domenica 20 marzo 2011

Fotografia di guerra

Questo racconto l'ho scritto nel febbraio del 2008, guardando uno dei tanti notiziari in tv. Purtroppo, ancora oggi, a distanza di tre anni, mi sembra ancora spaventosamente attuale. Vorrei poter scrivere sempre di cose positive, ma quello che c'è nell'aria, negli ultimi tempi, suggerisce di riflettere. Personalmente preferisco la pace e non riesco mai a capire come sia possibile affermarla accogliendo la guerra. Mi sfugge sempre il nesso.

Fotografia di guerra 
Quattro lati tagliati netti e angoli a novanta gradi. Il supporto è carta lucida come lo schermo di un televisore. O viceversa. L'audio non serve perché l'immagine parla da sola. Urla nella mente di chi sta lì a guardare, magari mentre sta masticando la solita pasta di mezzogiorno. Da sempre più tempo siamo abituati a vedere sangue e morte mentre mangiamo, come se qualcuno volesse renderci impermeabili a queste cose. Eppure il cibo continua ad essere masticato e mandato giù quasi senza scosse. E' normale. Si dice. Come se la normalità fosse una sequenza di cose sempre uguali che, per abitudine, si traveste da punti di riferimento per tutti coloro che non si sentono più capaci di camminare da soli. Come stampelle per zoppicare meno e far credere agli altri di non avere problemi. Così, questa normalità acquisita, non bada a cosa la rende tale, in definizione, e lascia carta bianca alla mente, che crede sia normale pasteggiare su scenografie macchiate di odio e sangue. Come olio e salsa di pomodoro che macchiano sbadatamente la tovaglia pulita. E allora come si fa? Meglio toglierla subito, prima che le macchie si incrostino troppo. E sarebbe bene candeggiare. Ma la scenografia della televisione rimane lì. Non si può togliere facilmente se non cambiando canale. Un po' come il tempo atmosferico, non puoi contrastarlo, lo prendi come viene. Ma non ci si può rassegnare a comprare un ombrello per ripararsi dalla pioggia. Qui non si può scappare, anche se un telecomando te lo rende la cosa più facile del mondo. Le immagini scorrono insieme ai volti che le animano. Una lacrima sporca cola giù dalla guancia rotonda e polverosa di un bambino. E' spettinato. Ma i suoi occhi mi feriscono dentro. Quanti giorni di telegiornale ho vissuto, con quella speciale indifferenza acquisita con la pratica, e non ho mai visto nessuno di loro. Non c'è audio, non serve, il suo urlo è fatto di sangue secco, aggrovigliato alla paura e alla morte che ha visto. La polvere e la sabbia del deserto lo colorano in modo uniforme e le sue lacrime vorrebbero lavarlo. Ma non bastano, come non bastano le nostre, che stiamo davanti allo schermo a migliaia di chilometri di distanza. Chi crea la guerra dovrebbe iniziare a piangere e forse quelle gocce diverrebbero consapevolezza per iniziare a fare pace. Ma lui è ancora lì, solo che adesso ha preso forma sullo schermo della mia mente e so che non sarà facile conviverci. Non voglio dimenticarlo, ma fargli spazio in me significa assumere, per il momento, una nuova forma più scomoda, perché la pace della normalità si è macchiata. Se piangessi insieme a lui potrei somigliare al deserto in cui vive. Adesso ricordo un po' meglio perché sono diventata indifferente. Per non morire ogni volta che vedo qualcuno che ha il cuore squarciato dal dolore. E' normale dire "meno male che qui non accade". E' normale. Fino al giorno in cui la troppa normalità si ribella e, da subdola uguaglianza in serie, si trasforma nel fiuto della mente che, talvolta, presagisce qualcosa. S'interrompe la continuità e tu devi risistemarti in una nuova posizione. Magari il cambiamento è impercettibile ma qualcosa dentro non sarà più uguale a prima. Come la vita per quel bambino del deserto, che continua a piangere e a gridare dal rifugio di quegli occhi così vivi in mezzo a tanta morte. Ha una mano adulta che gli circonda la spalla mentre l'altra si appoggia ad un fucile, e lui guarda il cameraman. E guarda noi. Mi dispiace di non essere lì con te, bambino. Mi dispiace di non conoscere il tuo nome. Vorrei essere immensa e spietata come un uragano per cancellare tutto l'odio che alimenta la guerra, così potresti tornare a giocare almeno un altro po', prima di crescere. E, nel tuo diventare uomo, vorrei essere un raggio di sole del tuo cuore, che credo non si oscurerà mai, per ricordarti di non odiare chi ti ha rubato l'infanzia e la famiglia. Perché so che nel profondo di quegli occhi che oggi, piangendo, vedono solo distruzione, c'è una forza grande. Qualcuno, con tanto amore, dovrà insegnarti a coltivare questa forza e a credere in essa senza riserve. La tua speranza di poter cambiare. Da qui, io posso soltanto credere in questo per non dimenticarti. 


Lo scrivo oggi, pensando alla scena che ho visto stamattina. Una mamma teneva per mano il suo bambino e lo aiutava a scendere uno scalino che per lui era altissimo, in verità solo pochi centimetri. Li avvolgeva il reciproco amore, e la calma della pazienza per l'attesa della crescita che ha bisogno di costante insegnamento. Magari loro non vedranno mai la guerra, ma il contrasto dei pensieri in me ha fatto riemergere il ricordo di questo mio scritto.
Che pace sia sempre in voi, se intorno, per il momento, non c'è.
RBBetween

Nessun commento:

Posta un commento