domenica 27 novembre 2011

Voce perduta e suoni ritrovati

Anche l'anno scorso ho perduto completamente la voce. Oggi non riesco a produrre suoni se non con grande sforzo. L'anno scorso avevo dentro un massiccio groviglio di sentimenti e dispiacere, che il giorno in cui ho perduto la voce mi sono messa a scrivere. Ho prodotto un lungo scritto denso di tutto quello che avevo dentro, e che non potevo esprimere, perché mi sembrava di aver perduto non soltanto la voce prodotta dalle corde vocali ma anche la voce dell'anima. Era un periodo così, uno di quelli che, quando ne parli, non puoi fare altro che allargare le braccia arrendendoti a ciò che c'è. Oggi che la voce manca di nuovo ho ripensato a quel che scrissi allora, a quanto dolore c'era e a quanto dolore c'è ancora ma diluito con tanta pazienza dal desiderio di comprendere e non soccombere. Sono ancora metaforicamente senza voce per certi motivi e spiegarlo alla mia testardaggine non è diventato più facile ma si procede. In più, rispetto all'anno scorso, ho un oggetto che mi permette di ascoltare la musica come non la riuscivo ad ascoltare da tempo. Prego, cercate di non mettervi subito a ridere, ma dopo tanti anni di ascolto di musica con gli auricolari mi sono regalata delle cuffie quasi professionali e devo ammettere che il cambio non ha paragoni. Chi mi conosce sa che anni fa ho avuto dei problemi con l'udito e sa che per molto tempo non ho potuto ascoltare musica con auricolari o cuffie che fossero, poi piano piano mi sono riadattata con i semplici auricolari, fino ad oggi. Sentendoci meno si perdono tantissime sfumature di suoni, ma fino a stasera non mi ero resa conto che una cuffia, che ti permette una più ampia gamma di sensibilità, si rivela un valido aiuto per chi ha il mio problema. Così eccomi qui, muta, con in cuffia la mia musica preferita mentre scrivo sul blog. Una forma di relax, anche se per i colpi ricevuti resto sempre vigile sotto pelle. La musica aiuta a distendere la tensione dei ricordi legati alla metaforica perdita di voce. Ho scelto di scrivere questo post perché comunque, sapendolo notare, per le piccole cose, quelle che si potrebbero definire di poco conto, che, in certe occasioni, saremmo portati a vederle più grandi di come sono realmente, c'è quasi sempre una sorta di equilibrio, di pareggio, per cui l'adattamento del destino tra la perdita e l'acquisto o il recupero si equivalgono in peso. Non ho voce ma ho suoni che non apprezzavo da tempo. Questo è un piccolo equilibrio se non vi sono pretese. La voce tornerà finita l'influenza, questo dovrebbe essere non un atto di fiducia ma la consapevolezza dell'evolversi di un evento che si  conosce. L'anno scorso, in queste stesse condizioni, ho imboccato un diverso sentiero nei pensieri e, seguendolo, mi sono trovata immersa nel racconto che ho creato. Mi sembrava che tutto quello che avevo dentro premesse così tanto da mescolare la realtà semplice di un calo di voce con la percezione di una perdita immensa, quella del non poter più parlare con qualcuno. In quel sottilissimo spazio che è il confine tra la realtà dei fatti e quello che abbiamo dentro è facile scivolare in sacche di pensiero nel quale, nel mio caso, quel giorno nacque la metaforica storia di colei che perde la voce pur essendo sana e deve convivere con questa perdita. Non potendo parlare scrivo, come del resto faccio sempre, anche avendo a disposizione lo strumento voce; ho imparato a farlo. Quello che ho perduto, invece, parte dell'udito, parte del cuore, sono sempre presenti come mancanza, come vuoto dove nessuna tessera sostitutiva riesce ad adattarsi alla forma che trova. Mi resta la musica da ascoltare, moderando il volume per non sovraccaricare i timpani, e la musica che viene da dentro di me, quella che il cuore emette ancora, pur nella consapevolezza che la realtà di un dolore può rimanere tale per un tempo più lungo di quel che si vorrebbe.

venerdì 25 novembre 2011

Come stai?

Due parole, poche lettere, una domanda di cortesia così come una richiesta che nasce da dentro, in profondità, nel luogo dove si accumulano sentimenti annodati a pensieri, specialmente quando il tempo e lo spazio separano colui che pone la domanda e il destinatario della stessa. Quando è domanda di cortesia però non ha meno importanza, si tende magari a trascurarne il peso reale, così si risponde con altrettanta cortesia che si sta bene o che comunque le cose vanno, spesso per non addentrarsi nel vero stato in cui siamo o ci sentiamo. Va bene così e si passa oltre. Ci sono poi le volte in cui, chiedendo come stai a qualcuno, si mette tutto il desiderio e la speranza che l'altro stia bene nella domanda e con coraggio si attende la risposta perché non è scontato che questa sia sempre totalmente positiva, dal momento che fa parte della vita inciampare in qualche ostacolo, ed è la paura che l'altro possa stare male a far pensare così qualche volta, almeno così è per me più spesso di quanto vorrei. Il percorso della mia vita mi ha portato a temere forse una volta di troppo rispetto al vivere le cose con la disinvoltura che la vitalità stessa determinerebbe. Ti chiedo, dunque, come stai perché non sapere come stai mi fa stare in ansia. Ti chiedo come stai non per farti un torto rammentandoti come ti senti, se in quel momento non stai bene, ma perché (si perdoni dunque la persona che fa la domanda) certe corde del cuore hanno bisogno prepotente di sapere. E questo sapere va di pari passo con il sentimento che si prova per la persona alla quale ci stiamo rivolgendo. Non c'è tempo perché arrivi fino alla mente ragionante il dubbio che questa sia una domanda inopportuna, anche se talvolta in determinate circostanze lo è. Si chiede, sperando che quel filo di disperazione che porta in superficie la preoccupazione per lo stato di benessere altrui non trapeli troppo vistosamente. E tuttavia è l'abitudine a parlare che fa nascere la domanda ed io, che uso quasi esclusivamente la parola, un giorno ho commesso un errore. E quel giorno ho incontrato qualcuno che mi ha fatto notare che c'è un'alternativa al chiedere come stai, specie se si sta tanto male da non avere parole per rispondere a quella che in quel caso sembrava una domanda tanto superflua da essere fuori luogo. Avrei dovuto capire leggendo nei suoi occhi il dolore che li velava fino a straripare come un fiume in piena, avrei dovuto sentire i battiti del suo cuore riconoscendo il punto in cui uno di essi mancava, avrei dovuto sentire ad occhi chiusi ogni suo grido silenzioso ed avrei dovuto in silenzio, senza domande in mezzo, aprire le braccia e accoglierlo con tutto il suo carico di emozioni e pensieri mettendo da parte me per un po'. Ed ora che guardo indietro, anche chiudendo gli occhi, ricordo, perché queste cose le sentivo anche se, invece di abbracciare soltanto, ho continuato a parlare. Il mio cuore era presente e ricordo ogni solco scavato dal dolore provato perché era nell'aria che si respirava. Superfluo chiedere se si riconosce lo stato dell'altro ma si chiede lo stesso. Non tutti siamo capaci di dire come stiamo, non tutti siamo capaci di chiedere agli altri come stanno né di chiederlo a noi stessi, non tutti siamo capaci di rinunciare a fare domande che in quel momento non servono. Come nella canzone di Baglioni oggi ho ritrovato le sue iniziali nel mio cuore, lì dove riaffiorano più spesso di quello che farebbe bene considerare, talvolta vanificando l'impegno a vivere senza pensarlo. Però accade e insieme a questo sorge dal cuore, da quel punto inciso a fuoco con il suo nome, l'incredibile voglia di sapere come sta, ma la domanda rimane un pensiero e non arriva fino alla corde vocali, si ferma nella gola e annoda qualche ricordo. Dispiace, dispiace per tutto, dispiace per le cose non comprese. Resta viva comunque quella pulsazione del cuore che vorrebbe sapere come sta una persona che non si dimentica facilmente...

mercoledì 23 novembre 2011

In una nicchia della fiducia

Una nicchia è un luogo raccolto, un po' nascosto alla vista, protetto, dove possiamo riporre cose importanti da ricordare o da dimenticare, poiché una nicchia permette entrambe le custodie per astrarle dal corso normale del tempo, l'una per tenere presente, l'altra per lasciare a riposo la memoria. L'essenza di una nicchia metaforica prevede anche che in essa si accumuli la potenzialità in attesa che si dispieghi. La fiducia è credere con il cuore lasciando voce in capitolo alla mente solo in parte. La mente prospera con le cose che sa, che ha appreso, mentre il cuore sente in modo più diretto, percepisce ciò in cui è immerso per risonanza. Avere fiducia in qualcuno è alimentare un pensiero luminoso nei confronti dell'altro, è come creare una potenzialità entro la quale l'altro può muoversi senza preoccuparsi che gli possa mai mancare qualcosa d'importante. Se l'altro è consapevole della fiducia che gli viene data, posto che non ci si spaventi per il conseguente pensiero della responsabilità connessa alle aspettative che possono accompagnare la fiducia, il pensiero, in genere, nutre la stima di se stessi. Credere in qualcuno è averne fiducia, è andare oltre le deduzioni logiche indotte dalle constatazioni, è aggiungere un qualcosa in più e non solo sulla base dell'affetto che si prova per questo qualcuno, almeno per quanto mi riguarda. Il mio modo di fare, il mio voler andare oltre l'apparenza per stabilire una connessione tra cuori o anime, così da resistere agli urti dei possibili errori umani, per comprendere meglio il significato del perdono in determinati casi, mi fa riporre in una nicchia della fiducia tutto quello che compone il mio credere nell'altro. Se sapessi dalla constatazione di fatti reali dimostrati che una persona, fosse anche un amico/a, non è capace di mantenere la parola data, per esempio, o che sicuramente arriverà in ritardo ad un appuntamento importante, la scelta del comportamento da tenere in questo caso dovrebbe seguire la logica del non fidarsi, data l'inaffidabilità della persona in questione. Ma se si scegliesse di andare oltre questa realtà dei fatti, per trasferire la nostra fiducia in questa particolare nicchia, avremmo fatto un dono speciale all'altro. Avremmo ridisegnato l'energia connessa alle aspettative e avremmo dato una possibilità all'altro di uscire dai suoi soliti schemi prevedibili qualora decidesse di farlo. Avremmo creato una potenzialità con il nostro cuore e con la nostra volontà, sia che ci leghi l'affetto o la sommaria conoscenza alla persona. E' solo un modo di fare e di pensare che crea uno spazio dove l'altro ha libertà di cambiare se stesso per spezzare la sua prevedibilità. Riporre questo pensiero nella nicchia della fiducia è solo una parte del credere nell'altro. Avere una chance da qualche parte nel cuore altrui è come avere un bonus di scorta per i momenti peggiori ed anche se l'altro, consapevole di ciò, può decidere di spendere bene o male questo bonus, o può trovarsi costretto dalle circostanze a spenderlo in un qualche modo che confermi o disattenda la fiducia concordata, questo non dovrebbe interferire con la nostra specifica scelta di concedere eventualmente ancora una volta tale particolare chance. Tutto questo senza entrare in merito  al tradimento o a qualsiasi altra grave mancanza, poiché per queste circostanze ciascuno di noi applica la propria legge del cuore. Quello che ho esposto è solo il seme di un pensiero, un proposito per essere meno ristretti di vedute in un tempo in cui mi sembra ci sia grande necessità di dolcezza, di perdono, di non fermarsi ad apparenze determinate spesso da sofferenze varie che ci rendono spesso, agli occhi altrui, meno buoni o belli di quello che normalmente saremmo in tempi di pace e prosperità.

domenica 20 novembre 2011

Finire quello che c'è nel piatto

Molte delle abitudini che ci accompagnano in età adulta ci vengono insegnate da bambini. Se le abitudini sono buone possiamo dare un punto di merito ai nostri genitori. Non provengo da una famiglia ricca e questo ha incluso nell'insegnamento il rispetto per il cibo. Il tempo delle guerre mondiali ha segnato le persone dalle quali discendo così, per loro, avere da mangiare quando ce n'era poco, era importante. Non era un lusso ma aveva un valore perché significava vivere. Oggi c'è abbondanza anche se purtroppo non è equamente distribuita. Voglio però puntare l'attenzione su ciò che vedo intorno a me. Ancor prima di questo parlo di me. Il mio rapporto con il cibo non è facile perché tendo a ingrassare anche con poche briciole quindi devo costantemente sorvegliarmi. Talvolta eccedo perché mi lascio andare, essendo una buona forchetta, ma anche se sono a dieta rigorosa, quando devo limitarmi, non lascio mai nulla nel piatto. E' una cosa che non mi piace lasciare del cibo nel piatto e, anche se sono piena, mi sforzo un pochino ma finisco. Non riesco a non comportarmi così e se vedo qualcuno che lascia avanzi nel piatto parte del mio cuore soffre. Questa sofferenza non deriva dal pensiero che qualcuno non ne ha in qualche altra parte del mondo, devo essere sincera, seppure sia consapevole di questa grave mancanza, è legato alla consapevolezza che ogni cosa che ci nutre vegetale o animale è un dono che abbiamo a disposizione per mantenerci vivi. Il minimo che dobbiamo in risposta a questo è il rispetto e l'impegno a non rendere vana la loro presenza per noi. Lo spreco, di qualsiasi tipo esso sia, è disprezzare quello che ci permette di prosperare. Proprio perché molto abbiamo a disposizione non dovremmo sprecare. La scelta che deriva dall'avere molto non dovrebbe autorizzare, come tanti credono, ad abusare di questo privilegio. A meno che non si sia affetti da qualche malattia o veramente sia impossibile finire ciò che abbiamo nel piatto, credo che una certa elasticità sia possibile, pensando che quella delle pareti muscolari dello stomaco vada di pari passo con quella mentale. Oppure, in caso contrario, ci sia almeno una dose di buon senso che faccia ordinare una portata in meno dal menù. Basta poco e lo spreco si riduce. Questo vale per le uscite al ristorante. A casa si può fare di meglio, si possono riutilizzare gli avanzi creando nuove ricette, risparmiando e continuando a nutrirsi in modo efficace, posto che non si abbia la pretesa di avere sempre, ad ogni pasto, tutto perfetto come al ristorante. Si narra che ciascuno abbia libero arbitrio per decidere per se stesso ma io spero sempre che il buon senso e l'umanità, la dolcezza del cuore e la consapevolezza, qualche volta riescano a spodestare un po' di quelle abitudini che vedono protagoniste le esagerazioni dell'ego. E' vero che si combatte per conquistarsi la libertà di fare ciò che si vuole, fa parte dell'emancipazione umana sperimentarlo in varie occasioni, ma se l'equilibrio in questa ricerca venisse contemplato più spesso si riuscirebbe a vedere meglio il percorso che ci si dipana di fronte. E stare attenti a ciò che abbiamo nel piatto, così come averne rispetto accettandone la dose adattandosi alla giornata, è un punto di inizio. Un inizio per modificare un'abitudine, un inizio per conoscere meglio noi stessi tramite l'osservazione del nostro modo di fare e di quanto siamo disposti a piegarci per adeguaci ad una forma diversa, per proseguire su di un sentiero diverso che richiede un passo diverso.

Quasi mai si ottiene ciò che si desidera, però...

Nella maggior parte dei casi questa è la verità. C'è anche chi ottiene praticamente sempre ciò che desidera, i casi credo siano entrambi contemplabili. Penso a tutte le volte che ci si impegna e si crede in qualcosa con grande partecipazione ma, alla fine dei giochi, il risultato non corrisponde a quello che avremmo voluto o sperato. Qualche volta si ottiene il nulla e la partita finisce pari e, qualche altra, qualcosa si ottiene, forse l'esatto contrario o, magari, si ottiene qualcosa che sia in anticipo o immensamente in ritardo. Una sorta di sfasamento che non rispetta la nostra aspettativa e che innesca differenti reazioni e sensazioni. Ciò che accende la scintilla della reazione che ci mette a disagio è l'aspettativa delusa. Nulla di più semplice, eppure estremamente naturale, poiché siamo vivi. Essere "vivi" in questo modo, nella radice della passione, nel motore che muove ogni desiderio di avere qualcosa, abita parte dell'ego che ci sostiene e che ci fa creare i pensieri. Pensieri intrisi di desideri e di elucubrazioni logiche o meno logiche su tutto ciò che ci circonda. Molto, delle aspettative, nasce dal giudizio che diamo o dall'idea che ci facciamo sulle cose o sulle persone. Un ricamo mentale istintivo che talvolta sopperisce alla mancanza di informazioni sull'oggetto, o sul soggetto, in questione. Altre volte è il desiderio che porta a ricamare e a condurre l'immagine mentale ad allontanarsi dalla forma reale che avrebbe se ci limitassimo alla sola osservazione oggettiva. Qualche altra volta è il benessere provato che fa allontanare un po' dalla via principale, se in esso ci adagiamo abbastanza da lasciare a briglia sciolta la consequenzialità dei pensieri. Quando stiamo bene smettiamo di mettere in conto le cose meno piacevoli, è naturale, e in questa specie di nicchia protetta è ancora più facile far partire la fantasia verso la costruzione di pensieri, di progetti, è qui che nascono con grande facilità i desideri, dalla consapevolezza dell'avere o del poter avere e del poterci contare sopra, senza pensare ad altro. L'aspettativa nasce di conseguenza se non ci ricordiamo costantemente che nulla dura per sempre esattamente così come si presenta. Si lavora dunque perché si vorrebbe ottenere qualcosa che ci aspettiamo di ottenere, creando mentalmente una previsione che spesso non tiene conto dei fattori della realtà. Veliamo lo sguardo del presente con il desiderio del futuro sulla base di ciò che pensiamo, molto poco sulla base di ciò che sappiamo veramente per certo. Alla fine il risultato è frutto del ramo a cui appartiene e del quale non conoscevamo bene la reale forma. Ciò che si manifesta è conseguenza del percorso che spesso preferiamo non osservare fino in fondo, "accontentandoci" con presunzione di ricavarne tutte le informazioni necessarie alla sua definizione solo al primo sguardo. Facile rimanere delusi se il risultato non supera la prova del nove. Passiamo così tanto tempo ad architettare pensieri su pensieri per costruire la forma al desiderio che vogliamo coltivare o nutriamo il giudizio su qualcuno senza vedere oltre, fidandosi solo delle apparenze, non tenendo conto che prima o poi la verità si dispiega causandoci disillusione, anche se non sempre è così, e meno male! Pensate all'aspettativa delusa scartando un pacco regalo che pensate contenere una data cosa perché, magari, avete "captato" da frammenti di discorsi di un amico, o di un parente, che potrebbe essere ciò che desiderate da tanto tempo, credendo che ve ne sia fatto dono, poi invece scoprite che le cose stanno in modo diverso. Credo che all'inizio ci si rimanga sempre un po' male, che si sia delusi, ma questa dell'esempio è una sciocchezza in confronto a delusioni più profonde che ci coinvolgono personalmente specialmente nella sfera dei sentimenti. Per quanto mi riguarda, in circostanze simili, più che delusione ho sempre sentito esserci profondo dispiacere. Questo sentimento mi ha fatto capire quale sia il peso delle aspettative anche se non so cosa faccia più male se la disillusione o il dispiacere. Entrambi sono laghi grigi e freddi dove si rimane soli lì nel mezzo a galleggiare. Se una piccola sfumatura c'è la si trova nel dolore da impatto che poi determina l'eventuale ripresa. Nella disillusione l'orgoglio si ferisce un po' di più data la sua presenza, una ferita aperta sanguina e fa male più di un livido come invece si manifesta nel dispiacere dove il dolore è diffuso. Nella disillusione è ancora vivo il pensiero o il desiderio che combatte con l'accettare la realtà dei fatti e si sta male perché i pensieri si trovano nella condizione di non avere più una collocazione utile per continuare a definire le cose secondo il nostro abituale modo di vedere. Le volte che ho provato dispiacere, leggendo nel mio cuore il motivo, ho visto, in assenza di orgoglio, una maggiore propensione all'arrendermi all'evidenza dei fatti, e molto tempo ho impiegato per ridurre il mio dolore da ferita da taglio netto volendo comprendere un punto di vista che non mi apparteneva. Poi si comprende e si vede che la vita offre ciò che offre non per punire né per premiare e che ciò che si desidera nel modo "errato" viene naturalmente scartato dai doni che ci vengono fatti. Desiderare nel modo "errato" non significa che un desiderio è sbagliato, non è questo, è solo per dire che al di là di ciò che noi desideriamo, qualche volta può succedere che ciò che desideriamo non coincida con i piani che la vita ha per noi.
 Il lavoro più duro da affrontare è accettare questo, ma se nel cuore, nel profondo del cuore, i veri sentimenti che si provano rimangono vivi, anche se per un po' di tempo malconci, ciò che da lì in poi otteniamo lo sapremo meglio apprezzare senza più rivestirlo di senso del possesso. Un dono è sempre prezioso per quello che è, basta saperlo riconoscere come tale, in qualsiasi momento si presenti, con o senza un bel fiocco sopra, consegnato da un corriere o abbandonato tra i rifiuti dietro casa, piccolo o grande che sia, bello o brutto, con o senza un pensiero che lo accompagni, perché la differenza la faremo noi che lo riceviamo, se nei nostri occhi e nel nostro cuore ci sono comprensione e assenza di aspettative. Quiete dell'anima entro profondo amore è una chiave per la pace.
RBBetween

venerdì 18 novembre 2011

Sensazione dimenticata

Oggi nella mia città hanno interrotto il segnale analogico per la televisione. Si passa al digitale, ma siamo ancora in attesa di vedere uno qualsiasi dei canali tv, vecchi o nuovi. Si è oscurato tutto più o meno all'alba e da lì sono iniziate a scorrere le ore. Un nastro di tempo diverso perché segnato da una così grande novità che, senza segnale tv, fa provare sensazioni diverse. La mia, per esempio, è stata di meraviglia nell'accorgermi quanto sia importante il dialogare con qualcuno per non farsi assorbire dalle maglie di un silenzio imposto dall'assenza di un'abitudine. Ho sempre saputo che dialogare è importante, ma questa consapevolezza è sempre stata teorica, benché mai abbia smesso di parlare agli altri. In questo spazio di tempo senza tv, le parole tra persone che occupano una stessa stanza, hanno avuto la forza che hanno i fiori quando sbocciano a primavera. Dal nulla, come dal silenzio, qualche volta nasce qualcosa di prezioso e, senza il solito rumore di fondo, per un attimo, ho potuto sentire un suono dimenticato, quello dell'esistenza delle persone. Anche oggi, venerdì, ero con nonno Egidio, che vive di televisione, come dice lui stesso. Questo strano balzo in un adattamento obbligato, per un giovanotto della sua età, non è facilmente gestibile, poiché non c'è altro da fare per passare il tempo che non passa. Allora oggi abbiamo chiacchierato un po' di più del solito, così mi ha raccontato qualche aneddoto della sua infanzia e del tempo della guerra. Sembrerà strano ma, anche se la tv avesse funzionato ma fosse stata tenuta spenta, non avrei avuto la stessa sensazione. Mi è sembrato di sentire emergere da un luogo lontano un qualcosa legato al sentirsi più vivi e presenti del solito. Come se il segnale tv, di norma onnipresente, adesso assente, avesse pulito l'aria attorno agli esseri umani con questa sua interruzione. Eppure mentre ascoltavo i racconti del nonno non mi mancava il solito brusio dei programmi abituali. Tutta l'attenzione era raggruppata nell'istante per essere usata efficacemente per ascoltare e per fare domande alla persona vicina. E' così che mi sono accorta della differenza tra questo e gli altri giorni, ho visto quanta distrazione regni quotidianamente dipendendo dai programmi tv, sebbene facciano compagnia in certi casi. E' in questa distrazione che si forma uno spiazzo nell'anima sempre più vuoto e sempre meno visibile per assuefazione alla sua forma e alla sua presenza. Ma chissà che proprio in  questo spiazzo interiore, un giorno, se ci ricordassimo di tornare ad esservi presenti, non nascano nuovi sogni e nuove intuizioni.

martedì 15 novembre 2011

La scelta del punto di partenza

Qualche tempo fa ho fatto delle illustrazioni per un volume che pubblicizzava alberghi e centri benessere. Mi erano stati chiesti dei disegni all'acquerello che dovevano mostrare i simboli di alcune città italiane, i colori però dovevano essere vivi per poter reggere la stampa e dovevano essere come semplici schizzi, ma esaurienti nei dettagli. Fortunatamente avevo dei particolari acquerelli di quando andavo al liceo, aventi la caratteristica di essere meno trasparenti dei normali acquerelli da artisti come se ne trovano oggi in commercio, quindi perfetti per l'impatto e la definizione del colore. La misura del foglio, un A4. Su questi fogli bianchi dovevo fare il disegno senza alcuna traccia di matita sotto. Dovevo partire dal nulla e non potevo sbagliare poiché non avevo tempo per permettermelo. Quindi, dovendo affrontare questo lavoro, mi sono trovata a confrontarmi con la ricerca di una soluzione efficace. Questa soluzione per me è stata scoprire che se si sceglie bene il punto di partenza tutto il resto del disegno viene da sé. La prima pennellata è quella che ti dà, in questo caso senza un disegno come traccia, la proporzione, una specie di prima pietra su cui puoi costruire tutto il resto. Questa prima pennellata è fondamentale. Mi sono divertita a vedere come  il disegno si sviluppava a forza di tratti di colore e sfumature, anche se non potevo distrarmi un attimo. Una volta iniziato lo dovevo portare a termine. Lavorare ad un disegno in questo modo crea tra te e ciò che stai facendo un feeling che non può essere interrotto, altrimenti si perde la freschezza che invece risulterà esserci a lavoro finito. Serve concentrazione, serve attenzione, serve prevedere come si adagerà il colore sulla carta a seconda di quanta acqua c'è, sia nel pennello che sulla carta. Con tutte le conoscenze in mente ci si raccoglie in concentrazione e si parte. Quando mi sono  ricordata di questi disegni e di come li avevo fatti ho poi pensato al fatto che in molte altre circostanze è ugualmente importante la scelta del punto di partenza. Non solo nello spazio, come su di un foglio bianco, ma anche nel tempo. Quante volte capita di non avere alcun riferimento né appiglio sul quale fare affidamento per iniziare qualcosa, pur trovandoci nella condizione di dover iniziare. Se messe alle strette,  molte persone perdono la concentrazione data dalla consapevolezza di avere tempo a disposizione per decidere di fare, e come fare, qualsiasi cosa, quindi si diventa maldestri e i risultati non sono quelli sperati. Riuscire a imparare a capire quale sia il punto esatto per partire senza avere punti tra i quali scegliere richiede esercizio ma soprattutto intuizione. Uscire un po' fuori dalle righe severe di se stessi, per sbirciare oltre la soglia è in certo modo parte della sostanza del feeling con ciò che circonda, quello che permette di ascoltare, anche se non sempre, e non sempre chiaramente, il guizzo veloce e passeggero dell'intuizione. Come cogliere l'improvvisa manifestazione dell'ago invisibile di una bussola altrettanto invisibile ma che, manifestandosi, punta dritto nella direzione della quale abbiamo più bisogno in quel momento. Come tutto il significato che racchiude in sé la prima pennellata nel punto giusto del foglio bianco. C'è poi il fattore tempo, per esso ho sempre creduto che il punto di partenza sia sempre, assolutamente sempre valido in ogni istante, e di questo non mi sono mai ricreduta sebbene, credendo ciò, si debba vivere sapendo accettare come si modificano le cose a seconda delle scelte che si compiono.  Eppure anche se qualche volta si crede di aver perso l'attimo fuggente, o si pensa di non essere più in tempo per fare o iniziare una data cosa alla quale teniamo, io credo che invece si possa inserire la propria volontà in quell'esatto punto del tempo e dello spazio per iniziare un buon disegno, luminoso come un sogno.

venerdì 11 novembre 2011

"Mi fido di te e ti voglio bene"

Un altro venerdì mattina passato con nonno Egidio. Il titolo di questo post è ciò che lui mi ha detto oggi. A me sembra che questa sia una cosa preziosa da dire a qualcuno e speciale sentirsela dire, perché fa prendere coscienza di quello che si è, come rivedersi in uno specchio. Sapere che qualcuno si fida e, in virtù di questo, si affida a te, ti mette davanti tutto ciò che fai e che sei da sempre. Questo specialissimo specchio, che è l'amore altrui, è un po' come un esame di fine corso, laddove il corso è la vita stessa. Se ogni giorno viviamo con l'onestà nei confronti di noi stessi e degli altri, la limpidezza che ci accompagna è la fonte della fiducia alla quale, chi ci sta vicino, può attingere per stare sereno in nostra compagnia. Così, quando ho sentito le sue parole, l'ho ringraziato ma non mi sono accorta subito dell'effetto che, dentro di me, questa frase stava innescando. Ho visto tutto quello che mi ha portato ad essere come sono e mi è sembrato, per un attimo, di essere altrove, in mezzo al luogo dove tutto giunge per la resa dei conti, dove si diventa consapevoli di un tratto in più del vissuto personale, dove per un istante ogni azione viene sospesa per poter accettare la comprensione vestita del riconoscimento dell'impegno che ci contraddistingue. Se non si danno mai per scontate le cose sentirsi dire questo assume un valore maggiore, diventa una carezza per il cuore e la si sente chiaramente, senza incertezze. Se si fosse invece abituati ai complimenti costanti potrebbe sfuggire tutto il calore che la frase racchiude in sé. Come andare sempre di corsa dovunque, come prendere un treno a folle velocità, quando si guarda dal finestrino, l'occhio umano non riesce a distinguere i singoli elementi del paesaggio, tutto si sfuma e si confonde e non sei riuscito a cogliere le particolarità lungo il percorso. L'abitudine sottrae attenzione ai particolari, specialmente quelli legati ai moti del cuore. L'affetto, o l'amore, che ci lega gli uni agli altri è una tra le cose più preziose che abbiamo a disposizione per generare calore interno, imperituro se c'è anche la fiducia, prezioso, inestimabile e inesauribile fonte di gioia. Perderlo è come morire...

giovedì 10 novembre 2011

Disorientata

Oggi è uno strano giorno per essere autunno. Splende il sole, la temperatura è mite, il cielo è azzurro. Non si sbaglia affermando che che è una bellissima giornata. Però non corrisponde a ciò che ci aspetteremmo di norma sapendo che siamo a novembre. In questa parte del mondo è previsto l'avvicendamento delle stagioni. Così si rimane disorientati, il corpo stesso non sa bene come adattarsi a questo clima. Quando non sai qualcosa ti soffermi anche non volendo, rimani lì, e cerchi un appiglio sicuro per poter continuare a pensare nel modo conosciuto. Poi accadono le cose. Oggi non riuscivo a mettere due frasi insieme per scrivere quello che avevo in mente, perché mi sentivo come si sente il corpo in questi giorni autunnali travestiti di primavera, disorientata. Con in più una totale mancanza di voglia di andare avanti e con il peso addosso del percepire che le cose esaurite nella loro funzione segnano la fine di parte del passato. Così, nell'indecisione, nella mancanza di chiarezza che ti assale e ti sta appiccicata, sembra di trovarsi nel fermo immagine dell'essenza di un giorno come oggi, dove non sai se è bene togliersi il cappotto sebbene la stagione detti la regola che dovrebbe servire. Il cappotto però oggi non serve perché fa caldo, ma non è estate. E' solo l'adattamento necessario al presente. Difficile adattarsi al riposo, se anche la terra produce nuovi fili d'erba, verdi come fossero nati ad aprile. Non c'è letargo per l'uomo, è vero, ma dentro, molto in profondità c'è qualcosa in noi che sa che il ciclo prevede un ritmo diverso da adeguare alla stagione, al ritmo in grande della natura, in questa fascia dal clima temperato. In realtà il suono di fondo è così flebile da catalogarlo come inesistente, se non fosse che qualche volta, l'inconscia sintonia che esiste tra gli esseri umani e la terra, faccia sentire disorientati in giornate come questa dove si percepisce l'incongruenza. Gli occhi vedono tutti i colori della primavera e sentono il profumo di qualche fiore, la pelle avverte il calore del sole, ma la mente sa che c'è qualcosa che non va secondo i piani, secondo l'abitudine. Magari a pochi chilometri di distanza il cielo plumbeo, coprendo il sole, fa sentire tutto il freddo tagliente del vento autunnale, per non parlare di precipitazioni piovose con un quantitativo d'acqua pari alla quantità che dovrebbe piovere in metà anno. Salta l'abitudine dunque ad aspettarsi una regola che la natura segua poiché la natura sembra non seguirne più. E noi, che viviamo a contatto con gli eventi dei quali siamo testimoni, se guardiamo la nostra bussola interna, vediamo che gira impazzita senza più un riferimento preciso. Si mina la fiducia nello strato inconscio, ma se crediamo all'esistenza di un rovescio della medaglia per ogni cosa, questo fatto ci insegna il significato dell'adattarsi al presente, dando per scontate meno cose di quante per abitudine saremmo portati a considerare. L'instabilità sottrae forza alla fiducia se vengono a mancare i punti di appoggio per il pensiero. Il clima dell'anima ne risente. La difficoltà è far ripartire la macchina ingolfata della mole di cose nelle quali confidiamo per avere sicurezza, se accade qualcosa che ferma il passo. Quel che accade nella mente che avverte queste stranezze somiglia un po' ad un'operazione algebrica, quando si somma ad un numero un pari valore negativo. Il risultato è zero, la stasi, la mancanza di guizzi di idee. Nessuna trovata geniale, né vivida visione di come stanno le cose, lo zero è adeguamento senza ribattere alcunché, è seguire la corrente perché anche la forza è rimasta intrappolata in qualche maglia della rete che impedisce l'orientamento. Può succedere di sentirsi così, stranamente vuoti pur essendo consapevoli di non esserlo realmente, alle prese con quello che si vorrebbe fare o dire ma con l'impedimento di fondo dato dall'incapacità di coordinare il pensiero per essere efficaci secondo l'intenzione che volevamo seguire. In questo caso non sempre ciò che si produce riesce bene, né ci si può esprimere con chiarezza, sempre che riesca di esprimersi. Questo post è il frutto del mio combattimento interiore per non perdermi in mancanza del mio solito orientamento.

venerdì 4 novembre 2011

Foglie autunnali sull'asfalto

In questi giorni ne cadono moltissime, scendono giù dai rami degli alberi che vegliano i viali cittadini. Il vento e la pioggia, la stagione che cambia, le fanno cadere ma il ciclo della natura si ferma lì, sull'asfalto. Tutte quelle foglie, che in altro luogo andrebbero a nutrire il terreno con la loro decomposizione, sono belle da vedere per i bambini e i poeti, invitano alla malinconia chi è più sensibile ai ricordi e alla consapevolezza mal vissuta del tempo che passa, in realtà sono un fastidio. La città ne farebbe volentieri a meno, così passano i mezzi a pulire le strade (sperando che gran parte di queste foglie venga portata dove si fa riciclaggio del materiale organico), più che altro per necessità, poiché vanno a ostruire le caditoie vicino i marciapiedi aumentando il rischio di allagamenti delle strade. Un fastidio, insomma, tutte queste foglie morte. La struttura cittadina non è pensata per la natura, piuttosto sembra pensata per sfuggire ad essa o per proteggersi da essa. Ogni volta che vedo questo, di rimando, penso sempre a quello che manca per stare bene davvero. Manca il respiro della terra. Poi penso agli interventi umani che per interesse non rispettano né la natura vegetale né la parte di natura che è la terra, ed ai disastri vari che seguono tali interventi. Penso al cemento che ha migliorato, secondo alcuni, il letto del piccolo fiume che scorre vicino al luogo dove abito, con lo strano, per me anche incomprensibile, risultato di far crescere la piena in un tempo brevissimo quando piove abbondantemente, cosa che non accadeva mai prima di quell'intervento. Anche senza nulla conoscere di ingegneria varia, credo che sia facile capire che una massa d'acqua scorra ben più velocemente avendo attrito minore su di un materiale liscio come il cemento. La terra serviva a frenare un po' il fiume in caso di piena. Comunque, non sapendo molto, sono consapevole di poter sbagliare il mio giudizio, mi rimane, per il momento, solo la constatazione pratica. Anche se ho un po' divagato, il tema rimane vicino perché il senso di ciò che ho in mente e nell'anima è che l'essere umano spesso non riesce a creare qualcosa che tenga conto di tutti i fattori in gioco, specialmente quando si tratta di opere in grande, messe su per il "benessere" della comunità. Qui vorrei poter conoscere i nomi di tutti coloro che invece trascorrono la vita ad impegnarsi, per far incrementare le conoscenze e i comportamenti ecologici, che lavorano e combattono per la salvaguardia della natura e della terra e credono nelle energie rinnovabili, lo vorrei per ringraziarli. E' sotto gli occhi di tutti ogni giorno il modo in cui ci comportiamo, magari più negli occhi altrui che nei nostri perché, se fosse nei nostri, qualcosa cambierebbe davvero almeno un po'. Se ce ne rendessimo conto, e nascesse nel cuore anche solo un vago malessere quando vediamo la nostra mano nell'atto di gettare via qualcosa di riciclabile, o quando sporchiamo lasciando ad altri il compito di pulire, forse ci fermeremmo un attimo e diventeremmo un po' più attenti e responsabili, per quanto sia reso possibile dal sistema. Le foglie tornerebbero allora ad avere uno scopo, magari soltanto nella mente, come un campanello che suona ogni volta che incontra una separazione tra l'uomo e la natura. Un promemoria che si attiva una volta l'anno, in quei paesi del mondo dove esistono le stagioni. Le foglie che non possono più nutrire la terra, rimanendo a decomporsi sull'asfalto, invece di finire inutilmente nell'assoluta indifferenza umana potrebbero andare a nutrire la coscienza e si sarebbe, nonostante tutto, ottenuto qualcosa.

Costruire con la sabbia

Ancora un ricordo di quando, da bambina, passavo parte dell'estate al mare. Non mi vergogno a confessare che ancora oggi, con disinvoltura, mi metterei a fare un bel castello di sabbia con secchiello e paletta, sabbia e acqua. In fin dei conti era la fantasia a creare l'immagine di un castello dato che il secchiello permetteva solo la forma di una specie di torre tozza, o poco più, dato che il peso della sabbia, se ne aggiungevo in altezza dell'altra, rendeva instabile la struttura. Questo era dunque il modello base, quello semplicissimo, usando poca sabbia per non scavare troppo nella spiaggia, giusto per portare rispetto agli altri bagnanti, evitando loro di cadere in voragini artificiali. C'era, e ci sarà sempre chi sa costruire magnifici castelli di sabbia, ingegnandosi con la giusta dose di umidità per far resistere più a lungo possibile la struttura. Senza spingermi a considerare chi partecipa alle competizioni dove si costruiscono vere e proprie sculture, rimarrei nel semplice, in ciò che è gestibile anche da un solo bambino. Ricordo il feeling con la sabbia e ricordo che in realtà la connessione era con la terra e con il mare. Il sole scaldava la pelle e vegliava sulla costruzione. Era una sperimentazione dato che non si sapeva la tenuta della forma, bastava esagerare con l'acqua e scivolava giù, o se non ce ne mettevo abbastanza si sgretolava subito. La sabbia è costituita da innumerevoli granellini, più o meno grandi, frammenti infinitesimi di rocce e gusci di conchiglie principalmente, e nessuno è legato all'altro, solo l'acqua crea l'illusione che la massa sia almeno un po' compatta. La sabbia asciutta sanno tutti che scivola dalle mani e da sola non può dare luogo a nessuna costruzione. Ed è qui che parte la metafora. Quante volte l'illusione si comporta da collante per qualcosa che il desiderio vorrebbe vedere unito. Quando il collante evapora i granelli tornano ad essere loro stessi, pur sempre gli uni accanto agli altri, ma separati, come le idee che non si armonizzano, come le persone che non si amano più, come arrivare al momento della verità e non resistere all'impatto, come si disgrega ciò che è stato costruito senza basi solide o profonde. Ne consegue che con la sabbia non si può costruire né lo si può fare sopra di essa. Eppure la massa della sabbia è come un mare immenso di terra, plasticamente asciutto, mobile e potente che offre solo se stesso senza poter accogliere radici che hanno bisogno di stabilità e ancoraggio. I deserti sabbiosi sono immense distese aride, pur con il loro fascino di paesaggio, ma sempre sabbia, granelli che scorrono gli uni sugli altri senza legarsi tra loro, quasi a definir così l'essenza dell'indifferenza. Costruire con la sabbia comporta accorgersi della sua natura, quando si parla di sola sabbia, escludendo tutti i casi in cui amalgamata ad altri componenti si trasforma. Infiniti granelli che scivolano via, che sfuggono passando tra le dita sono la metafora di qualcosa che non rimane, portando con sé un velo di malinconia, o di nostalgia per qualcosa che non c'è più, come lo sono le cose passate. Alla sabbia non si legano pensieri che rappresentano cose durature, si lega il tempo che passa inesorabilmente e non si ferma mai, si lega l'essenza dell'instabilità, si lega qualcosa di passeggero e poco importante, non vedo radici né fondamenta sicure nella sabbia. Benché ciascuno viva il suo rapporto con le cose che tocca e sperimenta in modo sempre e comunque personale, credo che costruire con la sabbia sia bello, divertente e sicuro solo quando si gioca in riva al mare. Qui, qualche volta, le onde ripuliscono pene e pensieri adulti che necessitano di ritrovare le giuste fondamenta solide per proseguire il percorso, suggerendo di contemplare la verità che offre la natura tramite l'esistenza della sabbia.

giovedì 3 novembre 2011

Ricercare

Quando ero bambina, e con i nonni trascorrevamo almeno un mese al mare, mi piaceva cercare conchiglie, sassolini dalle forme strane e quelli che la nonna chiamava "gli occhi di Santa Lucia", più semplicemente gli opercoli delle conchiglie. Potevo starmene ore tra i ciottoli della spiaggia sassosa vicino agli scogli, o a guazzo nell'acqua poco profonda smuovendo il fondale per scovare le conchiglie che stavano sotto la sabbia. Allora lo facevo e basta senza stare a pontificarci sopra, oggi invece mi è tornato alla mente questo ricordo e, se mi metto lì ad osservarlo, scopro qualcosa di me che mi sono portata dietro, abbastanza inconsciamente, per tutta la vita fino ad oggi. Oggi pensavo alla difficoltà di trovare cose belle tra un mare di cose brutte o cose preziose tra cianfrusaglie di ogni tipo, sia materialmente, sia metaforicamente. Serve la capacità di riconoscere, di distinguere tra le une e le altre per poter ottenere un risultato positivo. Soprattutto si deve avere ben chiaro nella mente cosa si sta cercando. Ricordo che i miei preferiti erano gli "occhi di Santa Lucia" perché erano rari e perché la nonna diceva che portavano fortuna e proteggevano dalle malattie agli occhi. Se ci penso bene, però, io li volevo trovare perché era divertente cercare qualcosa di raro, e perché la sentivo come una sfida, non mi interessava granché il significato che ad essi era legato. Mi ci perdevo, nella ricerca, e più di una volta la pazienza dei nonni veniva messa alla prova ed era tutto un richiamo per andare a casa. La mia risposta, ovviamente, era "Ancora un minutooo!". Già da questo avrei dovuto iniziare a comprendere la mia tendenza alla testardaggine e all'ingordigia, poiché non mi bastava mai il tempo che mi veniva concesso per stare lì sostanzialmente a non fare nulla di costruttivo. Pur vero che erano le vacanze estive, ma ricordo che avevamo anche i compiti delle vacanze che naturalmente mi ritrovavo a svolgere l'ultima settimana prima di tornare a scuola. Ma tornando alla mia ricerca degli opercoli, mi ricordo bene cosa provavo mentre ero lì, mentre con le mani sfioravo tutti quei sassolini, tra frammenti infiniti di conchiglie, per smuovere quanto bastava la superficie per portare alla luce lo strato sottostante, lentamente, senza staccare gli occhi da ciò che avevo davanti, per non perdere nemmeno una sfumatura o una curvatura che mi indicasse che quello era proprio l'opercolo che stavo cercando. Ricordo che guardavo tutto mettendo a fuoco la vista all'infinito per poter avere controllo migliore utilizzando un campo visivo cosciente più ampio. Questo era il mio modo di ricercare, e oggi so che questo è ancora il mio metodo, sia quando mi metto a cercare un oggetto tra altri simili sia quando la ricerca si sposta nei meandri della mente. Ricordo che in quei momenti ero completamente presente in ciò che stavo facendo e il rumore della risacca era un sottofondo che non riusciva a distrarmi, né lo potevano fare le voci di altri bambini che magari giocavano o cercavano conchiglie come me. Il mio scopo era chiaro, cercavo qualcosa di specifico, ma se capitava di trovare un sasso particolare, era solo come una parentesi, lo mettevo in tasca e tornavo a cercare i rari "occhi", e non importava che fossero imperfetti o grandi o piccoli, importava solo averli trovati, era quella la cosa preziosa. Se da quel tempo mi proietto nell'adesso porto con me una risposta. Oggi vedo intorno a me tante cose, tante situazioni, sembra quasi, qualche volta, di trovarsi tra quei milioni di sassolini e frammenti di conchiglia, sentendomi con quella dimensione, non come allora, di bambina chinata che ricerca qualcosa. Mi sono rimpicciolita, mi sono perduta nella moltitudine, ho lasciato, qualche volta, che i pensieri mi sommergessero come l'onda sulla battigia, ma ho sempre cercato, nonostante tutto, di ricordare quali siano le cose davvero preziose nella vita, che siano rare o più comuni di un granello di sabbia tra altri granelli di sabbia. In fondo non mi sono mai dimenticata come si fa a ricercare qualcosa, mettendo tutta me stessa come facevo allora, con piacere e desiderio di farlo.

I miei "occhi di Santa Lucia"

martedì 1 novembre 2011

Anthony Kiedis. Leggendo "Scar Tissue" ed ascoltando qualche cd dei Red Hot Chili Peppers

Il primo di novembre è il suo compleanno.
Come molte cose, quelle che accadono per caso, spesso regalano qualcosa di particolare e di significativo. Non molto tempo fa sono entrata il libreria alla ricerca di un volume che raccogliesse i testi delle canzoni dei RHCP, dato che la mia ignoranza della lingua inglese e una forte curiosità si erano messe insieme per spingermi a cercare un lume per soddisfare il mio desiderio di conoscenza. Non mi bastava più ascoltare la musica e il ritmo, volevo una completezza maggiore, così mi recai in libreria. Non trovai il volume dei testi delle loro canzoni tradotte in italiano, trovai un volumetto un po' nascosto firmato Anthony Kiedis, la sua autobiografia. Mi sembrò interessante anche se non era ciò che stavo cercando. Iniziai a leggere, dovendo smettere ogni tanto per mangiare, dormire e svolgere i miei compiti quotidiani. Non mi riusciva di smettere di leggere. Ogni sua vivida memoria del passato trascorso è una storia intensa di una vita altrettanto intensa. Uscì nel 2004. Quando ho finito di leggere, essendo adesso nel 2011, avrei voluto sapere il resto, ma va bene così. Ti sorrido Swan, mentre ti ringrazio per aver raccontato la tua storia. Per gestire nell'animo ciò che ha da dire Anthony Kiedis serve una cosa particolare in chi ascolta, serve che la mente non sia limitata da confini o convenzioni, serve tutta l'attenzione di chi mette anche il suo cuore nell'ascolto perché la storia non deve essere giudicata in alcun modo, poiché viene mostrato un ritratto puro e indiscutibile di un percorso di un essere umano che ha vissuto sulla sua pelle la carezza mortale della dipendenza da droga. Quello che mi ha conquistata è proprio questa cristallina sincerità ed in ciò posso imparare delle cose. Ti ascolto dunque perché fai parlare ciò che sei, che sei stato, con la forza del proposito di guardare ancora avanti, nonostante tutto, combattendo la debolezza che fa ricadere giù, per necessità, per stupidità, comunque sia, ho visto, tra le righe affidate alla stampa, un guerriero vero. Così, con nella mente i tuoi racconti ho voluto sentire di più la tua musica, anzi, la vostra musica, perché i Red Hot Chili Peppers sono un gruppo. Il cantante di un gruppo viene definito il leader ma credo che, in questo caso, non ci sia un leader perché gli amici che collaborano, per far nascere dal loro animo e dal loro cuore la musica che li accomuna, sono un unico organismo vibrante. E i RHCP sono questo, tutti insieme, qualche volta di più, qualche volta di meno, ma sempre insieme. Sto ancora ascoltando e spazio tra i primi dischi fino all'ultimo uscito, nell'agosto di quest'anno, per ritrovare i momenti che hai raccontato, le cose che scrivevi per fissare ciò che ti piaceva o ti colpiva, ciò che veniva dalla parte più vera di te, la tua sincerità di scrittore. Folle poeta, sobrio, fatto, felice, triste, colpito dalla morte degli amici, divertente, dai contenuti espliciti, innamorato, esibizionista, dovendo riassumere direi "grande", con la voce che indugia qualche secondo con ammirazione sulla vocale a, come direbbe un bambino davanti a qualcosa che lo incanta. Ho dunque messo nella lista dei miei amici libri, qui sul blog, "Scar Tissue" perché credo che sia una lettura interessante per come racconta il suo problema di fondo, questo ritmo scandito negli anni, per ciò che può essere imparato, perché anche lui lo ha imparato. Dunque, oggi, più che una fan, mi sento un essere umano che ne vede un altro al quale non si può non riconoscere una sorta di marcia in più, con la quale va avanti, lavorando e mostrando se stesso, evolvendosi, ed è così che posso augurare buon compleanno ad Anthony Kiedis, da essere umano.

"Ero a casa da solo e c'era la luna piena. Stavo scrivendo le canzoni per "By The Way", andava tutto bene e mi sentivo ispirato. Feci una passeggiata fuori, la notte era serena, potevo vedere le invitanti luci della città.
E fui pronto per gettare di nuovo via tutto ancora una volta. Riempii il mio zainetto per il fine settimana, lasciai un biglietto alla mia assistente perché si prendesse cura di Buster. Presi le chiavi della macchina e uscii di casa. Arrivai al portico, guardai la luna, la città, la mia macchina, il mio zainetto e pensai: "Non posso farlo. Non posso buttare tutto ancora una volta" e tornai dentro. 
In passato, quando scattavano questi meccanismi, nulla, inondazioni, terremoti, carestie, locuste, nulla mi avrebbe fermato dalle mie ripugnanti baldorie. Ma ora avevo provato a me stesso che potevo convivere con l'ossessione fino a che non se ne andava."
Anthony Kiedis "Scar Tissue"