sabato 22 ottobre 2011

Malumori e comprensione

Solitamente essere di malumore significa far spuntare un bel po' di spine che andranno a pungere chi ci sta intorno proprio in quel momento. I motivi sono i più disparati e la gamma di sfumature di violenza di reazione o di velocità della stessa non si contano. Quando siamo di malumore si reagisce male, è lapalissiano. Siamo concentrati sulla nostra sofferenza, sul nostro fastidio, che se ne comprenda o meno con chiarezza l'essenza, e ciò che mostriamo agli altri non è certo il nostro lato migliore, semplicemente perché in quel momento siamo occupati ad ascoltare la vibrazione disarmonica che abbiamo dentro, da qualche parte. E più avvertiamo di essere incapaci a definire esattamente la posizione di questa vibrazione non armonica più aumenta il fastidio. Sappiamo solo che stiamo male, o così così, o ci sentiamo uno schifo tale che qualcosa smette di funzionare nella capacità di comunicare con le persone attorno a noi e il risultato va dal dire cose che non pensiamo davvero, anche se lo scoppio di rabbia momentaneo ci guida la parola, al compiere azioni che mai compiremmo se fossimo in noi. Il malumore prolungato è deleterio come quello intenso e momentaneo perché comunque in quel tempo non siamo in sintonia con noi stessi e non siamo davvero noi. E' vero, fa parte di noi, ci definisce in quell'istante, ma non "siamo" noi. L'essere noi discende da ciò che ci definisce nel tempo, nel susseguirsi dei giorni, nella sintesi tra quelli belli e quelli brutti, da come ci rialziamo se cadiamo, da come impariamo ad imparare e da come riusciamo ad insegnare, da come ci inseriamo, nel corso della nostra stessa storia, su questo mondo, dalle cose che riteniamo davvero importanti, da quello che comprendiamo essere la differenza tra bene e male, da tutte queste cose nasce il nostro "essere". Uno scatto d'ira, il malumore, il fastidio che genera ulteriore fastidio in un vortice ascendente non sono ciò che ci definisce se non per quel momento che, saggiamente, non dovrebbe essere preso come l'unico istante in cui abbiamo vissuto ciò che siamo, senza una storia precedente fatta di istanti completamente differenti. Quello che ho scelto di vedere degli altri nasce dalla riflessione che la vita è composta da una serie di momenti diversi, quelli buoni e quelli meno buoni, non mi piace farmi un'idea della persona sulla base dei singoli momenti, preferisco mettere insieme tutto ciò che mi viene mostrato pur mantenendo comunque il canale dell'osservazione sintonizzato sul cuore delle persone, piuttosto che sulla loro sola apparenza e sul loro modo di inserirsi nel mondo. Questo mio andare oltre ha dei vantaggi ma anche degli svantaggi. Per apparenza, per precisare,  intendo la somma degli atteggiamenti dati dalle abitudini, dai modi di fare che non ci appartengono davvero, da quelli che invece ci caratterizzano perché nascono più nel profondo, e molto meno da come ci si veste o ci si esprime, in altre parole la "maschera" che usiamo per vivere in mezzo agli altri, senza intendere con quest'ultima parola alcun significato negativo, ma solo oggettivamente riconoscere quel qualcosa che più o meno tutti sviluppiamo diventando grandi. Se dunque si salta la maschera, nei casi positivi, si può trovare una sintonia profonda con le persone e, per comunicare, basta davvero poco quando l'anima si aggancia da cuore a cuore e da sguardo a sguardo. Negli altri casi andare oltre la maschera di qualcuno è come invadere una privacy, come commettere una violenza poiché l'altro, se ha bisogno di sentirsi al sicuro dietro le cose che ha messo su per proteggere ciò che fa parte della sua anima più profonda, si ritrova nudo suo malgrado. Comunque, per tornare al discorso dei malumori, come ho scritto nel titolo del post, c'è bisogno di comprensione e questa, in me, discende dal mio modo di essere, perché quando vado oltre l'apparenza di cui parlavo, nello spazio dove vibra la verità di ciò che siamo, trovo solo quella che riconosco essere una difficoltà momentanea e, nel caso si trattasse di qualcosa di più grave e duraturo, vedrei solo sofferenza e vorrei poter comprenderne il perché. Questo dico da spettatore del malumore altrui, quando si presenta, perché credo fermamente nelle seconde occasioni, ma anche nelle terze e quarte, e anche un po' più in là. A prescindere da questo, quando sono di malumore io, benché cerchi di trovare prima possibile il bandolo della matassa per tornare a sentirmi me stessa in armonia, vorrei incontrare o avere vicino persone altrettanto capaci di comprendermi e perdonarmi per qualsiasi cavolata stia dicendo o facendo. Se non ci comprendiamo proprio nei momenti peggiori come possiamo convivere consapevolmente con qualcuno? Non siamo ventiquattr'ore su ventiquattro perfetti, splendenti, pacifici, disponibili, amabili, gentili, non lo siamo e neppure dovremmo aver paura di ammetterlo anche se l'ego subirebbe un piccolo affronto. Per rilassare l'anima serve solo ammettere che parte dello spazio che abbiamo dentro è per i momenti di malumore propri ma soprattutto per quelli altrui, per potersi comprendere davvero e stare sereni in compagnia degli altri. Una volta avevo paura del malumore altrui, non della rabbia, poiché quest'ultima l'ho sempre voluta combattere a spada tratta, anche se paradossalmente vivendola io stessa, facendomela passare attraverso, arrabbiandomi, ma il malumore altrui, generato da un fastidio o da una sofferenza magari fisica che porta a "ringhiare" parole aspre, mi colpiva più di quanto volessi. Negli ultimi tempi ho notato che il pugno che mi arriva dritto allo stomaco in questi casi ha perso potenza di impatto, forse perché ho imparato a considerare un po' più di spazio in me per il malumore altrui. Forse ho allargato un po' la pista del rispetto per gli altri, rendendomi così conto anche di un'altra cosa, che prima non ne avevo così tanto come credevo.

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