sabato 30 luglio 2011

"Il Vernacoliere"

Il Vernacoliere è una rivista mensile di satira, ma non solo, in vernacolo livornese e in lingua italiana. Qualcuno lo potrebbe definire dissacrante, senza peli sulla lingua, scomodo per la verità che candidamente viene riferita sempre negli articoli di fondo firmati da Mario Cardinali. Scurrile per i benpensanti ma sottilmente intelligente per chi condivide il nocciolo delle questioni piuttosto che l'apparenza di esse. Irriverente, se si intende questa mancanza di rispetto rivolta a chi non ha rispetto per la fatica e l'impegno altrui, a coloro che ingannano costantemente le persone oneste che lavorano sodo e, magari, non riescono ad arrivare degnamente alla fine del mese. Si prendono di mira i vertici del potere politico per poter offrire una critica che li renda meno lontani dai comuni mortali quali saremmo tutti, per far ridere, cercando di allontanare le lacrime per il malessere diffuso dovuto all'ignoranza, di codesti altisonanti signori che comandano, nei nostri confronti, nei confronti di chi vive la vita di ogni giorno con dignità, o almeno cerca di farlo. Si apprendono molte informazioni che alle tv passano velocemente, distrattamente, mai troppo calcate. Tra queste pagine queste verità sono da estrapolare in mezzo alle facezie e già questo è un buon allenamento cerebrale. Mantiene viva l'attenzione perché punta il dito dove i più vorrebbero che non si guardasse, ma lo sa fare con stile e coraggio perché la vera libertà di parola e di pensiero sono ben vive nei cuori e nelle menti degli autori del Vernacoliere. Una vignetta, qualche volta, vale molto più di centinaia di parole per l'alto potere di sintesi che ha e l'immediatezza, in certe occasioni, fa comprendere molto meglio le cose. Personalmente non condivido totalmente tutto, non sempre, ma a tutti gli autori va la mia ammirazione che non è affettata, è sincera per la chiarezza di vedute e l'onestà. L'assenza di perbenismi rende il Vernacoliere anticonformista e speciale per questo.
Fonte di conoscenza è ogni parola che non mente sul suo significato, è dire pane al pane e vino al vino e se si sente puzzo di qualcosa, da qualche parte, non si dovrebbe dire che si tratta di profumo, a meno che non si specifichi che tale lo è per noi. E' una scelta coraggiosa quella di non avere padroni ai quali sottostare per aspettare che ti venga specificato che tempo fa, poiché ciascuno ha la libertà di guardare col naso all'insù il cielo per capire se piove o c'è il sole. Questo tipo di libertà, finché ci saranno persone che pensano prima all'apparenza piuttosto che alla sostanza, renderà chi parla ed il parlato o l'operato, un genere di nicchia, sebbene questa rivista, nello specifico, abbia ampia diffusione comunque.
Ci tenevo a scrivere di voi, Gente del Vernacoliere, perché mi tenete la mente sveglia e mi fate compagnia. Mi fate riflettere ed elaborare nuovi concetti per aggiungere comprensione di qualcosa, chiudendo le somme di oggi in rialzo, con contenuti in più rispetto a ieri. Un grazie come una stretta di mano sincera a ciascuno di voi, e in particolare agli autori incontrati, in questi ultimi anni, a Lucca Comics che hanno avuto la pazienza di stare a firmare tutti i libri che ho preso, in particolare Federico M. Sardelli. E Mario Cardinali, l'anima che permette tutto ciò. Rita Buccini Between

venerdì 29 luglio 2011

Anggun - Snow On The Sahara

Dare e ricevere. Riveduto con aggiunta

Sia il dare che il ricevere dipendono dalla predisposizione personale verso gli altri e verso se stessi. Se è maggiore verso gli altri si tenderà a dare piuttosto che a ricevere, nel senso che spontaneamente verrà più facile prodigarsi nei confronti di altri, e il grado di gentilezza che abbiamo sviluppato ci permetterà di fare tutto ciò con serenità. Dare è una forma di espressione, specialmente quando si fanno doni per dire all'altra persona che dentro proviamo qualcosa che vuole farla stare bene. E' affetto, è amore, a seconda di quali sono i sentimenti che ci legano all'altra persona. Si può ben essere generosi e dare anche a sconosciuti in virtù di questa predisposizione al dare. E ci si può nascere o la si può sviluppare nel corso della vita. Divenire capaci di dare, e non mi riferisco soltanto a cose materiali ma anche all'affetto o all'amore, lungo il corso della vita significa aver vissuto esperienze, anche importanti, che hanno portato a quel tipo di comprensione interiore che riesce ad allargare le maglie del cuore, per far fluire parte di noi in consapevolezza, senza sentirsi più addosso la paura di perdersi mentre si ama. Personalmente ho sempre dato perché principalmente mi veniva spontaneo farlo e poi perché non riuscivo a trovare altro modo materiale per dimostrare il mio affetto. Sono riuscita anche ad esagerare e l'eccesso era direttamente proporzionale a ciò che provavo, ma non me ne rendevo conto. Ecco perché è importante, se si dà, imparare anche a ricevere. E' l'equilibrio tra questi due poli che permette di comprendere il valore di entrambi. Se si sta in assetto di sola ricezione possiamo essere egoisti e ingordi, e pensare solo a noi stessi impedisce molto spesso il dare per compensare questo equilibrio tra le parti. Ciascuno di noi, immersi come siamo nelle sfumature, può vivere sia l'uno che l'altro estremo, o gamme di vie intermedie, che piano piano portano a rendersi conto che la vita, vissuta comprendendo in essa dare e ricevere, ha un significato in più. Mi è sempre piaciuto il concetto del baratto perché insegna a valutare, a soppesare, a quantizzare ciò che si ha a disposizione per dare e a valutare altrettanto bene ciò che si riceve, per non essere "fregati", se mi passate il termine. In ambito di un onesto rapporto di lavoro, se vigesse il baratto, meglio comprenderemmo ciò che si riceve e ciò che si dà. Se ci prendiamo un po' di tempo e guardiamo, cercando di essere obiettivi, semplicemente onesti con se stessi, quello che diamo o che possiamo dare, dobbiamo anche, a noi stessi, l'essere capaci di accettare in cambio qualcosa. Se mi metto in gioco in questo modo però devo anche saper accettare che l'altro mi dia in cambio ciò che può darmi. Se c'è onestà va bene anche che non si concluda in pari l'affare, ma se la persona per la quale ho lavorato, per esempio, potesse corrispondermi pari valore del mio operato, ma non lo facesse per un qualsiasi motivo, non andrebbe altrettanto bene. E questo è tanto peggio se avviene tra amici. I debiti dovrebbero essere saldati il prima possibile senza appellarsi a dei pagherò in nome della conoscenza. Solo in casi eccezionali si dovrebbe contemplare questa soluzione, dilazionando il pagamento. Ho amici speciali che mi hanno insegnato a vedere questo, sebbene sia ovvio, in un'ottica di equilibrio di rapporti, comportarsi così, e tutto questo sono solo buon senso e onestà. Rettitudine direi. Anche se certe situazioni non sono facili da vivere né da cambiare per diventare equi con se stessi. Ma una volta che ci si accorge che questo equilibrio non c'è e si continua a dare o a ricevere troppo, senza rilanciare in senso contrario, si diventa sfruttati o sfruttatori, vittime o carnefici, prede o predatori. Ma servono soltanto tre passi in direzione della luce, accorgersi da soli o ascoltando qualcuno vicino che lo nota, iniziare a osservare se stessi mentre ci si comporta come si è sempre fatto e decidere se ci piace ancora la situazione oppure no. Da questa consapevolezza, e da questa scelta, dipende il passo verso il cambiamento per recuperare se stessi. Passo dopo passo, senza fretta, avendo cura di ogni cosa incanalando in modo differente la propria generosità.

Ho ripreso in mano questo post per chiedere scusa per alcuni errori grossolani di grammatica -che ho corretto- e per aggiungere delle cose.

Ho riflettuto su quello che ho scritto e ho trovato un'altra sfumatura importante, la differenza di concetto che si lega alla parola ricevere e quello che si lega alla parola prendere. Entrambi mi suggeriscono lo "stare", finché qualcosa arriva vicino a noi, e qui abbiamo a disposizione due azioni. L'una è il ricevere ossia tendere le proprie mani e accettare gentilmente ciò che ci viene dato, mentre l'altro è il prendere ossia, non soltanto tendere le mani verso ciò che ci viene dato, ma anche avvicinarsi ad esso attivamente. Quest'ultima azione ha una sfumatura di volontà in più. E in questa sfumatura di azione volontaria c'è molto per comprendere come siamo fatti. A sua volta il ricevere ha due connotazioni di atteggiamento in sé, l'uno è ricevere passivamente senza nemmeno porsi il problema di accettare e si avvicina molto al subire. Subire significa sopportare controvoglia qualcosa o qualcuno, magari perché si è costretti dalle circostanze o perché si preferisce non agire, forse per quieto vivere, non so. L'altra connotazione del ricevere ha in sé, come dicevo prima, la predisposizione d'animo di accettare quindi è legata al fatto che ci fa piacere, come quando si ricevono doni. 
Prendere è un'azione naturale che ogni bambino sperimenta praticamente da subito, appena può coordinare al meglio i movimenti delle manine. E' l'essenza dell'andare incontro alle cose e se rimane scevra di eccessi di egoismo permette di regolarsi mentre si sperimenta il dare/ricevere. Prendere non è accaparrarsi le cose a meno che non si sia ingordi e si abbia fretta, prendere comprende parte del rispetto che dobbiamo imparare verso noi stessi nell'ambito dell'equilibrio del vivere in mezzo agli altri. Essere corretti e onesti facilita le cose e fa andare a letto sereni la sera. Imparare a valutarsi o a valutare il proprio operato consente di applicare il giusto dosaggio nel prendere, o così dovrebbe essere, a meno che questo pensiero non sia giudicato troppo utopistico. Io però ci credo ancora. Credo sempre che sia possibile almeno provare a imboccare la strada dell'essere onesti. 
Un ultimo pensiero va alla difficoltà di imparare a ricevere nella stessa misura con la quale si dà. Per me non è stato facile, perché mi sembrava di non poter dare altrettanto in cambio finché non ho imparato a vedere ciò che davo io stessa. E qualche volta il cerchio si chiudeva non nella generosità ma nell'invadenza. E se accade questo, mentre si dà, vuol dire che si pensa solo al piacere che si ottiene dando. Basta dunque poco per trasformare un gesto positivo in uno che non lo è. Non parlo del dare perché si sa che poi si riceverà in cambio qualcosa, qui c'è il tornaconto, parlo dell'essere generosi a priori ma anche in modo tendenzialmente morboso, può accadere. La comprensione e l'equilibrio, a questo punto, sono necessari. Se, poi, chi riceve, quel che noi diamo in questo modo, subisce questa generosità senza comprendere cosa sta alla base, cosa ci muove, nascono incomprensioni. Dare senza volere nulla in cambio, purché si impari a rispettare anche il ricevente, è cosa positiva. Sempre alla base di questo tipo di dare c'è amore. E' il modo con cui ci si esprime che fa la differenza poiché dipende dal carattere che abbiamo sviluppato fino a quel momento. Modificare qualcosa di noi, del nostro carattere, una volta che si sono comprese delle cose è sempre possibile e dipende, come sempre, dalla nostra volontà.
Dare e ricevere sono una sinergia e l'uno senza l'altro sono esperienze incomplete. Vivibili per loro stesse ma incomplete. Il loro equilibrio insegna ad avere migliore stima di noi stessi perché ci induce a valutare come siamo, ci fa riflettere e guardare dentro quanto basta per camminare a testa alta nella vita. Nell'accogliere questa coppia di azioni possiamo anche aggiungere un punto al sano amore per noi stessi. E' una forma di volersi bene, se si riesce a coglierne il nesso. 

mercoledì 27 luglio 2011

Riflessione sui caduti

Che si tratti di una missione di guerra o che sia definita di pace il risultato non cambia, come effetto di incisione della realtà, un caduto è qualcuno che da quel momento in poi non c'è più. I caduti sono tutti valorosi ma lasciano famiglie a piangere o a ricordare il loro impegno civile e militare nei confronti del popolo al quale appartengono. Rimane di loro il ricordo del valore, il contributo che hanno dato. Eppure non riesco a immaginare come si possa sopportare il dolore dell'aver perso un familiare in guerra o in missione di pace che sia. L'unica forma di combattimento che riesco a concepire è quello che insegna a confrontarsi con se stessi per andare a caccia di quegli errori che impediscono il fluire della vitalità. Oppure si combatte quotidianamente per arrivare degnamente al giorno successivo cercando di far stare bene chi amiamo, alzandosi la mattina anche doloranti per affrontare la giornata. Perdonatemi per l'accostamento ma credo che, anche in questo caso, si possa parlare di valorosi. Chi affronta la vita militare, senza parlare dei civili che accompagnano le varie missioni di pace, lo fa perché ci crede. Crede in ideali di pace. Ma la morte quando arriva è solo morte e non fa più distinzioni perché il risultato è la mancanza di colui che prima era in vita ed era amico, compagno, figlio, collega, amante, genitore, fratello. Ho coniugato al maschile ma vale anche per le donne. Trovo che ci sia una vaga ingiustizia nel tributo all'onore dei caduti perché noi che rimaniamo invece di mobilitare capi di stato dovremmo riflettere un momento in più se la guerra vada ancora assecondata e perché chi la decide, comunque, non la combatte quasi mai mandando altri al suo posto. Se non sai sulla tua pelle cosa significa cadere in missione non capisci neppure il valore di chi è caduto per essa né tanto meno puoi pensare di capire che è meglio far smettere il combattimento, l'odio, lo scontro, l'incomprensione che sono all'origine di tutto. La morte in missione costringe chi resta a piangere e l'unico modo per darsi pace, nello specifico, è credere che sia tutto giusto e abbia un significato più alto. Altrimenti sarebbe una morte inutile, purtroppo... Non ho familiari caduti ma ho una parte di me che ascoltando e vedendo quel che accade nel mondo si innesca e riflette. Immagino se avessi un padre o un marito o un fratello che sta via quasi sempre e andasse  nei luoghi caldi del pianeta magari in missione di pace, come aiuto alle popolazioni, e poi un giorno non tornasse più, ecco, se anche avessi fin lì creduto che si trattasse di una cosa giusta, potrei da quel momento in poi nutrire un dubbio che, so, si trasformerebbe in quella certezza che ho già adesso in me, che la morte è uguale sia per un militare sia per una persona che ogni giorno vive cercando di dare il meglio di se stessa per chi ama. E l'unico triste risultato sarebbero lacrime e un vuoto immenso senza appello. Ogni scontro, ogni odio, ogni guerra portano solo dolore a meno che non ci si svegli per gridare che basta, che non se ne può più e che c'è in noi abbastanza volontà da non cedere ad ulteriori scontri. Ma l'impegno dovrebbe essere costante e a tutti i livelli, in noi prima di tutto, e in tutte le gerarchie di chi decide il destino di esseri umani che credono davvero nella pace e donano se stessi per far 'sì che diventi una realtà di fatto, e per questo combattono a discapito di se stessi. Il vero valore di un caduto è il suo immenso amore anche se non credo sia davvero compreso da chi organizza Funerali di Stato.

lunedì 25 luglio 2011

Il mio rapporto con i libri

Da bambina sognavo di diventare un medico veterinario e di avere una casa in campagna. Nella mia casa, in pietra, immaginavo di avere una stanza speciale con un caminetto e tutte le pareti rivestite da scaffali per accogliere i libri. Non sono diventata un medico veterinario ma sogno ancora il casolare in pietra e legno con una stanza piena di libri, e il caminetto. Progettavo la forma della casa e delle stanze e arredavo la "biblioteca" con l'amore e l'immaginazione che talvolta si ha nel pensare alla cameretta per un figlio. I libri sono sempre stati miei compagni fedeli. Presenze importanti che avevano, ed hanno, il doppio ruolo di divertirmi e di nutrirmi il pensiero. Ogni scrittore fornisce questo particolare cibo per l'intelletto componendo con le parole la forma e la sostanza che veicola i concetti, che sono l'essenza del nutrimento. Se pensiamo le cose e le esprimiamo sempre con le stesse parole perdiamo in freschezza di espressione. Lo scrittore fornisce un punto di vista differente di concetti e sentimenti comuni a tutti e questo permette di comprendere meglio anche noi stessi, quello che abbiamo dentro. Questo è uno dei valori dei libri per me. Non solo viene veicolata informazione ma viene fornita in modo da vedere le cose da altre angolazioni utili. Oggi, mentre stavo leggendo, mi sono resa conto di essere fortunata a saper leggere. Non mi ero mai soffermata su questa semplice constatazione. Sembra che sia la cosa più facile e naturale ma se si pensa che qualcuno non può farlo con altrettanta facilità si comprende che ciò che  abbiamo è prezioso. Oggi c'è anche la tecnologia che aiuta e un libro in carta può non essere più necessario. Ma io, se i libri in "carne e ossa", scusate, in "carta e rilegatura", non ci fossero più sentirei di aver perduto molto, davvero molto. E' la presenza stessa del libro, con la sua materia, che comunica, è il suo corpo che teniamo tra le mani e se ce ne rendiamo conto riusciamo anche ad averne cura, evitando di rompere, sgualcire, graffiare, piegare, strappare pagine alla sua esistenza. Il libro è un custode integerrimo del sapere e mostra senza pudore tutto di sé tramite le parole che gli vengono affidate. Il libro è dunque anche un ambasciatore dei più eleganti. Il libro accetta con pazienza anche qualche lacrima che il lettore può lasciar cadere sulle sue pagine, capisce che va bene così. Il libro accetta anche le sottolineature perché lo studente che lo ha con sé possa incrementare la sua conoscenza. Vecchi libri, centenari che non mostrano la loro età, sono un vanto di collezionisti, e chissà che loro, ben ordinati in qualche biblioteca prestigiosa, nottetempo, non ridano un po' di questi strani esseri viventi che li amano tanto. Nella mia stanza speciale vorrei avere libri di ogni tipo, oltre a quelli della mia collezione tematica, e vocabolari di ogni lingua per rendere le distanze tra le parole più sottili possibile. Ogni volta che entro in libreria mi comporto come un goloso che passa vicino alla pasticceria preferita. Se non posso trattenermi cerco di non guardare troppo chiaramente, altrimenti esco di lì a chiusura, buttata fuori a pedate dai commessi. Poco denaro in tasca fa il resto, quindi esco prima che mi caccino via. Ogni libro è un essere completo e se lo scegli ti accompagna sempre, ovunque tu vada. Ogni storia ti arricchisce di immagini e di immaginazione e leggere è una meravigliosa ginnastica mentale. Se un libro ti dà tanto come si fa poi a liberarsene? Come si può pensare di buttarlo via una volta letto? Al massimo se non ci ha entusiasmati troppo si può fare in modo che altri che non lo hanno letto lo possano dunque leggere. Trovo molto bella l'idea che in ospedale, in alcune sale d'aspetto, ci siano scaffali con libri che tutti possono consultare. Immagino così che la mia stanza speciale piena di libri possa farmi sentire una vibrazione particolare quando entro. Senza libri alle pareti mi sembra che ci sia poco calore, che la voce rimbombi alla ricerca inconscia di un confronto con parole diverse che si affacciano dalle costole dei libri, che però non ci sono. La loro assenza sembra così una perdita. Qualche volta è pur vero che non ho voglia di leggere nulla ma so che loro sono sempre lì che aspettano che li consideri. Specialmente quelli che ho portato a casa e che ancora non ho letto, oltre a quelli che ho lasciato fermi a metà con un segnalibro di fortuna. Forse, se sono completamente sincera con me stessa, posso ammettere che so perché i libri per me sono così importanti. Chi ha la fortuna di crescere tra tanti amici sinceri ha anche le loro parole, le loro storie, i loro punti di vista, le loro avventure e disavventure, i loro consigli e i loro insegnamenti, così l'apprendimento viene soltanto integrato con i libri. Nel mio caso, l'anonimato cittadino e quel che è stato il mio percorso di sviluppo mi hanno portato la compagnia quasi esclusiva dei libri. Una sorta di imprinting dell'età evolutiva mi fa sentire i libri come compagni di viaggio, fratelli quasi, di molte delle avventure sognate. Quello che ho imparato da loro è stato moltissimo e devo altrettanto ad autori più o meno conosciuti. Ho sviluppato anche un legame da sesto senso con i libri, infatti, a seconda di come mi sento o dei chiarimenti interiori dei quali ho bisogno, trovo un libro che mi chiama da qualche parte, libreria o bancarella dell'usato che sia. E' una sensazione che non si spiega bene a parole, ma bisogna viverla e sentirla con la propria pelle. L'incontro con il libro che racchiude in sé le parole delle quali hai bisogno è come raggiungere una meta, lì tra quelle pagine c'è una possibile soluzione o, meglio, c'è la chiave di lettura alternativa che sostituisce o integra ciò che c'è in te e che ti fa comprendere le cose. Ovviamente dipende molto dal tipo di lettura ma qualche volta ci si può sorprendere a capire qualcosa anche leggendo una ricetta di cucina. Grazie, dunque, a voi tutti, miei preziosi, cartacei, compagni di viaggio.

venerdì 22 luglio 2011

Esprimersi

Si può decidere di farlo oppure no. Esprimersi è mostrare qualcosa di noi o che fa parte delle nostre capacità. Al contrario, non esprimersi non è assenza di capacità né mancanza di cose di noi da mostrare, da trasmettere (talenti compresi), è la scelta di mantenere le cose in riposo da qualche parte o stare in silenzio.
Si può saperlo fare oppure no. Non sempre viene facile esprimersi, anche se si sceglie di farlo e, l'eventuale esposizione alle critiche, non aiuta o, meglio, non incoraggia, specialmente se si hanno difficoltà con i pensieri altrui. Per quanto mi riguarda, oggi mi sono tuffata in acque profonde senza salvagente, forse perché avevo abbastanza energia per farlo. Mi sono espressa, ho mostrato quello che sento, e non è stato come quando, qui tra questi post, parlo di me e di ciò che penso, no, è stato diverso perché la forma che ho scelto lo è. Sono sempre stata sensibile alle critiche perché dentro, un po' come tutti, penso che ciò che ho fatto, o sto facendo, sia corretto o ben fatto. Infastidisce, in modo particolare una persona tendenzialmente orgogliosa, essere criticati e se si è puntigliosi si vorrebbe scavare senza pietà nelle ragioni che il criticante fornisce assieme alle sue critiche. Uso la parola "critica" togliendole il suo accento negativo, volendo usarla solo come sinonimo di commento articolato in cui c'è un giudizio personale, qualunque sia. Chi decide di esprimersi, come ogni cuore di artista sa, dovrebbe avere incorporata l'immunità alle critiche che siano soli giudizi derivanti dal gusto personale, poiché è risaputo che "i gusti son gusti" e la scelta di chi si esprime deriva essa stessa da un gusto personale. Il timore di sbagliare qualcosa, se le proprie aspettative sono alte, è naturale che sfoci nell'accusare il colpo di una qualsiasi critica. Si vorrebbe essere perfetti e se qualcuno comincia a farti notare i difetti si scivola nel dubbio e, qualche volta, come è successo anche a me, si diventa pesantemente critici di noi stessi fino quasi a cancellare tutto e a non pensarci più. Qualche volta è così, è forte la voglia di lasciar perdere, solo che oggi mi sembra che qualcosa sia diverso, per me. Forse si cambia, non lo so, so che quello che ho proposto è in linea con quello che volevo esprimere e le critiche ricevute non riescono a farmi dubitare di ciò che ho dato. Quello che volevo esprimere è esattamente così che è venuto fuori. Non è assolutamente perfetto in sé, anzi, ha degli evidenti difetti derivanti dall'inesperienza. Non avevo mai fatto un video con della musica ed è stato interessante farlo pur non sapendo da dove iniziare. L'ho fatto e basta e mi piace così com'è. Forse, per la prima volta, ascoltando le critiche riesco a vedere meglio le persone, ne deduco cose che altrimenti non avrei mai conosciuto di loro. Volutamente ho scelto e dato lentezza, per dare un ritmo diverso e perché la musica con la sua dolcezza e il significato delle sue parole, secondo me, ha bisogno di questa bolla di tempo allungato per essere ascoltata. E questo è il mio parere, il mio gusto, condivisibile o meno. E una mia "critica" di rimando a chi dice che c'è troppa lentezza e monotonia, se la percepite così, a quanta velocità state procedendo dentro di voi? Dite che è la vita che vi porta ad essere più in sintonia con la velocità, il ritmo frenetico quotidiano? Se sappiamo ricordarci di essere noi stessi, anche se i ritmi là fuori sono tremendi da sopportare, e poche cose semplici non ci annoiano, ci godiamo quel che gli altri ci danno accettandolo così com'è senza aggiungere nulla.

Grazie per le cose che mi avete detto perché senza di esse non avrei maturato questo pensiero dentro di me.

Il mio video per la bellissima canzone di Franco Battiato "La Cura".

mercoledì 20 luglio 2011

Rammendare

Quando ero piccola, se una cosa si rompeva o si sciupava, non si gettava via subito per sostituirla con una nuova. Ovviamente dipendeva dal danno ma se la sua entità non comprometteva il rinnovato utilizzo, si procedeva a rammendare, nel caso di un capo di abbigliamento, o accomodare in caso di altro oggetto. Oggi invece facciamo parte non di una società consumistica, anche se può sembrare, ma di un pensiero volto al non recupero e alla sostituzione. E' il pensiero che detta il comportamento della società poiché tutti poi si ritrovano ad adeguarsi. "Usa e getta" così si ha sempre tra le mani qualcosa di nuovo, pulito, non usurato, senza curarsi troppo di dove va a finire quel qualcosa di vecchio, logoro e vissuto. Il gesto fin troppo spesso è quello di gettare alle spalle ciò che giudichiamo non servirci più. Generalizzare in questo caso non è facile perché mi vengono in mente migliaia di situazioni differenti, ciascuna con la sua soluzione o adattamento specifico ma passatemi questa riflessione a volo d'uccello. Il mio ricordo è legato a ciò che ho vissuto e imparato da bambina, a casa dei nonni. Ricordo bene quando si forava un calzino e subito la nonna prendeva "l'uovo" di legno o di metallo, lo metteva dentro al calzino da rammendare e, con ago e filo, riproduceva la trama consumata. Il resto del calzino era perfetto e ancora utilizzabile, perché disfarsene solo per un forellino? Ricordo la sensazione provata mentre la nonna ricuciva le cose sciupate e mi insegnava a fare altrettanto. Mi sembrava che fosse importante avere cura, in quel modo, delle cose. Mi sembrava che si valorizzassero e che fossero state sottratte ad una pessima fine senza gloria né significato. Ecco, tutto ciò, solo oggi, da adulta, posso definirlo con queste parole, allora era solo una sensazione che se ne stava lì, consapevole di non volermela dimenticare. Oggi guardo il mondo e penso che forse solo chi non ha abbastanza denaro per comprarsi un nuovo paio di calzini li rammenda, ma non lo so con sicurezza. Mi aspetto solo una grassa risata in chi mi legge. Perché faticare quando si può velocemente sostituire? Non so quali siano le risposte altrui, la mia è che voglio cercare dove possibile di ricordarmi del valore delle cose, del fatto che ecologicamente parlando, se si riducono i consumi riducibili, la Terra ringrazia, e che l'atto stesso di rammendare mi apre la porta verso la consapevolezza che si può cambiare qualcosa. Si può salvare una parte che credevamo perduta e ridargli nuova vita anche se non sarà come prima, anche se non tornerà nuova come quando è stata fatta. Ma se ancora può dare qualcosa, l'oggetto rammendato sviluppa in me una sensazione di benessere. Compiere l'atto del rammendo... forse lego questo alla sensazione che si prova a recuperare una cosa perduta, al desiderio di poterlo fare...
Saper rammendare può tornare utile anche se potremmo passare tutta la vita senza mai metterlo in pratica, dipende molto da come trattiamo le cose che ci appartengono, se siamo portati a curarle o a distruggerle. Magari anche una cosa consumata per il lungo utilizzo ha il suo valore, perché guardarla con gli occhi di un critico esteta? Solitamente ciò che sta sotto la superficie fornisce più informazioni di ciò che si mostra.
Molto cambia nel nostro pensare a seconda di come guardiamo le cose e rendersene conto è spostare il proprio punto di vista, come una messa a fuoco dell'occhio interiore. Un rammendo, per gli occhi che vogliono indagare il mondo sotto la sua superficie di apparenza, è molto di più di un'abile lavoro di cucito, si va dalla metafora all'utilizzo dell'atto del rammendare come trampolino di lancio per la comprensione che in quel momento stiamo interrogando. Se guardiamo le cose più semplici, cercando di andare oltre la loro forma di presentazione, possiamo avere delle risposte in più che normalmente tendiamo a ignorare. La preziosità dell'essenza del semplice atto del rammendare, per me, è la possibilità; è il pensiero che non tutto è perduto, una sorta di ramo attivo della speranza che sfocia nella realtà quotidiana, nella materia, e rende le cose nuovamente vive.

martedì 19 luglio 2011

Adriano Celentano - L'arcobaleno

Esserci

La presenza, come il pensiero, sono ciò che conta di più, in certe occasioni. Il mio pensiero vola oggi là dove vorrebbe essere presente tutto di me, per l'affetto che provo nei confronti delle persone alle quali dedico questo post. Se il pensiero, articolato e ricco di calore, spedito all'indirizzo desiderato, come una lettera, potesse essere sentito con tutto il suo concentrato di cuore, potrebbe per un po' sostituirsi all'esserci in persona. In ogni caso l'esserci è un sostegno nel momento del bisogno e una discreta presenza quando il bisogno si ridimensiona. Oggi, vorrei poter distillare l'azzurro del cielo di questa mattina, con la forza dell'alba che mantiene viva ogni speranza, vi aggiungerei gocce di sole in abbondanza per mantenere vivo il calore, perché il sostegno se ne nutre avidamente; prenderei il verde di ogni pianta per lenire il dolore e far intravedere stille di pace nonostante il vuoto fin troppo presente; distillerei di nuovo il cielo di questo mezzogiorno velato di nubi per mandare il messaggio che, anche se non si vede, il sole c'è sempre e se ne sta lì, senza fretta, con infinita pazienza, ad aspettare che ci si accorga della sua presenza. Il tempo passa, inesorabilmente come ho sempre detto in tutti i miei scritti, ma se il sostegno di chi ama c'è sempre, forse, si sente meno il suo scorrere impietoso. Vorrei poter prendere tutti i colori dell'arcobaleno per farvene dono, perché siano come un mazzo di fiori che non appassisce mai così, ogni volta che lo guardate, anche di sfuggita, possiate sentirvi meglio e più forti per poter camminare ancora. Se il vostro petto fosse troppo appesantito vorrei avere la mano pronta per aiutarvi a sollevarlo ritmicamente, per farvi respirare meglio mentre siete con la mente in mezzo ai vostri ricordi. Se il cuore mancasse un battito vorrei poterlo riprendere per restituirvelo intatto. Se i pensieri fossero colori verrei a dipingervi una stanza, una sola, per darvi la scelta se aveste bisogno di cambiare per distrarvi un istante, mentre col cuore siete altrove. Il mio pensiero, sono sicura, si unirà a quello degli altri che vi amano e vi pensano sempre e vi riempirà la casa per rendervi più agile passare attraverso il ricordo di oggi. Vi voglio bene. Dedicato a R.,G.,P.F.,C.,S.,R.

domenica 17 luglio 2011

Il canto della tela del ragno

Ho sempre avuto paura dei ragni fin da bambina. E sempre ho cercato di leggere e decodificare questa paura, di capire da dove nasceva, per cercare di smussarle gli spigoli più appuntiti. Ogni volta che vedo un ragno, uno strano brivido mi percorre la schiena ed è come se sentissi il movimento delle sue zampe dentro, sotto il primo strato di pelle, o meglio, come se la pelle fosse lo strato sottostante di una pelle diversa e trasparente che vibra a qualche centimetro dal corpo. E se mi metto in ascolto sento un suono che non saprei descrivere ma che mi fa ritrarre inconsciamente colpita. Il rifiuto di aver paura mi ha portato nel corso degli anni a tollerare la loro presenza, quindi a non schiacciarli come facevo da piccola, anzi dovrei dire che lo facevo fare a chiunque passasse da lì perché non potevo pensare di toccarli in alcun modo. Poi studiando materie scientifiche ho cercato di vedere il loro mondo con occhi diversi ed ho potuto avvicinarmi per guardarli più da vicino e non solo in senso metaforico. Poi sono riuscita a tollerarli abbastanza da prendere un vaso o un bicchiere per spostarli se necessario, trattenendo il fiato durante lo svolgimento dell'azione. Per ora il contatto è rimasto di questo tipo e con queste modalità. Tuttavia se trovo una ragnatela con il suo autore nel centro mi soffermo per osservarla. Ce n'è una nuova e ben fatta tesa tra il bagno e l'ingresso e mi ritrovo a cercare di non distruggerla ogni volta che passo di là. Il ragno attende che qualche moscerino volando inciampi nella sua tela creata apposta per catturare la preda, un insetto più grande la distruggerebbe. Forse una zanzara potrebbe essere il massimo della grandezza consentita. Quando accendo la luce vedo il riflesso su ogni singolo sottilissimo filo della seta che ha prodotto il ragno e mi sembra che se impedisco al brivido di salire su posso apprezzare un miracolo di ingegneria. Offro al ragno la mia casa forse in parte perché si dice che porti fortuna e questo è sempre un bel pensiero, un guizzo positivo. Poi vago con la parte della mia mente che conosce la poesia, il suo flusso, e rincorro i pensieri come facevo molto tempo fa quando scrivevo poesie usando qualsiasi spunto per iniziare un nuovo viaggio tra le parole che dipingono sensazioni. Ecco perché parlo del canto della tela del ragno, perché è così che sintetizzerei la sua presenza tra il fuori e il dentro di me. La mia percezione è il ponte di unione tra la sua vita e le sue "emozioni" e le mie in sua presenza, anche se il ragno questo non lo sa. Il suo canto è ogni suo movimento dove nulla viene sprecato in inutili elucubrazioni. Il ragno è predatore perfetto, paziente, lavoratore, instancabile e abile nel riparare danni alla sua casa sospesa nel vuoto. Un soffio di vento o il mio soffio mandato con delicata curiosità lo fa vacillare e scappare perché troppo forte e non gli suggerisce che sia la presenza di un insetto rimasto impigliato. Qui anche lui ha paura, ma forse non sa definire così la sua reazione, il ragno si ritira e basta. Semplice. Aspetta che sia tornato tutto tranquillo e si posiziona al centro della sua opera in attesa di un pasto. Il suo scopo nella vita è continuare ad essere vivo mangiando e riproducendosi. Non serve altro e qualche volta non so se sia davvero l'essere umano ad essere sul gradino più evoluto, almeno in certe occasioni nelle quali si tende a perdersi nei pensieri intralciandoci da soli il passo per eccessi vari o depressioni. A volte sarebbe bello riuscire ad essere efficienti senza sprechi per vivere pienamente ciò che c'è. Non mi piace però il concetto dell'essere predatore, mi sembra che tolga troppe sfumature al sentimento, e non permetta dolcezza alcuna. E la mancanza di dolcezza, anche se in determinate circostanze può rivelarsi utile per risolvere una qualche situazione dove l'azione pura e la determinazione sono componenti essenziali, mi sembra che inaridisca. Mi piacerebbe pensare però che anche un ragno qualche volta possa provare qualcosa attraverso la sua peculiare percezione, chissà in che modo, ma comunque provasse un qualche sentimento. Lo sentirei più vicino a me così non proverei più quel brivido che mi tiene lontana da lui. Per il momento mi limito ad osservare e ad ascoltare la sua presenza da lontano, lasciando che la mia mente si fonda, qualche volta in più rispetto a prima, ai fili della sua tela, nella trama del suo canto che è la sua presenza indissolubilmente legata all'espressione della sua via.

sabato 16 luglio 2011

Enya - May It Be (With Lyrics)

Karl Jenkins - Adiemus

Quando qualcuno sposta le tue cose

Vi è mai capitato che qualcuno spostasse qualcosa che avevate sistemato? Credo di sì. Credo che sia una faccenda molto comune, specialmente nelle camere degli adolescenti quando la madre entra per riordinare, oppure in qualsiasi altro caso di vita comune con qualcuno o nell'ambiente di lavoro. La maggioranza forse neppure ci fa caso ma, se ve ne accorgeste, come sareste portati a reagire? Oggi ci ho fatto caso, e non so bene perché. Forse il continuo ripetersi del gesto, da parte di un'altra persona, di risistemare ciò che ho disposto per comodità di utilizzo, questa volta, ha sfiorato una parte di me più sensibile. Non si sa mai con esattezza quando arriva il momento di comprendere qualcosa, o di accorgersene. Ho provato un leggero fastidio. Già avevo spiegato il motivo dell'aver posizionato in quel modo l'oggetto, quando avevo visto che veniva sistemato in modo diverso da come lo avevo messo io, ma evidentemente tutto era già stato dimenticato. Nessuno è perfetto, di conseguenza nemmeno la posizione che decidiamo per certi oggetti lo è, è semplicemente relativa alla nostra decisione, al nostro gusto, al ragionamento di ottimizzazione di spazio e comodità di utilizzo. Nel mio caso vale quest'ultima affermazione. Immagino che all'altra persona piacesse poco l'effetto visivo, non lo so, immagino soltanto, perché poi, di solito, cerco di mantenere la pace dove possibile e per una sciocchezza preferisco non discutere. Pur tuttavia oggi mi è sembrato meno sciocchezza del solito l'aver assistito allo spostamento. Mi sono detta dentro di me, ma possibile che lo stai facendo di nuovo e per giunta senza pensarci, così distrattamente? Evidentemente è possibile perché può non esserci l'accortezza e l'osservazione per muoversi nel rispetto delle decisioni altrui. Mi sono messa a riflettere su questa cosa e ho capito che il mio fastidio non deriva dal fatto di sentirmi privata del mio potere decisionale, benché in parte sia così, ma per l'aver visto negli occhi dell'altra persona la totale assenza di scrupolo nel compiere il gesto. Se fossi esagerata direi che è una violenza, e se fossi permalosa direi che è un oltraggio ma, cercando di vedere e di definire le cose esattamente per come sono, posso dire solo che è stato quel che è stato con l'aggiunta che, la quasi immediata reazione dopo l'aver provato fastidio, è stata guardarmi dentro per scandagliare tutte le volte in cui mi sono trovata ad essere stata colei che compiva l'atto nei confronti di qualcun altro. Vivere è una pista a doppio scorrimento, se si desidera rispetto lo si deve in egual misura. Solo che qualche volta siamo accecati da forti sentimenti o aberrazioni di essi - e con aberrazioni intendo non il loro senso negativo ma solo ciò che sono, ossia una non corretta visione né interpretazione di detti sentimenti per le più svariate motivazioni - che non ci permettono di esprimere davvero quello che abbiamo dentro al nostro cuore o nella nostra testa. Dunque ho visto me stessa nelle vesti di qualcuno che non ha avuto rispetto né cura in più di un'occasione. Si dice che chi non sa quel che fa va perdonato esattamente per questo motivo, ma non è una giusta scusa per non impegnarsi ad accorgersi di come conduciamo il nostro modo di fare. Il reiterare dell'azione che ci infastidisce porta esasperazione e chi la genera spesso non si rende conto di averlo fatto. Ma il punto cruciale è la capacità di accorgersi delle cose, e vale sia per chi le subisce sia per chi le compie. E' allora che la comprensione trasforma le cose e le visioni che abbiamo di esse ed è qui che subentra il cambiamento interno. Se ci colpisce abbastanza questo pensiero si è pronti a porre attenzione per le volte successive nelle quali potrebbe ripresentarsi la situazione, anche se la vittoria su ulteriori errori non è assicurata. E' l'impegno che conta. E il cuore che comprende queste cose vorrebbe sentire il perdono per ristabilire l'armonia. E, tuttavia, c'è dell'egoismo anche in questa affermazione perché il perdono placherebbe noi, non il dispensatore del perdono, a meno che non comprendesse che non c'era intenzione né cattiveria nel gesto compiuto. Il valore di ciò che si comprende dovrebbe dunque diventare la terra fertile per coltivare i prossimi semi anche se non si ottiene perdono.
Ogni volta che qualcuno sposta qualcosa che abbiamo sistemato, qualsiasi sia il motivo, proviamo, prima di arrabbiarci, a guardare negli occhi chi sta compiendo il gesto. Se l'assenza di consapevolezza in ciò che viene fatto anima quegli occhi cercate di diventare più flessibili, anche solo per un istante, quello necessario per mettervi nei suoi panni per scegliere come si desidera essere, o si desidera non essere, rispetto a ciò che si sta osservando. Oggi ho rivisto me stessa quando ho spostato qualcosa senza pensare a ciò che stavo facendo, senza aver cura del sentimento, del pensiero, delle motivazioni altrui e non vorrei più comportarmi nello stesso modo. Ogni decisione interiore di questo tipo è un piccolo passo evolutivo che ci costruisce come davvero vorremmo essere senza più subire la decisione di qualcun altro su come dover essere o apparire.
Se vuoi spostare qualcosa che ho deciso di posizionare in un certo modo chiedimi prima perché l'ho sistemata in quello specifico modo, così mi conoscerai meglio, e vedremo se l'oggetto deve, o meno, cambiar luogo.

giovedì 14 luglio 2011

La scomoda posizione del Principe Azzurro

Questa sera vorrei dedicare questo post al giovane uomo che oggi mi ha detto che il Principe Azzurro, nella vita reale, non esiste. Ne sono al corrente, e proverò a spiegare come sono arrivata a questa consapevolezza. Vorrei fare, però, una premessa per tutti coloro che collegano il romanticismo al pensiero di trovare un personaggio ideale anche nella vita ordinaria. Non so come il resto del mondo codifica il concetto di romanticismo, se non per sommi capi, infatti, elaborando il mio, ho sempre pensato che avere dentro una dose di dolcezza, che fa allentare quando necessario e fa vedere con luce priva di ombre forti le situazioni o le persone, che fa magari preferire la musica soft, in alcuni momenti in cui lo stato d'animo lo richiede, sia un modo di essere e di sentirsi, che naturalmente altri definiscono, per comodità e necessità di dettagli, "romanticismo". Forse con questa parola si intendono moltissime altre cose che non so, ma non è questo il post nel quale voglio discuterne. Per il momento preferisco concentrarmi su questa figura maschile nata con le favole, il Principe Azzurro. Egli, tra le righe che gli appartengono, tra pagine di storie create anche per fare stare bene con un lieto fine, incarna l'essere che può sconfiggere sortilegi e salvare la dama di turno. La sorte gli dona forza e coraggio che non vengono mai meno mentre questo, nella realtà quotidiana, è frutto di lunga lotta e volontà tra mille cadute, errori stupidi e strade imboccate alla cieca, che si scoprono poi essere senza uscita e che necessitano di un famoso ritorno sui propri passi. Possibile. Da donna, posso dire che il pensiero di avere a fianco un uomo che sentiamo abbastanza robusto da sorreggerci in caso di bisogno è un sentimento molto radicato, forse perché, trovandoci nel mondo di tutti i giorni a dover combattere come gli uomini più forti, sentiamo dentro una voce mai spenta che ci vuole meno dure nell'andare, semplicemente per riprenderci parte della nostra innata predisposizione alla morbidezza, se mi passate la parola. Ci ritroviamo a pensare con gli occhi velati di rosa, o cerchiamo la favola, l'illusione se volete, perché la realtà è ostile per tutti quanti, uomini e donne. Solo che l'uomo, a questo punto, si sente caricato di un fardello eccessivo, ossia le aspettative della donna che lo vorrebbe Principe Azzurro. E' dunque vero, R., che il suddetto principe non esiste perché è naturale, avendo gli occhi e una certa dose di buon senso, capire che nella vita quotidiana ci sono troppe questioni da risolvere, da conoscere, da vivere, affamati come siamo tutti quanti, chi più chi meno, di vita. A volte sento chiedere da intervistatori su carta stampata o televisione "com'è il tuo uomo/donna ideale?" Ogni volta scuoto la testa perché credo che se ci mettiamo davanti agli occhi l'immagine che ci siamo formati avendola costruita a pezzi, con capelli in un dato modo o occhi in un altro , o mani così, o con una certa posizione sociale, o per età, o altezza, si finisce per non vedere chi realmente abbiamo davanti o accanto, e il tempo poi passa per tutti. Per qualcuno può ben essere un pretesto inizialmente utile per andare nel mondo e cercare qualcuno, anche se poi la vita mette sulla strada quel che decide lei. Per questo motivo non ho mai immaginato nessuno e ho combattuto per far capire questo punto di vista. Ho incontrato qualcuno, un giorno, e gli occhi non hanno contato più nulla, perché il cuore ha preso il sopravvento. Difficile da spiegare e sempre frainteso, ma non importa... Ho lottato dei giorni interi la volta che è accaduto perché non mi capacitavo del fatto che proprio quella persona mi "piacesse" così tanto, scavando così nel mio essere più profondo, fino ad arrivare al cuore, per rimanerci e non andarsene più nonostante tutto, nonostante il tempo, nonostante il rifiuto (che è cosa che può accadere). Chiunque riesca a toccare corde così profonde in un altro essere vivente fa 'sì che venga spazzata via l'immagine illusoria, perché vedi bene molte cose, anche se ce ne sono una quantità infinitamente più grande da conoscere attraverso la vita quotidiana. Chi è fortunato da essere ricambiato, o chi riesce a comprendere senza fraintendere questo sentimento in chi lo prova, credo possa capire quanto sia speciale la vita. Accettarlo o meno dipende dai singoli casi, ma non è questa la sede per discuterne. Però vorrei che fosse chiaro, in chi ascolta parlare queste persone che sentono tanto il loro cuore, che a questo punto la favola sbiadisce perché la realtà, con tutte le sue sfumature e conquiste giornaliere, o sconfitte -perché no, ci sono anche loro- è più vivida e ricca di esperienza. La favola alla lunga stanca perché serve soltanto a tranquillizzare, a far sperare ancora che certe cose siano possibili in questo strano mondo difficile da vivere. La favola è come un antidolorifico momentaneo, altrimenti sarebbe una droga pesante che non permette più di svegliarsi. Quindi il Principe Azzurro si trova in una posizione assai scomoda tra la sua casa di nascita, la favola, e la realtà dove qualcuno pensa sia possibile trapiantarlo. E credetemi, uomini, siete meravigliosi anche così come siete, con le vostre debolezze, con i vostri sorrisi, con le vostre paure, perché in fondo siamo fatti per stare tutti quanti insieme e imparare a collaborare distribuendo i vari compiti a chi, in quel momento, può assolverli nel modo migliore. Giocare con i ruoli è bello quanto la favola ma la realtà è fatta di cuore e di cura reciproca. Io ho lasciato che fosse il mio cuore a guardare per me e mi farà sempre vedere e accettare l'evolversi di chi amo durante il corso della vita, anche se tutto questo nel mio caso va a vuoto. Non ho più paura né fastidio a difendere il mio punto di vista, ma non devo più a nessuno spiegazioni su quello che provo e so bene che il Principe Azzurro preferisce le vecchie pagine ingiallite dal tempo piuttosto che una vita effimera a contatto con la realtà.
La canzone di Max Pezzali, "Io ci Sarò", mi piace molto proprio perché esprime ciò che penso in merito a questo argomento. E forse, perché no, soddisfa parte del mio romanticismo, laddove la speranza non muore mai. E' bello crederci, anche se vedo altrettanto bene la realtà. R.B.Between

mercoledì 13 luglio 2011

Far sorridere il cuore

Devo essere sincera, non so quanti modi ci siano per far sorridere il cuore, io ne ho conosciuto soltanto uno. Per il resto del tempo il mio cuore è stato in molti modi e la serenità, benché faccia stare bene, non è potente come la gioia di un amore. Forse provare dei sentimenti profondi per qualcuno non è cosa immediata per ogni persona, mentre per qualche altro è così e, quando accade, è come se cambiasse la chimica interiore. Il cuore si illumina, non saprei come altro spiegare questa sensazione, e sorride, così come sorride ogni volta che è vicino alla persona che sentiamo palpitarci dentro. Questa gioia, ho avuto la fortuna di sentirla per una persona, e non per altre circostanze per il momento, non ho avuto grandi sogni realizzati, ho solo camminato nella vita cercando di imparare la pazienza dell'andare nonostante tutto. Vedere una persona cara che sta meglio in salute ti riempie di benessere, e di sollievo, ma non arriva a farti sentire lo stesso tipo di gioia totale, come quella che si prova avendo sentito nel proprio cuore l'amore per qualcuno, in modo completo, senza più paure, o meglio con quella sensazione particolare che, anche se hai paura, ti senti portato ad andare avanti lo stesso perché nel cuore c'è un sorriso. Quando provi questo non hai bisogno di parole per spiegare a te stesso come stai, perché, comunque, sai che non ti saranno mai sufficienti per descrivere ciò che senti, avresti solo bisogno di dimostrarlo. Le parole in questo caso limitano tutto e l'unica cosa che basterebbe, per comprendersi, sarebbe guardarsi negli occhi, occhi capaci di gettare un ponte speciale per unire i cuori all'interno dell'anima, e prendersi per mano. Le parole sono superflue quando il cuore sorride tanto e la sua luce inonda tutto ciò che siamo in quel momento.

E se vi chiedete se siete innamorati davvero di qualcuno provate ad ascoltare il vostro cuore, se trovate che sta sorridendo avrete la risposta che state cercando. E, se vi rendete conto di questo, fatene tesoro perché il cuore sa farvi stare in molti modi positivi ma non sorride, vestendosi di luce di gioia, così spesso...

Le cose che ho imparato nella vita - Paulo Coelho

Cliff Richard: It's In Everyone Of Us

It's in everyone of us to be wise
Find your heart
And open up both your eyes
We can all know every thing
Without ever knowing why
It's in everyone of us by and by

It's in everyone of us
Find your heart
And open up both your eyes
We can all know every thing
Without ever knowing why
It's in everyone of us by and by

It's in everyone of us
I just remembered
It's like I've been sleeping for years
I'm not awake as I can be
But my seeing's better
I can see through the tears

I've been realizing that
I bought this ticket
And watching only half of the show
But there's scenery and lights
And a cast of thousands
Who all know what I know
And it's good that it's so

It's in everyone of us to be wise
Find your heart
And open up both your eyes
We can all know every thing
Without ever knowing why
It's in everyone of us by and by


It's in every one of us by and by


Tornare sui propri passi 3

Che cosa fa tornare sui propri passi? Forse l'incredibile voglia di rimettere a posto ciò che si è appena scombinato, perché ci si rende conto che quello che avevamo prima di compiere il passo, o di prendere la decisione, era un qualcosa da mantenere invece che da abbandonare. E adesso che si è fatto il passo, che ci si è esposti, che in fin dei conti ci si è gettati oltre ciò che davvero volevamo, si vorrebbe tornare indietro. Qualche volta è possibile e qualche volta non lo è. La nuda verità che non vorremmo mai sentire è: "ormai è fatta, e non si può tornare indietro", eppure, come ho scritto nei precedenti post con lo stesso titolo di questo, la gamma di sfumature per il recupero è più ampia di quel che si possa credere. Forse è la brace della speranza che c'è in me a farmi parlare in questo modo, il mio non arrendermi all'evidenza, anche se talvolta mi rende fin troppo testarda, ha però il suo risvolto positivo. Se credessi che tutto finisce lì, anche se, amaramente, per qualcosa è così, potrei non vedere il piccolissimo germoglio che non avrei mai pensato sbucasse dalla terra, metaforicamente parlando. Mantenendo viva, se non proprio la speranza, almeno l'essenza della speranza se, trovando di aver sbagliato, volessi tornare sui miei passi potrei attivarmi per tornare. Tutto qui. Ho sempre pensato che l'orgoglio, quella strana cosa che spesso tiene su con la stessa efficacia di un manico di scopa attaccato alla schiena, fosse di troppo in certe occasioni, e questo perché qualche volta non voltarsi indietro, solo perché ormai si è deciso di fare nel tal modo, è una cosa alquanto sciocca. Bisognerebbe ben valutare i pro e i contro sia dell'andare oltre sia del tornare sui propri passi. La bilancia è sempre disponibile, basta avere voglia di utilizzarla. Rinvigorire l'orgoglio in questo caso può far perdere qualcosa di prezioso. A volte vorrei conoscere qualcuno degli impulsi che nascono nell'animo di chi si interroga su questo argomento perché, se tanti sono coloro che cercano una risposta, forse vuol dire che non si è poi così "orgogliosi" del passo fatto, e dentro c'è confusione, incertezza e l'indecisione rallenta il normale scorrere dei sentimenti. La mia voce, al servizio del mio pensiero nutrito da immenso desiderio di speranza, parla, ma dice ben poco se non trova, dentro chi sta ascoltando, la stessa voglia senza paura di tornare sui passi fatti. La vera questione sta tutta nel porre a voi stessi la domanda perché solo il vostro cuore sa l'eventuale risposta. Voi vi conoscete, io parlo soltanto in senso generale e comunque attingendo dalla mia esperienza, non so quanto possa essere utile ciò che vado dicendo. So soltanto che io ci credo, credo possibile tornare sui propri passi, laddove si palesasse la necessità o l'urgenza di farlo, per andare incontro alla vita e al cuore piuttosto che voltar loro le spalle solo per il vanto di avere "deciso così". Auguro dunque a tutti coloro che cercano la propria risposta di poterla trovare, e che sia una strada che ha un cuore.

martedì 12 luglio 2011

L'Aura Abela - Today

L'impronta di chi non c'è più

Sediamoci comodi, anche se l'animo sta scomodo in prossimità di questo argomento. Serve tempo, come da raccomandazioni, per "elaborare" la perdita. Spesso si dice "elaborare", applicato a questo concetto, come se si dovesse masticare un boccone che non riesce ad andare giù. E questo soltanto perché un boccone del genere non va giù, mai. Semmai c'è bisogno di una valida alternativa per imparare a convivere con la nuova realtà. Potrebbe capitare che tale boccone, non volendo andare da nessuna parte, se ne stia lì a farsi masticare di continuo, in tandem con i pensieri che nella mente riportano al ricordo di quando quella persona era presente. La memoria stessa, in questi casi, fa tornare in superficie quella che io chiamo l'impronta di chi non c'è più. E anche se stiamo lì, sempre lì, dove abbiamo lasciato parte del cuore, e ci ritorniamo, talvolta sfuggendo abilmente a noi stessi, lo facciamo perché abbiamo una disperata paura di dimenticare la presenza che adesso ci manca tanto. Abbiamo paura, come bambini, che con il passare del tempo quel volto, la voce, i movimenti e le abitudini, diventino sempre più evanescenti. E allora vorremmo gridare e graffiare il tempo per far 'sì che si accorga della nostra presenza di qua, da questa parte del mondo, per distoglierlo dal suo incessante cammino, per chiedergli infine che con la sua potenza si accartocci su se stesso per un attimo almeno, per riportarci la persona cara che non è più qui, ma di là, dall'altra parte della cortina che separa la realtà dal luogo (?) dove si dice vadano a stare i più. L'impronta lasciataci è come una pellicola impressionata che possiamo passare e ripassare nella mente, è ogni istantanea di attimi che ricordiamo e che diventano più vividi ogni volta che li riguardiamo. Tale è la magia di questa pellicola speciale che, al contrario di qualsiasi oggetto materiale umano, non si consuma ogni volta che viene usata, così da poter rivedere e rivivere le scene con gli occhi della mente tutte le volte che si desidera. Nell'impronta di chi non c'è più c'è ancora qualcosa che vibra perché è legato a noi, a come sentiamo ciò che sentiamo, e dipende, ogni onda, da quanto profondo era il legame. Un tuffo in quel punto, dove rivediamo la scena, e possiamo sentire maggiormente l'impronta composta da tutti i nostri singoli ricordi, che adesso si riuniscono insieme per ricreare l'immagine. C'è paura, tanta paura di lasciare sfuggire anche uno solo di questi ricordi, perché sappiano che senza di esso, anche se infinitesimo, l'immagine ricostruita sarebbe mancante di un qualcosa di essenziale, paradossalmente. E' l'urlo del cuore che soffre e prende in prestito le lacrime agli occhi, anzi, qualche volta le ruba, le strappa con violenza, perché non riesce ad arrendersi alla perdita. E il boccone che si raccomanda di buttare giù sta ancora lì. Provare a bere le lacrime potrebbe essere un tentativo di soluzione, nella speranza che qualcosa si sciolga e che la gola collabori, per favore! Ma... coloro che raccomandano di inghiottire per poter continuare a vivere sanno cosa si prova? E' pur vero che a qualcuno il lavoro sporco, di evitare che tutti vadano allo sbando per intenso dolore, deve toccare, però... io stessa una volta ho compiuto questo sporco lavoro cacciando giù a forza il boccone in me per prima e a chi mi stava vicino poi, per non morire una volta di più. Quando ho rivisto una scena simile in un contesto differente mi sono resa conto che il boccone, in realtà, era sceso solo di un millimetro, ingannandomi, perché il destino di questi bocconi non è scendere giù come fossero cibo, il loro destino è diverso. Per tutto il resto delle cose che fanno parte della vita e dell'imparare è concesso masticare anche con la mente per elaborare e nutrirsi dei risultati, ma qui serve altro, serve una dolcezza infinita per prendersi cura del groviglio che si forma. Tutto il corpo vorrebbe digerirlo come ha imparato a fare per alleviare il prima possibile il dolore che provoca a contatto con il cuore. Qualcuno dice che serva del tempo, vero, ma le cose da sole non accadono a meno che non si collabori mettendoci del nostro, per agevolare il loro compimento o la loro evoluzione comunque naturale. Ho dunque cercato una risposta a tutto ciò. Ho ascoltato all'infinito l'impronta nei ricordi ed ho iniziato ad amarla con tutta me stessa facendomi una domanda, più che dandomi una risposta. Mi sono chiesta perché avrei dovuto vivere il resto della vita rifiutando di aprire la porta al ricordo o ai vari flashback in qualsiasi momento si fossero presentati. Non importa se bussano sommessamente o se battono violentemente e insistentemente, nel mio cuore e nelle mia mente c'è spazio a volontà per tutto e per tutti, vivi e morti. Il cuore o la mente non sono un luogo limitato, sono uno spazio infinito dove nulla sgomita per avere il posto e l'attenzione della quale c'è bisogno in quel momento, a meno che non si sia noi stessi a limitarci credendo a ciò che raccomandano gli altri che non sanno. Spetta a ciascuno capire quanto spazio c'è in noi, e non è certo standard per tutti, ognuno avrà il suo, con la sua forma e la sua dimensione, fino al momento in cui si sente che tale spazio è davvero infinito. All'inizio, per il tempo che servirà, la convivenza con l'impronta di chi non c'è più sarà sicuramente piena di dolore, e di rifiuto, dato dal desiderio di far tornare tutto come prima, ma i sentimenti non devono essere repressi, specialmente se sono forti, perché un giorno potrebbe scoppiare tutto. Se c'è dolore che si gridi pure fino a scuotere le rocce più distanti. In questi casi stare zitti o fermi è devastante. Il silenzio esterno può solo sperare di creare l'ambiente più adatto per il grido che abbiamo dentro, non altro. E' permesso solo un silenzio di attesa finché non arriva l'onda da dentro che fa uscire il boccone che tenevamo in bocca a forza. Il posto del boccone è là fuori, ma prima di posarlo da qualche parte deve essere raccolto tra le mani e osservato. Va raccolto con delicatezza e presentato al cuore dall'esterno, perché anch'esso è vivo, e questa è una rivelazione. Non sorprendetevi se vedete che pulsa come il cuore stesso anche se il battito sarà scomposto, è così perché è stato il cuore a produrlo, ma porta dentro di sé anche tutte le lacrime di dolore, l'impatto vissuto e il vuoto enorme. Di questo boccone non ci si libera in modo convenzionale come se si trattasse di un rifiuto perché già dentro di noi enorme è il sentimento di rifiuto per l'accaduto. Serve compassione, serve pazienza, serve cura nonostante si abbia a che fare con qualcosa che ci fa stare male. Non ha colpe il boccone così come nessuno ne ha, dato che facile è pensarlo per poter scaricare tutto quello che c'è tra la mente e il cuore, intriso di pensieri. Il boccone doloroso ha solo bisogno, adesso che non è più in noi, di ritrovare il suo percorso per potersi trasformare in modo da non premere più su di noi. E questo può accadere solo se accettiamo di fermare la mano che vorrebbe graffiare il tempo per far tornare tutto indietro, quando l'impronta di chi non c'è più era invece la reale presenza della persona amata. Dunque inizia un nuovo ritmo nel passo, magari più lento, meno baldanzoso, dove lo sguardo, invece, di proiettarsi solo distante nel futuro, rimane più vicino al presente e, quando si sente in grado di farlo, si sposta per un po' nel passato, ma con la consapevolezza che il passo rimane nella realtà, per non perdere di vista la posizione del dolore residuo rispetto alle cose buone che si incontrano strada facendo. E se capitasse di sentirsi felici cercate di non averne timore o che non vi sembri di stare facendo un torto a tutto ciò che avete nella memoria. Se vi sentite bene, per qualche momento o anche per più tempo, prendetelo come un dono prezioso, che vi insegna ad avere più energia per gestire tutto ciò che c'è in voi, che dilata un po' i limiti che credete di avere, entro i quali pensate non possa essere possibile vivere in armonia con tutte le cose, le emozioni, le esperienze o i ricordi felici e quelli dolorosi. La sofferenza provata non dovrebbe mai essere intesa come espiazione dei sensi di colpa e, credetemi, qualche volta accade che ci si senta così, magari un po' più inconsciamente di quanto vorremmo che fosse. E il livello inconscio, quello strato sotto pelle, è sfuggente se non ci si mette di impegno con volontà e cuore e pazienza ad ascoltarlo nei suoi incessanti discorsi. Se pensiamo di meritarci il dolore perché ci siamo sentiti responsabili in qualche modo di una qualche mancanza che riteniamo fondamentale staremo in eterno a masticare il boccone senza riuscire a farlo andare verso il suo destino, verso l'amalgamarsi con il tutto per potersi sciogliere per darci sollievo. Trasformarsi non è scomparire è solo cambiare forma e una forma diversa può avere caratteristiche meno nocive. In parte questo è il significato che attribuisco al convivere con i pensieri più scomodi o ai ricordi dolorosi. Ricorderemo sempre la loro origine, perché la memoria registra fedelmente ogni particolare e noi, a meno che non ci vogliamo illudere credendo tutt'altro, avremo sempre la consapevolezza di come sono state le cose accadute. Però quello che possiamo fare, ed è questa la cosa importante, è riconoscere che si può andare oltre, che si possono cavare le gambe dal pantano della sofferenza per il solo fatto di ricordarsi che le gambe sono attaccate a noi e non al pantano. Le gambe ci appartengono, sono parte del nostro corpo, non sono il pantano, nel pantano ci sono soltanto immerse. Sembra banale ma è essenziale ricordarsi di una cosa così semplice. A nessuno viene chiesto di fare l'eroe specialmente quando si è feriti, e l'orgoglio da difendere non c'entra in questo caso, quando si sta male, si sta male e basta. E' negare questa condizione che distorce il resto dell'andare confondendo sempre più le cose fino a farci perdere nel pantano. Se il ritmo della vita impone performance elevate mandatelo da qualche parte senza nome, per un po', e riprendete le vostre gambe con tutto l'amore che potete generare e se c'è accanto a voi qualcuno che vi tende una mano, non fate gli orgogliosi, prendetela e uscite da lì. La vera difficoltà in tutta questa situazione di perdita grave non è andare avanti senza barcollare è sapersi fermare e accettare, per poi ripartire con rinnovata consapevolezza e pace. Quello che ho vissuto l'ho vissuto da sola praticamente sempre e avevo solo me, il mio cuore e la mia volontà di non arrendermi e scavando sotto pelle ho trovato quello che mi ha fatto parlare oggi. Nessuno ha tutte le risposte ma abbiamo qualcosa di più prezioso, abbiamo la capacità di andarle a cercare osservando tutto senza escludere nulla, finché non troviamo i pezzi che combaciano e allora sapremo, dentro, di aver trovato una risposta, o parte di essa. E' a questo punto che avere tempo per intraprendere questo percorso ha valore. Mettere a frutto anche pochi istanti, invece di usarli per dire che tanto non c'è soluzione, è positivo anche per la propria autostima. E accanto a noi l'impronta di chi non c'è più smette di essere un'ombra di tristezza, anzi ci dà la forza per ritrovare noi stessi. La meta è l'armonia tra tutte le cose, buone e meno belle, che fanno parte di noi e delle nostra vita. Convivenza con consapevolezza che permette di essere liberi anche quando si crede di non esserlo. R.B.Between

lunedì 11 luglio 2011

Adrenalina

La sua formula bruta è C9H13NO3. Si tratta di un ormone la cui sintesi avviene nella zona midollare delle ghiandole surrenali, all'interno delle cellule cromaffini. La sua formula di struttura è questa


L'adrenalina viene secreta in seguito a stimolazione da parte del sistema nervoso simpatico e dunque si può considerare un neurotrasmettitore. L'adrenalina viene prodotta in seguito ad una stimolazione emozionale, in particolare la paura, o in caso di situazioni nelle quali sia prevista una immediata reazione di fuga o combattimento.
La chimica della sua produzione prevede diversi passaggi ma qui vorrei parlare del sapore metaforico dell'adrenalina ossia del suo effetto quando entra in circolo.
Si tende ad associare l'effetto dell'adrenalina al potenziamento dei sensi che in realtà è dovuto all'azione che questa sostanza ha su alcuni organi e tessuti del corpo, infatti, l'adrenalina agisce facendo dilatare i bronchi, facendo aumentare la frequenza cardiaca e conseguentemente facendo giungere ai muscoli maggiore irrorazione sanguigna, così come ad altri organi importanti e tessuti. L'effetto è quello di svegliarsi improvvisamente, fisicamente, migliorando la reazione in velocità. Il mondo animale ce ne fa dono. L'acuirsi dei sensi è naturale conseguenza di un cuore che batte più veloce e del maggiore afflusso di sangue.
Se non è esattamente la paura a stimolare la produzione di questa sostanza nel nostro corpo, ma è, per esempio, il sentimento che guida e anima il desiderio di sfida del pericolo, o di semplice competizione, si riesce meglio ad assaporare cos'è l'adrenalina che scorre insieme al sangue. Quando è in te perché ami il rischio, ami la velocità, ami l'altitudine e sei solo tu con te stesso, e non hai rete di sicurezza a proteggerti, qualcosa cambia. Non aumenta solo il flusso sanguigno, o i polmoni accolgono maggiore aria per permetterti di aumentare la performance, vivi in quell'istante una maggiore capacità di consapevolezza perché ogni senso è attivamente richiamato in campo per l'azione. Anche l'energia che scorre insieme al sangue, mescolata ad esso, viaggia senza ieri né domani. La vivida presenza in sé diviene la base su cui poggia tutta la comprensione dell'attimo presente e vivi davvero, anche se per la sola durata dell'effetto della stimolazione emozionale. Senti tutta la realtà in una botta sola e ne diventi avido perché ti fa stare bene. Ripeto, questo può esser vero solo se non è la paura a innescare il processo. La paura improvvisa è emozione forte ma distoglie dalla percezione del gusto dell'adrenalina perché fa scappare di riflesso, non fa andare verso l'avventura.
Esiste anche lo stress adrenalinico dovuto al ritmo serrato di impegno nello studio, per esempio. Quando frequentavo l'università, ricordo volli dare due esami in meno di un mese, matematica e citologia, ma il prezzo che ho pagato è stato uno stress adrenalinico forte. Piacevole sensazione finché era attivo tutto quanto, bellissima vittoria riuscire in entrambi gli esami, sfida portata a termine con successo ma dopo il corpo invecchia un po' più in fretta, lo dico come sensazione, non come dato scientifico provato. Con l'adrenalina ti senti forte e resistente, ti senti invincibile, ti senti capace di affrontare ogni sforzo senza averne paura, ma, c'è sempre un ma, se non impari a coltivare dentro di te, e a riconquistare con pazienza, le sensazioni di coraggio e capacità, compresa l'autostima, non ottieni granché. Hai solo vissuto un'esperienza che ti ha fatto stare bene ma se sei goloso, e non sai fermarti, puoi diventarne schiavo. Le prestazioni da eroe che ci sembra di poter gestire sono effimere percezioni se basate solo sull'afflusso di sangue misto ad adrenalina. L'esperienza di questo sapore mi ha portato a capire quanto sia importante conquistarsi l'essere qualcuno capace di fare le cose senza bisogno di coadiuvanti di alcun genere. Non bevo neppure il caffè al mattino perché credo che per svegliarsi serva solo forza di volontà da esercitare ogni giorno senza cedere. Credo nella forza di volontà, anche se il percorso è più lungo e i risultati che si ottengono, anche se sono meno immediati a causa di lungo allenamento e talvolta di mancanza di forza per proseguire, sono sicuramente più duraturi nel tempo e più sicuri per la salute fisica e mentale. Certo che un po' di adrenalina ogni tanto, magari andando sulle montagne russe al luna park, fa stare in modo diverso dal solito sentirsi, e a volte serve anche questo per capire come stiamo davvero, e di cosa realmente abbiamo bisogno. Gestire se stessi è uno dei mestieri più complicati che ci siano perché non sempre abbiamo la forza per starci dietro costantemente, per vegliare adeguatamente sulla nostra stessa incolumità. Talvolta sbagliamo tanto grossolanamente da poterci definire idioti ma se coltiviamo la volontà di fare e di essere, dove possibile, persone migliori, sapremo anche come dosare in noi l'eventuale sapore dell'adrenalina. E certe sensazioni non sono solo appannaggio maschile, laddove l'uomo, il maschio, viene visto spesso come colui che deve competere costantemente per tutto nella vita. Una corsa su di un cavallo imbizzarrito che si vuole liberare di te è grande sorgente di adrenalina, o soltanto sentire il vento nei capelli mentre galoppi su di un essere vivente che pesa più di mezza tonnellata, è ancora fonte di adrenalina, ma c'è finché c'è, e basta. Se ti sai fermare prima di ripetere l'esperienza pericolosa  evitando di spingere perché accada, puoi trarne insegnamento, puoi conoscere il gusto di te stesso che si è messo alla prova. Secondo me non dovrebbero servire costanti conferme della propria forza, e qui parlo per gli uomini soprattutto che, come stereotipo vuole, si trovano a dover rinvigorire il loro ego maschile per non sentirsi dei perdenti qualora si rilassino un po'. Una volta che si conoscono non i propri limiti ma i propri punti di forza non serve esagerare nella sfida. Ma forse parlo troppo da donna, pur con nella memoria ancora il gusto dell'adrenalina che ho sperimentato nel corso della mia vita, e con il desiderio di equilibrare le cose attraverso la saggezza, o almeno ci provo. Comunque, se volete volare, volate, ma ricordate sempre la posizione del vostro artiglio personale, che stia pronto a tenervi saldi nella vita, con o senza adrenalina.

To feel

In inglese questo verbo si traduce con sentire, avvertire (fisicamente), percepire, essere sensibile a qualcosa, rendersi conto o accorgersi di qualcosa, sentirsi in qualche modo o sentire di essere in grado di fare qualcosa. Mi è sempre piaciuta l'incisività e l'immediatezza di questa piccola parola che ha grande significato. Tramite questa sola parola si riesce a esprimere un concetto particolare e profondo che, in italiano, non è altrettanto facile da comunicare con la stessa immediatezza. Questo tipo di "percepire", to feel, mi racconta subito che nella percezione c'è una componente legata quasi indissolubilmente alla sensazione materica (prendo in prestito dall'arte questa definizione). La percezione in buona parte lo è per il suo aspetto di catturare qualcosa che prima è distante e poi diventa vicino, perché entra dentro di noi tramite la comprensione, come se si realizzasse, laddove realizzazione significa materializzazione, cosa che da evanescente diviene tangibile, se così posso dire. Spero di riuscire ad esprimermi bene. La sensazione che ricavo dal processo di percezione è come se da qualche parte di me emanassi delle dita sottilissime, estremamente sensibili, che vanno a toccare o a sfiorare soltanto le cose che voglio conoscere. Questo nella lingua italiana ha bisogno di una frase intera per essere espresso, mentre dicendo "I feel", nella mia mente, ho già tutta l'informazione che mi serve. Questo è solo un mio pensiero e aiuta ad esprimermi quando voglio dire cosa sento. Per me sentire qualcosa è sempre stato un percepire quasi fisicamente le cose. Non saprei come altro definire questo processo. Non sento le cose solo con la mente, la mente integra soltanto le informazioni che immagazzina, le elabora, ma non ci mette quella specie di anima che rende la percezione vitale e reale. Il cuore forse si avvicina a questo sentire, ma in realtà è la pancia quella che sente davvero le cose come se avesse un senso speciale molto simile al tatto. E' da qui che nascono le dita sottilissime, forse solo immaginarie, ma ben capaci di far percepire ogni cosa con più realismo di quanto di solito si è abituati a pensare. Sentire le cose con intensità è un bisogno profondo, anche se forse non è vero per tutti che sia così, e credo anche che sia intimamente legato a quella  passione che ci spinge ad andare incontro alle situazioni e a cercare di realizzare i nostri sogni. Percepire le cose come se avessimo a disposizione una visione 3D si avvicina molto al mio concetto di sentire, in veste di to feel. E' un concetto sintetico che per essere compreso davvero deve essere sentito dentro: to feel. Anche se non conosco bene l'inglese, quando dentro di me ho bisogno di sintetizzare in modo ottimale quello che sento, prendo in prestito questo verbo e comprendo meglio le cose. To feel mi permette di raggiungere l'immagine più adatta al concetto del sentirmi in qualche modo come se, usando questa parola al posto di quella nella mia lingua, potessi sentire ancora di più ciò che sto sentendo, come se potessi interpretarlo, viverlo, invece che cucirmelo addosso solo superficialmente. La differenza è nel "sentire" dentro in modo vivo. I'm feeling well. Significa che mi sto sentendo bene dal punto di vista della salute, e infatti, nonostante giorni non bellissimi, oggi mi sento bene in questo senso.

domenica 10 luglio 2011

MIKA - Relax, Take It Easy

L'anello di congiunzione tra la teoria e la pratica

Fin da piccoli siamo immersi nella consapevolezza di dover imparare le cose, questo ci viene detto. Imparare per poi riproporre il modello imparato è per molti la sintesi del saper stare al mondo. Ci viene insegnato di tutto, come mangiare o cosa, come vestirsi, come parlare, come muoversi, come relazionarsi, e a scuola si leggono pagine intere sul come e perché o dove il genere umano si è evoluto. Si impara a far di conto, si impara a scrivere, si fanno dettati, si fanno riassunti per imparare la sintesi dei concetti, si legge e tutto questo parte dalla teoria, ossia quello che qualcuno ha codificato e definito prima che arrivassimo noi ad attingere a questo sapere. La teoria discende dall'osservazione e anche dalla pratica così, in fin dei conti, si potrebbe dire che tra teoria e pratica non c'è poi tanta differenza. Il primo teorico nella notte dei tempi deve aver raccolto le informazioni necessarie a dare delle definizioni che poi qualcuno ha sperimentato in pratica e per far questo deve avere avuto delle fonti di ispirazione non solamente "teoriche", scusate il bisticcio. E' come un serpente che si morde la coda, eppure teoria e pratica, secondo me, sono separate tra loro da un solco come un fossato attorno ad un castello. Se mi si chiedesse di immaginare la teoria direi che la vedo come un contenitore la cui dimensione varia a seconda della quantità del contenuto, e dove la forma del contenitore non ha assolutamente importanza ai fini del ragionamento. Dentro questo contenitore si vanno accumulando nel tempo una serie di informazioni che raccogliamo lungo il percorso, ciò che impariamo a credere come reale perché lo riconosciamo come tale, e tutto ciò che ci viene dato come informazione impacchettata e sigillata con suggerimento di crederci senza verificarla. Pur tuttavia non è ancora "pratica", l'informazione riconosciuta come realtà, che sia stata dedotta o sperimentata, è ancora "teoria", secondo me. E' teoria perché è sempre custodita dentro quel contenitore di cui ho detto prima. La pratica prevede invece l'azione totale e lo svolgimento del concetto, una sorta di traduzione delle informazioni in maniera tridimensionale, materiale, se così vogliamo metterla. La pratica è continuità di azione che attinge alla teoria, sì, ma resta pur sempre se stessa in virtù della differenza tra la teoria e la pratica. Vedo così la teoria come la parte trasparente eppure "reale" e la pratica il corpo che le permette di manifestarsi e rivedersi nella materialità. Un po' come l'anima, per chi ci crede, e il corpo, in ogni essere umano. Come il dire, di sensazione immateriale, e il fare che entra in contatto con la materia. Come si fa allora a superare questo fossato? Eppure la teoria e la pratica comunicano fra di loro costantemente poiché l'una attinge dall'altra per alimentarsi. L'una senza l'altra sarebbero incomplete e ci lascerebbero nell'ignoranza di molti concetti importanti. La teoria custodisce i dati necessari alla pratica perché essa ci porti un passo più avanti di dove eravamo ieri. Il loro integrarsi passa attraverso ciò che siamo, e noi siamo l'anello che le congiunge, perché quando lasciamo agire il nostro potere decisionale usiamo le informazioni e diamo il comando di azione. E' il nostro scegliere che fa la differenza e arricchisce la teoria che abbiamo imparato dagli altri. Quando ci facciamo una nostra teoria in qualche modo ci emancipiamo dal resto del calderone di pensieri preconfezionati ai quali siamo stato esposti per tutta la vita, finché non ci svegliamo e comprendiamo che è nelle nostre mani la possibilità di elaborare i dati acquisiti. E' vero, all'inizio, siamo costretti dalla circostanza dell'essere bambini, a cibarci delle informazioni e dei pensieri che ci vengono dati perché ne abbiamo bisogno per crescere forti e robusti come rampicanti, abbiamo bisogno del sostegno su cui iniziare il nostro specifico percorso. Dopo, spetta a noi singolarmente, con le nostre forze, prendere la teoria preconfezionata e rivederla attraverso la pratica, per verificare se funziona oppure no, per noi, nello specifico. Che senso ha seguire gli schemi altrui se si riesce a comprendere che siamo capaci di svilupparne di nostri? La nostra teoria nascerà sempre da quella altrui, come il passaggio del testimone, ma ad essa dobbiamo, come alla nostra vita, la possibilità di rivedersi da un punto di vista differente, cioè passando attraverso ciò che siamo noi, ciò che è il, e nel, nostro cuore, prima che nella nostra mente o nelle nostre mani. Il nostro contributo alla teoria comune è il nostro punto di vista specifico, con la consapevolezza annessa che è solo il nostro punto di vista e non è universale, è solo uno spunto per chi verrà dopo di noi, e vorrà dei dati in più per la sua elaborazione personale. R.B.Between

mercoledì 6 luglio 2011

Guardarsi dentro

Avete presente la sensazione che si prova quando si corre sempre di qua e di là, cercando di guardare tutto e finendo magari con il non vedere quasi niente? Ci si agita, o si sta dietro a fare cose che non ci appartengono del tutto, né come paternità, né come utilità. Si è laboriosi, si occupa quasi tutto il tempo disponibile di una giornata stando fuori, e non soltanto perché il posto di lavoro o gli impegni lo richiedono, si sta fuori da noi stessi. In verità, questo stare fuori, è la costante distrazione che permette di insonorizzare la maggior parte dei problemi o dei dolori che abbiamo. Se non stiamo a contatto con le cose rognose crediamo di riuscire a migliorare la qualità della vita, eppure ho sempre pensato che questo metodo fosse  adatto per ottenere l'effetto contrario. Se quello che fa male lo metti in un angolo, ma dici a te stesso che poi ripasserai più tardi per occupartene, in realtà lo dici per crearti una scusa perché sai bene che invece cercherai di dimenticartene, per questo lo hai accantonato nell'angolo. Ci sono al mondo tanti modi per lasciare parcheggiati i problemi all'angolo invece di farli combattere nel ring, le dipendenze da alcol e droghe ne sono un aspetto. E alla base di tutto c'è sempre la voglia sconfinata di non soffrire accompagnata spesso dalla percezione della propria debolezza a reagire da combattente. E' più facile lasciarsi andare e mettere nell'angolo il problema la cui soluzione spesso è complessa, ma non impossibile, e lunga da elaborare. Ecco perché guardarsi dentro è cosa amata oppure odiata, con pochissime sfumature in mezzo. Così, dopo lungo peregrinare "fuori", se si riesce a sentire la necessità, o l'urgenza, di guardarsi dentro si potrebbero scoprire cose meno terribili di ciò che si pensava. E molte cose potrebbero essere più facili da affrontare di quel che si crede. Se poi, quando siete decisi ad intraprendere il viaggio dentro di voi, vestite il vostro animo come quello di un bambino che sa stupirsi di ogni cosa, avrete con voi il passe-partout necessario a condurvi oltre molte porte chiuse. Non vergognatevi di potervi stupire sempre, qualsiasi sia la vostra età, il piacere di scoprire qualcosa dentro di voi, o di riscoprirlo nuovamente sotto una diversa luce, è una bella esperienza comunque.
Ho preso spunto per questa breve riflessione ascoltando e leggendo alcune righe del testo di questa canzone dei RHCP. "Snow (Hey Oh)" è anche la prima canzone che ho ascoltato di questo gruppo e che mi ha aperto le porte al resto della loro musica. Questa è la prima e una delle mie preferite.

Una luce per il cammino

Ogni volta che ti alzi al mattino, e ti appresti a fare le stesse cose, diventi sempre più abitudinario e inconsapevole dei soliti gesti e questo solo perché li compi e basta. Un po' come se la costante ripetizione  sottraesse la presenza di spirito necessaria a rimanere ben collocati nel presente. Le cose abitudinarie, specialmente se noiose, fatte senza rinnovare la volontà nel farle assottigliano la vitalità e fanno dimenticare lentamente lo scopo che le genera. Se si dimentica lo scopo, ci si affievolisce come una fiammella che si sta spegnendo. Se la fiammella diventa debole la luce diminuisce e il cammino risulta meno illuminato. Non tutti hanno la fortuna di fare quotidianamente ciò che piace o qualcosa di stimolante per cui, per i più, è necessario risolvere la questione del convivere con la routine che abbatte l'interesse. Se lo scopo per fare è il motore che permette l'andare è altrettanto vero e possibile definire lo scopo come una luce per il cammino nella vita. Lo scopo è la motivazione che accoglie al suo interno, come in un sacchetto, tutte le attenzioni che abbiamo per la meta da raggiungere. Quante volte mi è capitato di alzarmi e di non avere voglia di fare le cose che avrei dovuto fare, semplicemente perché erano senza uno scopo preciso, erano solo cose faticose da affrontare, senza nessun tipo di riscontro. Benché sia saggio fare ogni cosa senza volere nulla in cambio, qualche volta il desiderio di vedere un qualsiasi risultato, ti fa anelare ad ottenere qualcosa in cambio. Per una casalinga, per esempio, fare le pulizie di casa o badare a figli o marito o compagno, o viceversa se si stesse trattando di un uomo casalingo, fare ciò che fa ogni giorno, dando gran parte di se stessa con lo sforzo fisico e mettendo parte del cuore o tutto in quello che sta facendo, presuppone un riscontro da parte di chi usufruisce dei risultati del lavoro svolto. In questo caso lo scopo alla base del lavoro è fare stare bene le persone amate ma, se nemmeno un grazie fosse pronunciato o si credesse che tutto è dovuto, chi compie il gesto di cura, alla lunga, avrà la sensazione di vedere sgretolarsi lo scopo e perderà luminosità. Questo esempio che ho riportato è solo un esempio, altri se ne possono fare guardando come componiamo giornalmente le nostre esistenze. In fin dei conti avere uno scopo è solo raccogliere parte della nostra attenzione e dirigerla verso qualcosa e poi fare tutto il percorso richiesto senza mai mollare la presa della volontà, continuando a curare ciò che stiamo facendo con lo stesso amore costante. La ricerca dello scopo, invece, è più complicata perché dipende da ciascuno di noi, dai nostri desideri e da quanto vogliamo avere in cambio, se lo vogliamo. Anche l'interesse, o il disinteresse, al tornaconto personale possono essere uno scopo, tutto dipende dalla nostra scelta e da ciò che abbiamo ascoltato esistere in noi. Arrivare dove ci si è prefissati di arrivare è meta e scopo, e il mantenimento attivo dell'attenzione ai passi su questo cammino porta a rimanere presenti in noi stessi, che è la condizione necessaria per non soccombere alla ripetitività dei gesti. Questo al di là del desiderare qualcosa in cambio anche se la connessione è forte tra lo scopo e la gratificazione da risultato. La presenza in sé permette di essere creativi ed anche di spostarsi di pochissimo, ma che sia quanto basta, dal solito punto di vista. Tutte manovre per resistere alla diminuzione di luminosità innescata dalla routine. Perché qualche volta non ci possiamo fare niente, i giorni scorrono piatti, senza nessuna allegria, solo tu, a tu per tu con la fatica, e alla fine della giornata se dovessi riassumere il discorso, non ne ricaveresti neppure un vocabolo. Fa parte della vita, di alcune vite umane che mandano avanti il loro carro, ma non sanno più dove andare, o non lo hanno mai saputo,  eppure vanno dritti lungo il cammino anche col buio. Ma se queste vite avessero una luce per illuminare la via potrebbero arricchire il loro vocabolario serale perché ogni giorno lo avrebbero impiegato per costruire il passo successivo necessario a nutrire lo scopo. Ad alimentare la luce. Se qualche volta, poi, lo scopo dovesse venire a mancare, bisognerebbe saper trovare la chiave per rinnovarsi, per non precipitare nel piccolo vuoto creatosi. Certe volte potrebbe pure accadere che lo scopo si sia raggiunto senza neppure accorgersene e il resto del cammino, da un dato punto in poi, sembri incerto perché troppo in ombra, ecco allora che la mancanza della luce che prima percepivamo dovrebbe suonarci come allarme. Rendersi conto dunque che è tempo di accendere una nuova fiammella nella volontà per colorare di nuovo la vita. A voi la scelta tra le varie offerte del cuore, che sono sempre, a mio avviso, le migliori. 

lunedì 4 luglio 2011

Exercises In Free Love, Freddie Mercury

Pachelbel - Canon in D Major -

Certezze

Appigli per la mente. Delle certezze c'è chi ne ha un disperato bisogno per vivere, come accade per l'aria, se ti manca, manca il respiro. E c'è chi ne sa fare a meno perché ha compreso il segreto che sta alla base o per il semplice fatto che non gliene importa. Molti, appena ne sentono la mancanza o l'allontanamento, entrano in agitazione, se si tratta della prima categoria di persone che ho citato, e da questa agitazione discendono eventi a cascata che portano al desiderio di recuperare questo appiglio necessario. Cosa si è disposti a fare per avere o riavere delle certezze? Basta chiederselo, ma questo è possibile solo se si è in quella fase di semiconsapevolezza che ti permette di interrogare il tuo stesso animo, altrimenti staresti solo vivendo l'asfissia da mancanza di certezze, e staresti soffrendo, o staresti disperandoti come un essere perduto senza più i suoi punti cardinali. Perché le certezze, in fondo, sono come dei punti fissi di riferimento che permettono di procedere nella vita se non ci sentiamo in grado di sostenerci da soli sulle nostre gambe. E avremmo anche delle ali, se riuscissimo a fare a meno di alcune certezze. Questo ragionamento, sono consapevole, è estremamente contestabile, poiché ciascuno troverebbe mille appigli per giustificare il proprio bisogno di base di certezze materiali o sentimentali. E in certi casi questi bisogni non sono così discutibili. Magari parlo perché sono una persona che non è mai andata a caccia di certezze, ho preferito esplorare la conoscenza nel cuore delle cose con le quali ho avuto a che fare. Sono stata comunque fortunata ad avere le spalle coperte, materialmente parlando, anche se quello che ho avuto, e ho tuttora, non mi concede altro che quanto basta per vivere dignitosamente senza eccedere. Eppure non ho mai cercato il di più nel lavoro, mi infastidisce la competizione, e finché ho quanto basta, anche se precario, sto bene. Per qualcuno non è così. Conosco persone che se non hanno un entrata fissa a fine mese vanno in crisi e non so cosa, una pressione costante di questo tipo, potrebbe generare sul loro animo. Certe volte la mancanza di una certezza può renderti una persona peggiore, perché la rabbia per impotenza scava gallerie come fanno i tarli nel legno. Alla fine la struttura tarlata cede nei punti cavi. Il malessere da mancanza di certezze materiali può renderti più duro e aggressivo oppure depresso oppure può trovare un terreno che permette di trasformare il famoso bicchiere mezzo vuoto in uno mezzo pieno. C'è infatti chi si sente liberato da un peso quando perde una certezza che credeva essere vitale. Come sempre le sfumature possibili sono innumerevoli, ciascuna per ciascun caso. Dipende dalla predisposizione che ogni persona ha e nell'atteggiamento che essa sviluppa sotto pressione. Se una certezza per qualcuno è positiva per qualcun altro può essere negativa, specialmente per chi ama librarsi leggero nel cielo, senza una meta, per assaporarsi il gusto di ogni istante. In questo caso le certezze sono una zavorra inutile. Riuscire a comprendere che la panoramica sull'argomento è ampia permette apertura nei confronti del percorso di vita di ogni essere umano. Ci si può schierare dall'una o dall'altra parte, ora stare per i camminatori che guardano sempre il sentiero per non perdere l'orientamento dato dalla dirittura della strada, ora stare per chi vola e usa le stelle per non perdere il cammino. L'ideale sarebbe la via di mezzo che riconosce l'utilità di entrambi gli atteggiamenti, perché se è vero che una certezza ti permette di avere stabilità nell'andare è anche vero che, come rovescio della medaglia, ti porta ad adagiarti nel posto comodo che hai trovato, così affinché la certezza, qualsiasi essa sia, non diventi un rifugio o un bunker inespugnabile, è anche utile che qualche volta venga a mancare per insegnarti a mettere fuori le ali, o meglio a farti ricordare che ci sono, da qualche parte, ali sempre a disposizione per iniziare, in qualsiasi momento una lezione di volo.

domenica 3 luglio 2011

Tornare e "Going Back" di Freddie Mercury quando si faceva chiamare Larry Lurex

Credo che parte dell'essenza del tornare stia nel capire tutte quelle cose che prima non comprendevi e che adesso puoi mettere a posto, ciascuna nella sua casella dentro di te. Una goccia di nostalgia c'è sempre durante questo viaggio verso il recupero delle cose dimenticate che hanno fatto parte del tempo passato, specialmente quando, inevitabilmente, si comparano con quelle presenti o quando, più audacemente, si misurano con i sogni o i desideri che si proiettano nel futuro. Siamo fatti di un impasto di tempo ed esperienze che cerca sempre di guardare dove sta andando, finché non si incontrano crocevia di pensieri che ti inducono a sceglierne uno che sia più forte degli altri al quale aggrapparti per riuscire a tornare indietro incolume, poiché il tempo non lo permette tanto facilmente. Se ti accorgi che il tempo ha lasciato su di te dei segni non è detto che li abbia lasciati anche dentro di te, e per qualcuno è vero anche questo. Così hai la fortuna di sentirti giovane anche se il tuo corpo lo è meno. Freddie Mercury, Faroukh Bulsara ha avuto l'animo integro e vitale nonostante la malattia che alla fine ha consumato il suo corpo, e quando era agli inizi della sua carriera ha dato al pubblico questa canzone speciale. Oggi ho guardato alcuni videoclip musicali dei Queen e ho pensato che se il tempo si fosse riavvolto, e questo giovane artista avesse preso una strada diversa da quella che ha preso, non avremmo avuto la possibilità di conoscere una voce tanto speciale. Ma se non fosse diventato famoso la vita avrebbe preso forse ugualmente il corso che ha preso solo che nessuno ne sarebbe stato a conoscenza. Essere ignari delle cose è la stessa cosa dell'essere inconsapevoli, un sinonimo, uno spunto come un altro per l'ennesima riflessione per chi ha voglia di intraprenderla. Credo anche che, a parte tutto, tornare, con le sue specifiche modalità fatte di dove o come o quando o perché sia talmente personale che questa volta dovrei limitarmi a lasciare uno spazio di silenzio, vuoto, per tutti coloro che ci volessero aggiungere tuffi, con o senza trampolino, in se stessi. Posso solo dire cos'è per me tornare e cosa questa canzone mi fa provare. La parola è un concetto che mi trasporta adesso, in questo mio tempo presente, su di un filo teso tra due estremità e mi invita a camminarci sopra in equilibrio. La corda non deve essere troppo in tensione altrimenti si cade e il passo deve essere accorto, che veda l'anima presente fin nelle punte delle dita dei piedi. I crampi sono banditi, lo sguardo mai deve essere diretto verso il basso, bensì in avanti verso l'orizzonte; la corda si deve sentire non si deve guardare, come la vita. Tornare allora stranamente mi si ricongiunge con l'andare dove il mio cuore ha lasciato parti di sé. Avrei bisogno dell'equilibrio da funambolo proprio per non sbagliare di nuovo qualora potessi tornare davvero indietro al punto cruciale. Ma la realtà è che il vero tornare sarebbe per me far riaffluire il sangue nelle parti che adesso ne sono meno irrorate. Quando torna il calore tutto il fisico ne trae beneficio. Ho contratture e rischio crampi ma il desiderio di comprendere come fare a gestire l'equilibrio in questo frangente mi fa proseguire con discreta fiducia. Tornare è ricongiungimento di parti separate, è trasformare la distanza in dialogo, e anche se so che certe cose non sono possibili voglio crederci lo stesso, come atteggiamento che nutre i difficili passi da equilibrista in bilico sulla fune sospesa nel tempo. E quello che ho dentro non è mai invecchiato così, più o meno, saprò sempre come fare a tornare là dove sento che c'è bisogno di tornare. Con amore.

Questo è il testo della canzone Going Back
Going back
Think I'm going back
To the things I learnt so well in my youth
I think I'm returning to
Those days when I was young enough to know the truth
Now there are no games
To only pass the time
No more colouring books
No Christmas bells to chime
But thinking young and growing older is no sin
And I can't play the game of life to win
I can recall a time
When I wasn't ashamed to reach out to a friend
And now I think I've got
A lot of more than just my toys to lend
Now there's more to do
Than watch my sailboat glide
And every day can be
My magic carpet ride
And I can play hide and seek with my fears
And live my days instead of counting my years
Then everyone debates
The true reality
I'd rather see the world
The way I used to be
A little bit of freedom's all we lack
So catch me if you can
I'm going back
Larry Lurex (Freddie Mercury)





venerdì 1 luglio 2011

Pagina bianca

Chiunque scriva sa cosa significa trovarsi davanti ad una pagina bianca. Il foglio che hai scelto se ne sta lì, dove lo hai messo, in attesa. La sua miglior caratteristica è la pazienza mentre tu aumenti l'inquietudine, ogni minuto che passa, senza aver mosso la mano collegata alla mente. Vi fronteggiate, tu e la pagina bianca e, se si trattasse di un duello, si direbbe che vi state studiando. Colui che scrive attinge da un luogo del tutto speciale, il flusso di parole che ogni scrittore o poeta conosce e sa che troverà sempre là, nel suo posto particolare, anche se ciascuno vi arriva da un indirizzo differente. Una specie di magia proprio perché, per tutti, il flusso e la sua forza sono gli stessi. Differente il modo con cui lo scrittore vi giunge. Lo scrittore è un essere umano come gli altri, con le sue stravaganze, le sue paure, le sue gioie e i suoi dolori, mangia e dorme come tutti ma, qualche volta, può essere sufficiente una sola parola per innescare il meccanismo. Come un campanellino, che può essere un nome, un colore, una forma, un contrasto di cose, risuona dentro di lui e inizia il viaggio. Uno dei suoi occhi rimane ad osservare il movimento della mano che tiene la penna, o più attualmente, osserva dita che volano veloci sulla tastiera di un computer, mentre l'altro occhio guarda oltre ogni confine umano, alla ricerca delle parole più opportune per descrivere ciò che il suo animo sta sentendo. L'occhio speciale dello scrittore ha la stranissima caratteristica di ascoltare come sa fare l'orecchio, ma non dite di lui che è un mostro, per favore. Questo strano occhio osservatore/ascoltatore è sensibilissimo alle opinioni altrui e, anche se non si offendesse, ne rimarrebbe comunque dolorante. Quest'occhio dalla caratteristica parabolica si sintonizza sul flusso e ascolta tutto. Se lo scrittore non mettesse un filtro, miliardi di parole, contemporaneamente, si fisserebbero sulla pagina bianca in attesa creando un caos incredibile, e nessun discorso sarebbe di senso compiuto. Lo scrittore usa come filtri, per non imbrattare la pagina bianca -le deve pur qualcosa per la sua pazienza- le sue idee. Di solito tende a scegliere le più brillanti perché c'è sempre bisogno di luce quando si scrive, e anche quando si legge. Ecco dunque che la pagina bianca smette lentamente e progressivamente di essere tale. Le frasi si compongono e dànno vita ai discorsi che contengono i concetti, così la carta assume un aspetto diverso, prezioso direi, poiché le parole catturate dal flusso nascono nella notte dei tempi dai pensieri dei cuori umani e da tutte le loro avventure. La pagina bianca, dunque, si trasforma da paziente supporto a custode di palpiti e memorie, e brilla, e sono sicura che, dopo essere stata scritta, se vi avvicinate e la toccate, potete sentire la vibrazione degli stessi pensieri che le sono stati affidati. R.B.Between