di chi ha tenuto duro, di chi ha ripescato nel cuore brandelli di nutrimento che stava scarseggiando a causa della tempesta stessa. Una gemma di pace è la promessa di continuare a credere che sia possibile anche quello che momentaneamente sembra impossibile o, quanto meno, è la fiducia nel passo futuro sapendo di dover curare al meglio il presente. E non è detto che siano tutti Uomini forti quelli che superano il tempo della tempesta, sono solo coloro che si guardano dentro e capiscono, forse prima di altri, o forse perché hanno in quel momento più energia a disposizione per farlo, che indugiare in se stessi corrompe la forza e lascia troppo campo libero all'egoismo che, in questa specifica circostanza, porta a piangersi addosso con maggiore facilità. E qui la pace non cresce. La pace ha bisogno di coraggio, non di bravate spavalde, giusto per sottolineare che il coraggio vero è accettare il pensiero della responsabilità di se stessi e del camminare nelle intemperie ricordando che quello che ci anima e ci scalda è dato dal legame di comunicazione tra le varie parti di noi, la nostra unità.

Ogni volta che vorresti scappare prenditi un attimo per respirare

Ci sono giorni nei quali alcuni nodi del passato riaffiorano e quando te ne stai lì, a metà tra il sorpreso e l'indispettito, in realtà sai che questa volta devi affrontarli. Solo che non sai da che parte cominciare. Dunque si opta per la soluzione più rapida per evitare di stare a contatto con quel nodo più tempo del necessario. E questo è l'inizio della fuga. Anche se si avesse una discreta riserva di voglia di affrontare il problema, potrebbe capitare di non scavare abbastanza in profondità in virtù di una scarsa applicazione dovuta al suggerimento inconscio di lasciare stare poiché è cosa passata. Ma ogni cosa passata ha la sgradevole nota di essere esistita, il che implica aver lasciato un segno da qualche parte, a qualche livello dentro di noi. Quindi l'incontro tra noi e il nostro nodo del passato richiede, per essere sciolto davvero, non illusoriamente, che lo si guardi bene in faccia. Per osservarlo così da vicino senza abbassare lo sguardo serve un immenso lavoro su se stessi per impedirsi di scappare. Che si riesca a rendersene conto o meno la realtà nasconde l'insidia che i nodi non svaniscono solo per il fatto che crediamo che accada da sé, i nodi ci sono sempre finché la forza dell'affrontarli con tutto ciò che siamo li fa svanire davvero. Perché, che lo si creda o no, dentro ogni nodo c'è una comprensione in attesa di incontrarci. E l'affrontarli con la mente non vale sempre per tutti, qualcuno potrebbe doverli rivivere per comprendere. Ciascuno ha il suo nodo personale e ciò che ha da raccontargli è altrettanto personale. Ma la sostanza di base è la stessa per tutti perché la reazione comune, quasi sempre, è scansare l'ostacolo. In questi giorni sto scoprendo un lato di me più in ombra e mi meraviglia trovarcelo perché tutte le volte che posso scelgo il passo in avanti, la luce, l'attacco diretto, quasi mai scelgo la tana o il far finta di non vedere. Non mi è facile affrontare questo nodo, me ne rendo conto osservando le mie reazioni quando la memoria lo sfiora. Sto correndo via anche adesso, mentre scrivo, ma cerco di arginare questa fuga proprio facendo ciò che sto facendo, parlandone. Ho sentito il sapore del nodo e vi ho riconosciuto un groviglio fatto di più sentimenti. Così provo a masticarlo per un po' ma poi mi distraggo perché, lo vedo bene, voglio distrarmi. Cose che accetto, cose che non mi riesce accettare perché forse sono da non accettare, e cose che richiederanno paziente lavoro di tessitura di buon senso e coraggio per farle vivere continuativamente una volta accettate. Si corre, dunque, si corre sempre, e si usa la forza a disposizione dirigendola nella fuga piuttosto che nella battaglia. Semplice strategia per conservare se stessi così come ci conosciamo, affezionati a tutto quello che abbiamo costruito anche se le  fondamenta fossero instabili o messe di sghimbescio. In verità non si può giudicare chi sceglie di scappare, ognuno ha il suo percorso da fare per capire quando è il tempo di fermarsi o di accelerare il passo e i nodi, di qualunque natura siano, grandi o piccoli, non scappano, attendono che li si affronti nel momento in cui riusciremo a comprendere di essere pronti per farlo. Nel titolo del post suggerisco di prendersi un attimo per respirare ma questo lo si fa quando si sente che il tempo è arrivato, quando si capisce di essere stufi di scappare e il respirare permette di ritagliare una finestra nelle possibilità per cambiare direzione alle cose. E in questo attimo di respiro si ingloba l'aria pulita e nuova che serve per affrontare tutto ciò che si vedrà mettendosi a districare il nodo. Il respiro non è solo per il corpo ma anche, e soprattutto, per la mente, per rilassare la tensione dell'animo al cospetto di quello che è diventato un piccolo universo ignoto dentro se stessi, specialmente se il nodo che ritorna getta l'amo in una memoria non recente. Se si accetta di guardare il nodo si possono rivivere sensazioni dimenticate e il respiro, in questo caso, diventa essenziale perché esso è legato alla vita ed è la vita che cuce insieme i pezzi tra loro, quelli passati con quelli presenti. E respirare serve anche per non correre più in apnea qualora si stesse ancora correndo. Chi conosce il valore della respirazione profonda, lenta, sa che l'effetto è quello di schiarire la mente e va da se che una mente che riesce a pensare con chiarezza sia di aiuto in un momento come quello dove si decide di affrontare il nodo. In ultimo, devo dire che non c'è un metodo specifico che permetta una riuscita certa, il nodo si scioglie solo se si è stati completamente sinceri e si sono elaborati tutti gli elementi, si è fatta pace con la memoria, si sono estinti i fuochi del rancore che sono, in molti casi, i responsabili del blocco che dà origine al nodo, si sono scovate e classificate le paure e i vari sensi di colpa ed altro. Il buon senso di ciascuno è un insieme di tutte le cose che si sanno, fuse armonicamente a quelle che si sentono vere col proprio cuore, ed è con questo che si aggancia la volontà di affrontare il nodo. Il resto, il momento giusto per guardare il nodo e la sua risoluzione, si sentono scorrere dentro e lo si capisce perché le cose iniziano a cambiare davvero in modo stabile.
Devo un ultimo significato a ciò che ho scritto nel titolo. Finora ho parlato di scappare come una cosa già in atto mentre il titolo, così come l'ho pensato tempo fa, suggerisce di non iniziare neppure a scappare perché respirare mentre si vorrebbe scappare dovrebbe permettere di evitare la fuga. Ho sviluppato il post parlando di scappare perché ora questa è in parte la mia realtà e il titolo mi ha fornito uno spazio per esorcizzare qualcosa dentro di me. Ma il vero senso del titolo è dire a chi è ancora in tempo per scegliere la strada, a chi si trova in uno spazio di se stesso dove ancora la fuga non è iniziata, che se si sofferma un attimo per chiarirsi le idee può capire che scappare, magari, non è la soluzione del problema che ha di fronte, né lo è quella del nodo che vorrebbe risolvere quando torna a farsi sentire.

giovedì 6 ottobre 2011

"Ti lascio perché ho paura di perderti"

Ho ritrovato questo appunto su di un vecchio scontrino, evidentemente quel giorno non avevo sotto mano il mio solito taccuino per appuntarmi l'incipit di un'idea. Oggi è venuto fuori, così, per caso e, rileggendolo, il significato mi ha trafitto come un ago sottile. E insieme, nella ferita, ho sentito sgorgare un sentimento strano, una specie di percezione di mancanza senza fine. L'atto di lasciare qualcuno è sempre essenzialmente un distacco a prescindere dall'aver fatto bene o no, a seconda dei casi. E' il senso del distacco quello che mi colpisce, forse perché ne conosco il sapore, sperimentato in alcune occasioni. Se dovessi dipingerlo vedrei dei fili arricciati alle estremità e sentirei l'eco dello strappo vagare senza posa dentro di me. Rileggo ancora una volta la frase. Fa male anche solo pensarla e nella mia mente si crea una sorta di corto circuito per cui non riesco a capire oltre chi sceglie questa strada. Ma mi sforzo un po' e provo ad analizzare. Se ho capito abbastanza questo concetto subito deduco che chi pronuncia questa frase non ha smesso di volere bene al soggetto al quale la sta dicendo, anzi, per un qualche motivo preferisce lasciare l'altro per non dover vedere mai il momento della loro separazione. La paura è un'ottima scusa, o una banale verità. In questa frase si cela un pizzico di egoismo perché, in realtà, per non soffrire colui, o colei, che sta parlando, fa stare male l'altro che sta per essere lasciato. Tuttavia non riesco a non giudicare mentre esamino il concetto. L'esame e il giudizio sono legati strettamente. Un bravo scienziato dovrebbe mantenersi sufficientemente astratto mentre si occupa del lavoro che sta svolgendo, quindi dovrei separare - ironia! - l'esame dal mio pensiero personale, che è intriso di sentimenti sull'argomento. Rileggo di nuovo. Vedo lacrime e dispiacere dentro al cuore di chi parla e lo stesso vedo materialmente sul volto di ascolta. Ok, dunque finiamo subito tutto, così si evitano complicazioni dopo. Sbrigativo. Se mi astraessi dal giudicare potrei dire che è solo una decisione come un'altra. Eppure non mi sembra la soluzione. Per me non lo è. Il proprio dolore nel presente, per sacrificio nel nome dell'ipotesi di minore sofferenza futura, mi sembra una scelta inadatta in un mondo in cui la vita è tanto breve, e provo tristezza per il dolore dell'altro che si trova a combattere una decisione che magari non condivide. Ovvio che se tutti e due fossero d'accordo nel lasciarsi più o meno per gli stesi motivi ci sarebbe forse meno sofferenza da entrambe le parti, ma non ci giurerei. Direi che sarebbe una sciocchezza bella e buona. Ma come non rendersi conto della preziosità di quel che si prova mentre lo si sta provando, se il cuore batte si è ben vivi e non solo nel corpo. Dunque si getterebbe via qualcosa che fa stare bene nel presente solo perché si ha paura di una ipotetica ombra futura? Come ho detto altre volte, pensare di perdere qualcuno che ami mette addosso un sentimento di depressione, di tristezza, di dolore soffuso, e se ti lasci trasportare dall'ipotesi ti perdi in altri pensieri sempre più oscuri che iniziano a dipingere un panorama opprimente. Entro questo orizzonte fittizio, che la mente crea nel suo viaggio ipotetico, la luce, come porta della speranza e soglia delle possibilità, tende ad affievolirsi fino a scomparire e, quando scompare entro questo pensiero, l'ombra che si è creata, pur essendo immateriale e ipotetica, inizia ad agire prendendo il sopravvento sul resto della catena di pensieri. Così, invece di lasciarsi per la paura di una perdita futura, ci si dovrebbe stringere più forte, quasi a fondersi l'uno nell'altro, così che uniti si sia più saldi nei confronti di ciò che potrebbe accadere, se lo si mette in conto. Maggiormente uniti per non lasciarsi trasportare via dalla corrente e per dare scacco matto alla paura. Io credo che lasciarsi con una simile motivazione, anche se la frase fa molto telenovela che richiama l'attenzione del pubblico con il pathos che trasmette tramite questo sentimento, se appartenesse a qualche sconosciuto attore della vita in una qualche realtà quotidiana, sarebbe una perdita ben più grave. Uno di quegli errori che si possono rimpiangere per tutta la vita e se ci si potesse rendere conto in tempo di tutti quei momenti cruciali nei quali si può cambiare il corso delle cose, si dovrebbe acchiappare al volo e tenere ben stretta questa consapevolezza per non commettere il passo falso. Ad ogni essere umano è lasciato libero arbitrio per poter imparare a gestire le proprie decisioni, e di conseguenza la propria vita, così ciascuno esprime se stesso tramite le proprie azioni in conseguenza del proprio pensiero o filosofia di vita e chi parla, come sto facendo io adesso, lo fa se sente che in una frase come questa il concetto è come l'orlo di un baratro, pericoloso se ci si sporge troppo oltre, e magari, se si cade e ci si ripensa, potrebbero non esserci rami d'albero, nascosti inizialmente alla vista, qualche metro più sotto pronti a salvare dalla caduta per stupidità.

domenica 2 ottobre 2011

Se...

Se... L'ipotesi con punti di sospensione a seguire, simbolo di tutto quello che si vorrebbe dire ma che per un qualche motivo non si dice. E in quei tre puntini c'è un mondo, secondo me, un mondo fatto di pensieri che forse non si sanno esprimere come si vorrebbe o solo non si desidera farlo. Non so... Oggi mi sono sentita come questi tre puntini, come l'inizio di un pensiero che vorrebbe proseguire in una comunicazione, che vorrebbe dire quel che è stato pensato ma che, necessariamente, forse, deve comportarsi come la schiuma del mare che si estingue sulla sabbia. Talvolta è strana la combinazione di fattori che porta a sentirsi così. Parlando salta fuori un argomento ed ecco che si innesca il soffio leggero di quel tipo di malinconia che fa pensare alle possibilità perdute.
Quel che provo mi farebbe prendere il cellulare per mandargli un messaggio, per dirgli che ha fatto bene, che è una cosa bella l'aver restaurato la vecchia automobile e che no, non l'ho vista, ma chi l'ha vista ha commentato positivamente. Sorrido dentro al ricordo delle volte che sei stato così gentile da darmi un passaggio sulla piccola macchina un po' scassata, ma unica ed emozionante presenza. Prima di allora non ero mai salita sul quel tipo di automobile! Tu e la tua auto, un duetto speciale nella mia memoria, un segnalibro prezioso per alcune emozioni.
Se potessi dirgli queste cose potrei fargli sentire a parole la sensazione di contentezza che provo per il lavoro che ha fatto e questa cosa positiva che si manifesta sarebbe un appunto piacevole all'interno dello scorrere dei giorni, però... Però il cellulare rimane lì, muto, con lo schermo in standby, questa volta non l'ho preso neppure in mano come è accaduto in altre occasioni, quando lo guardavo incerta sul da farsi ma in realtà cercavo di convincere la mente e la volontà a lasciare stare. Se dicendoti che, pur non sapendo bene perché mi sale su questo pensiero, anche se sembra una cosa banale questo restauro, penso che sia invece una cosa speciale, e chissà come ne vai fiero, tu poi rispondessi una cosa qualunque, che fosse una frase banale o una battuta, o una risata imbarazzata, non importerebbe, il giorno avrebbe un guizzo di luce in più, avrebbe il calore che esiste sempre quando le persone si parlano...
Eppure sapere che le cose non sarebbero così, anche se sento questa incredibile voglia di raccontargli ciò che penso, non mi impedisce di provare ciò che provo. Mi sento dentro l'onda positiva di qualcosa di buono fatta da qualcuno che ho nel cuore, anche se le parole si annodano tra loro quando incontrano la consapevolezza della realtà dei fatti. Se...
Lasciandomi trasportare da questa onda dai colori caldi ma spenti, resi opachi dalla consapevolezza del no che combatte contro gli impulsi del cuore, capisco che questi se, galleggianti nell'aria, sono impalpabili esattamente come il mezzo nel quale sono sospesi. Un castello trasparente di pensieri e desideri, battiti del cuore, dove la concretezza di ciò che si vorrebbe fare resta prigioniera. Una concretezza che non nasce, una porta sempre chiusa, un percorso lungo verso l'orizzonte per ingoiare, giorno per giorno, questo stop... Ecco, ancora una volta, scivolo tra le parole, amplifico le sensazioni per vederle bene in faccia ma non so ancora come smettere di pensare in certe occasioni... Mio padre diceva sempre che "i se e i ma sono il patrimonio dei bischeri", volendo intendere che le ipotesi e le scuse sono entità talmente evanescenti da costituire un falso patrimonio, ossia chi ama i se e i ma non ha nulla di reale in mano. E dunque prendo tempo, cammino ancora un po' sul margine dell'ombra di questo pensiero fatto di se per rimandare a più tardi l'impatto con la realtà che conosco...

Jovanotti - Le Tasche Piene Di Sassi

Trasformare i punti deboli in punti di forza

Prima di trasformare qualsiasi cosa è necessario comprenderla. Nel caso di un punto debole credo di non sbagliare aggiungendo un passo in più, ossia tutto l'eventuale lavoro da compiere su se stessi per accettare di riconoscere tale punto in base alla definizione che gli si vuole dare. Chi è orgoglioso tende a sorvolare per non perdere la faccia perché se si mostrasse con le sue debolezze il mondo potrebbe schiacciarlo senza pietà. E questo significa comunque che bene o male si conoscono i propri punti deboli, a maggior ragione se si tende a comportarci in modo da mascherarli. Si può anche scegliere di mascherarsi tanto bene da apparire agli altri come rocce impenetrabili, senza fenditure, o con la forza di un gigante leggendario, o come qualcuno a cui nulla sfugge mai, o senza pecche, ma chi non inganniamo mai siamo noi stessi. Nel mondo animale vince di solito il più forte e l'uomo che è di natura animale tende a credere che sia sempre meglio optare per la scelta della maschera, anche se certe maschere richiedono più energia di quanto si pensi per rimanere al loro posto senza sgretolarsi ad ogni occasione. Il punto debole può concedere all'essere umano due strade da imboccare. E quale di queste strade si scelgono dipende da come siamo. Una delle due strade l'ho già accennata, è la strada dell'orgoglioso che forgia la sua maschera, l'altra appartiene a colui che va contro corrente e mostra la sua debolezza forgiando così la sua struttura interiore. L'orgoglioso crede che la maschera sia il suo scudo migliore, nella copertura esterna vede la sua ossatura di protezione, mentre chi si mostra per come è, comprese le debolezze, combatte in tal modo qualsiasi costruzione di maschera e il suo scheletro dentro si rafforza per sorreggerlo al meglio. Potrei dire che l'uno è morbido internamente e duro esternamente mentre per l'altro è vero il contrario, l'ossatura robusta permette di supportare una massa morbida e dona maggiore mobilità. Il primo rispetto al secondo ha meno flessibilità e maggiori confini ma tutto, come sempre, dipende da come siamo e, prima ancora, da come scegliamo di essere dopo aver osservato noi stessi. Un punto debole, nella società così come viene vista e vissuta oggi, è come il centro di un bersaglio che invita a centrarlo con una freccia affilata. Chi si sente dunque di scegliere tale destino? Eppure alla lunga vince la scelta di mostrare il punto debole se si ha l'anima del guerriero valoroso, se si ha nell'animo la voglia di combattere la paura sopra ogni altra cosa. Questo tipo di sincerità con se stessi e con il resto del mondo è l'interruttore che permette di trasformare il punto debole in punto di forza. Il grosso del lavoro che si compie in questo caso non è la trasformazione in sé, poiché essa è automatica una volta che si accetta la soluzione del gettare la maschera, è tutto ciò che si vive e si cerca di comprendere per arrivare ad accettare ciò che troviamo in noi. Giocare a nascondino con le cose che ci troviamo dentro consuma energia preziosa come se si corresse in tondo senza arrivare mai da alcuna parte, un giorno, poi, ciò che siamo riusciti a nascondere alla nostra volontà o attenzione, ritorna e ce lo troviamo davanti con lo sguardo di sfida. Come scappare, non lo si può fare in eterno, e scappare è un comando dettato dalla paura di affrontare o accettare qualcosa, qualsiasi sia il motivo alla base che scatena ciò, e questo è un punto debole per un essere umano che ama la vita e la sua forza. Ma accettare questo modo di comportarsi è un primo passo verso una modificazione interiore, quella che porta spesso a rendersi conto quanto sia faticoso correre via e lasciare lì tutte le cose coinvolte, tra le quali se ne potrebbe trovare qualcuna preziosa. Il mio modo di dissimulare la paura di affrontare certe questioni qualche volta si veste della modalità tergiversare, prendere tempo per avere l'illusione di avere a disposizione tutto il tempo che desidero per arrivare da sola alla decisione da prendere, per sentirmi capace di dominare l'evento. E qualche volta invece, assurdamente mi muovo così velocemente per lo stesso intrinseco motivo, per sentirmi capace di decidere in piena libertà. Lo riconosco come punto debole ma mentre lo metto in piazza mi sento meno oppressa dalla sua presenza e mi sembra di poterlo ridurre di dimensione così da farlo stare dentro il palmo della mano per poterlo finalmente guardare e dirgli che non è poi così grande come credevo fosse. Come comprendere di aver scambiato l'ombra di una farfalla vicino alla fonte luminosa lontana per l'ombra di un rapace vicino. Si tratta di ridimensionare ciò che si pensa sulla base di quel che si crede, dopo aver affrontato e finalmente aver visto qualcosa che non ci siamo mai curati di osservare fino in fondo. Occuparsi dei propri punti deboli non richiede doti particolari, servono soltanto un po' di volontà e un pizzico di ribellione nei confronti dell'atteggiamento ripetitivo di cecità che mostriamo nei confronti di quel che vediamo dentro di noi, se lo vediamo. Se non lo vediamo tutti questi discorsi sono sterili battute sulla tastiera. Se davvero non vediamo certe cose di noi stessi questo non è una cosa necessariamente negativa, lo diventa solo nel momento in cui intravediamo qualcosa e scegliamo di ignorarla. Le mie parole nascono dalla constatazione e dall'applicazione, dalla sperimentazione su me stessa della teoria sviluppata con tali ragionamenti e percezioni. Qualche volta funziona e qualche volta no, e qualche volta non lo si capisce neppure con chiarezza se funziona, ma non mi riesce mai di credere che sia meglio nascondersi, specialmente a se stessi. Provando a nascondermi, e non so se sono stata sfortunata in questo gioco, mi sono sempre scoperta e la specie di sguardo colpevole della me che sperava di farla franca mi ha fatto vedere quanto sia stupido e controproducente fare questo gioco e non credo che cambi qualcosa se il gioco lo si trasportasse nella realtà quotidiana, in mezzo agli altri. Ingannare in qualsiasi modo se stessi o gli altri comporta gravi perdite, non ultima quella che deriva dal tradimento della fiducia altrui. Non che con questo si possa ricondurre tutto alla presenza o meno di punti deboli, però si può usare questo come un qualsiasi altro punto di partenza per provare a vedere le cose con un'ottica differente. Se non abbiamo una corazza troppo dura e inflessibile possiamo spostarci nei pensieri per trovare soluzioni che altrimenti mai considereremmo. E i punti di forza non sono altro che i luoghi dell'essere dove abbiamo piazzato la consapevolezza di ciò che siamo fino a quel momento con l'ulteriore consapevolezza che possiamo trasformarci verso la luminosità che intuiamo esserci tra una frasca e l'altra come una piantina nata nel sottobosco. Perché di crescere non smettiamo mai anche se spesso tentiamo di frenarci in tanti modi. Trasformare i punti deboli in punti di forza è dunque un aspetto del crescere, dello scorrere, per non rimanere incastrati nel nodo che noi stessi possiamo creare sentendoci impotenti nei confronti di una debolezza che può, invece, con amore, attenzione, fantasia, pazienza, creatività, trasformarsi, per comunicare questo cambiamento anche a noi, a tutto il nostro essere.