martedì 23 agosto 2011

Quando stai per arrivare alla meta

Non sono mai stata una sportiva praticante ma le volte in cui mi sono cimentata in gare varie avevo una meta da raggiungere davanti a me. Poi ho notato che ogni sfida quotidiana che richieda un discreto impegno è come una gara che pone di fronte la meta. Dallo sport mi sono trasferita nella vita e non ho trovato grande differenza tra il combattere una battaglia e il gareggiare. La meta è differente ma l'impegno richiesto è quasi lo stesso. Ricordo una gara di salto ad ostacoli quando andavo a cavallo, la preparazione fisica e l'attenzione per ricordare come dirigere al meglio le proprie forze e quelle del cavallo, le accortezze per  non sbagliare grossolanamente. Quando inizi la competizione, una qualsiasi gara lo è, come è una competizione avere a che fare con gli altri in ambiente lavorativo, e con se stessi quando si desidera incrementare la propria conoscenza del mondo, ebbene, quando inizi ti senti avvolto dalla situazione in modo così totale da accantonare brevemente l'idea della meta. Almeno così è per me. Mi interessa di più il percorso. Ogni cosa intorno cattura l'attenzione e questo è il grado dell'impegno che impieghiamo per fare ciò che stiamo facendo. La meta, pur avendola come desiderio principale, quando stiamo concorrendo, è comunque lontana all'inizio del percorso e lo si sente, così come si arriva a sentire  la vicinanza della meta quando si sta per giungervi. Chi brama vittoria potrebbe non rendersi conto della posizione della meta dal momento che la sente costantemente presente in sé. Chi ama partecipare può riuscire a sentire qualcosa in più. Mie illazioni. Comunque sia, tutte le volte che mi sono trovata nei pressi della meta, anche se non ero vincente, ho sentito emergere un pensiero. Questo pensiero è la consapevolezza che il percorso, o la gara alla quale sto partecipando, sta per concludersi, come se si allentasse la morsa della volontà che mi ha tenuta impegnata fino a quel momento e questo spazio appena ricavato potesse ospitare una domanda: "e dopo?". Piccolo quesito impertinente e spiazzante. Non amando poi così visceralmente la vittoria, benché mi renda contenta l'affermazione e l'eventuale valorizzazione di me stessa, come è abbastanza normale che sia, mi trovo a dover ascoltare questa domanda e a sentirmi chiamata a rispondere in qualche modo, come se la vita comunque mi dicesse che non ci si ferma mai. Fermarsi dentro una eventuale vittoria provoca una strana cecità mentale perché ogni glorificazione dell'ego ha questo rovescio della medaglia. E tuttavia è vero che non è nella vittoria alcun capolinea significativo per l'evoluzione personale. E' l'inglobare questo capolinea nel percorso e non idolatrarlo il reale insegnamento per la crescita personale. Rimanere se stessi nonostante la fama, qualora la vittoria ne portasse, è la sorgente del benessere. E con questo nessuno nega il fasto di una vittoria né ciò che essa porta con sé in benefici vari. Tutto sempre dipende da come lo gestiamo. Ho messo a confronto due mie vittorie, differenti fra loro, l'una per aver scritto un racconto e l'altra per un problema fisico. Il racconto ha avuto il suo premio materiale e gli onori momentanei di chi ti fa i complimenti per come ti sei distinto. Ammirazione per delle capacità che altri in quel momento non hanno. L'altra vittoria, benché forse non così completa come vorrei e sovrapposta adesso a nuove battaglie diverse ma sullo stesso campo fisico, è esistita senza clamori degni di una vittoria. Non era forse anche quella una vittoria? Non aveva forse anche quel percorso una meta da raggiungere? Ogni battaglia personale che sfocia in una vittoria o nel raggiungimento di una meta importante non ha le luci della ribalta. Perché? Perché solo gli atleti che gareggiano possono disporre di tali luci? Perché le vite che combattono per rimanere tali non vengono menzionate? Eppure chi vive tali sorta di gare avrebbe in sé il mondo intero da raccontare, avrebbe gamme infinite di sentimenti ed esperienze da raccontare e da condividere... Chiedo scusa per la digressione... Il tema era la bolla di incertezza che si crea poco prima di giungere a compimento di qualcosa, al fatto che se la si sente si deve poi provare a rispondere a quella domanda che ti chiede cosa accade dopo. Dopo essere giunti in vetta cosa accade? Se si trattasse davvero di una vetta, per andare oltre e tornare verso la propria casa, ci sarebbero due sole soluzioni. La prima, scendere a valle rifacendo il percorso inverso o scegliendo di passare da un'altra via. La seconda, volare. In ogni caso, una volta giunti a toccare la propria meta, si deve continuare il percorso, magari verso altre mete, ma il senso è il movimento, non la stasi. Anche metaforicamente parlando, crogiolarsi nella vittoria conseguita, equivale alla stasi. E la vita, come dico sempre, è movimento, e c'è movimento anche negli elettroni che costituiscono gli atomi delle molecole che formano una roccia millenaria.
Si è segretamente felici quando si percepisce la meta che si avvicina, specialmente se il percorso è stato lungo e accidentato fino a quel momento. La meta è come una liberazione se il percorso è stato brutto da vivere. Come quando si sente che la notte sta lasciando il posto all'alba, ci si sente bene anche in questo caso. Allora il cuore che palpita raccomanda all'entusiasmo che scalpita di ricordare che ogni meta lascia il posto a qualche nuovo percorso o gara, con o senza riposo nell'intermezzo.

Nessun commento:

Posta un commento