lunedì 27 giugno 2011

Mio padre

Un ragazzaccio classe 1936. Che ora non è più qui. Nato il 27 giugno, oggi avrebbe avuto 75 anni, ma non riesco a immaginarmelo vecchio. Si dice che la solitudine in certi casi non faccia bene perché i ricordi potrebbero prendere il sopravvento, potrebbero assalirti come le onde con l'alta marea e tu potresti rischiare di affogare. Potresti non saper distinguere più il mare dalle lacrime, e se in mare l'istinto di sopravvivenza ti farebbe nuotare, in mezzo alle lacrime potresti scegliere di affogare. Non avrei voluto inciampare nel ricordo di quando ero bambina e lui mi accompagnava al maneggio. Non ho saputo fermare le dita dal comporre il nome della scuola di equitazione che frequentavo sulla tastiera del mio mac. Internet non ha colpa per la mia incursione indietro nel tempo. Oggi quel luogo è completamente cambiato, si è ampliato, è moderno e prestigioso. I miei ricordi sono più semplici, pieni di sabbia, odore di cavalli, pazienza di lui che mi aspettava placidamente facendo le parole crociate. Ricordo me stessa concentrata su quello che stavo vivendo, non pensavo a lui, mi curavo solo di crescere scoprendo nuove emozioni. Il mio autista... se guardo indietro e vedo tutte le cose che sono cambiate, mi sembra che il tempo sia incalcolabile eppure è stato brevissimo, impietoso. Mi riprometto sempre di non lasciarmi scivolare troppo all'indietro, ma nella mia natura c'è qualche pennellata nostalgica più del dovuto che mi porta a indugiare nei ricordi. Stranamente, io che cerco di riconoscere la preziosità del presente stando il più possibile in esso, mi commuovo non appena sento muoversi il tempo e mi fermo a fissare la scia che lascia al suo passaggio. Non so se c'è una valida cura per questa patologia, e la solitudine, come dicevo, non aiuta, semmai amplifica i cerchi concentrici che le gocce di ricordi creano, cadendo dal passato nella pozza del presente.
Di lui si potrebbero dire mille cose, buone e cattive, come per i più che hanno camminato su questa Terra. Io l'ho visto da figlia, non l'ho visto bene da pari a pari, quando se n'è andato ero appena adulta e come al solito badavo a riempirmi la mente di parole leggendo, leggendo, leggendo, mentre il tempo passava. Non si passa mai abbastanza tempo con le persone care, si pensa sempre di averne tanto a disposizione, come se la dispensa non dovesse estinguersi. Ma la dispensa si estingue e non te lo manda a dire. Un giorno magari hai una fugace intuizione che il tempo rimanente è davvero poco, ma non ci badi, perché dici, tra te e te: "figurati se è vero che sono capace di sentire certe cose", così continui ignaro, adesso appena un po' più volontariamente, invece che per reale incoscienza, ma fa lo stesso, non te ne curi. Poi arriva il giorno decretato per l'addio definitivo e ti trova impreparato, solo che questo esame non ha un secondo appello. Quindi non sono riuscita a salutarti come avrei voluto, e ogni volta che ci penso metto un punto sulla mia lista personale delle cose che non voglio che si ripetano, se posso evitarle. Combatto, padre mio, ogni giorno per sconfiggere l'ingombrante e goffa presenza di un ego che mi fa badare più a me che al resto del mondo, e tutto ciò che vivo, che imparo e che poi dico, anche qui tra queste righe virtuali, è il frutto della scuola che mi sono imposta per rimediare alle mie mancanze. Qualche volta mi viene facile più di altre, perché in me scorrono il tuo sangue e la tua disciplina, la tua forza e la tua intelligenza fatta del saper imparare anche senza avere insegnanti accanto. Tu, autodidatta di quasi tutto, lettore dalla memoria incredibile, tu che sapevi a memoria i nomi delle strade non solo della tua città, e che io invece cerco sempre di imparare senza grandi risultati, tu che sapevi dipingere in modo strepitoso e mi hai lasciato in dono una mano capace quanto la tua, tu che fumavi e quando ti dicevano che faceva male tu gli rispondevi "di qualcosa si deve pure morire, mica si può essere perfetti!" e sorridevi mentre lo dicevi, con serenità, perché eri fortemente consapevole che "siamo tutti provvisori su questa Terra" così come mi hai insegnato, anche se ciò che ti ha portato via è stato altro. Tu che amavi la fotografia e ti divertivi a scattarci le foto nei momenti meno opportuni, o ti piaceva, come piace a me, scattare istantanee senza far mettere in posa le persone, perché siano naturali, perché i ricordi lo sono, non sono pose del presente, i ricordi sono attimi rubati al flusso ininterrotto di un qualcosa incomprensibile e più grande di noi. Tu che ti alzavi presto la mattina e andavi a fare una passeggiata quando ancora il mondo dormiva, e poi andavi a lavorare e portavi a casa lo stipendio che ha nutrito anche me per tutta la vita. Sono cresciuta bene, padre mio, se da dove sei riesci a vederlo, e forse sono un po' matta come te se qualche volta credo di poterti parlare. Il tempo è stato, posso solo sottolinearlo a parole, perché niente lo modificherà. Tu e le tue battute, tu e i tuoi discorsi lunghi ribattezzati "giuseppiche" quando ricordavi il tempo di guerra e tutta la tua vita. E io ascoltavo a metà, perdonami per questo... Se ti avessi ascoltato totalmente conserverei di te più ricordi. Tu e il tuo tempo di essere protagonista per il gran finale tragico... Tu e i tuoi occhi grigio-azzurri che hanno dato ai miei la luce verde. Tu che non avevi paura di cavalcare la vita né le vite in essa, tu che hai lasciato me con il tuo cognome in una città dove nessun altro lo porta. Mi hai lasciata sola... Eppure va bene così, lo so, anche se oggi cerco di galleggiare alla meglio tra queste onde salate delle quali non riesco a distinguere la provenienza... Non ti preoccupare so nuotare anche se mi lascio andare un po' alla corrente. Tu che sapevi intuire le cose prima che accadessero e avevi buon fiuto per le occasioni, tu che preferivi pane e formaggio a qualsiasi altra cosa se non c'era nulla di pronto da mangiare, tu che, dice la mamma, non sapevi cucinare anche se per un periodo, da giovane, hai vissuto da solo. Tu che sei nato in un luogo dal quale sei andato via come profugo, tu che hai vissuto in montagna per un tempo che ti ha insegnato a camminare e correre in salita o in discesa con agilità. Tu che facevi e dicevi tante cose che io non ho saputo, né forse saprò mai davvero, a meno che non mi faccia aiutare dalla memoria delle mamma. Tu, strano ragazzaccio ribelle e controcorrente, operaio e impiegato per amore della famiglia anche se il tuo animo era quello di un artista e sognatore. Ti ringrazio per  aver rinunciato alle tue grandi aspirazioni, per averle trasformate e ridimensionate con amore e saggezza per me e per la mamma, rimanendo artista e sognatore nel tuo studio in cantina, in compagnia della radio, dei tuoi attrezzi, dei tuoi pennelli e matite. Tre colpi battuti sul pavimento ti chiamavano su per pranzo o cena o per rispondere al telefono - non c'erano ancora i cellulari- (chissà se ti sarebbero piaciuti i cellulari, a te che lavoravi nella telefonia... non ci giurerei, dato che tu preferivi parlare faccia a faccia e poco volentieri tramite cornetta telefonica) e laggiù tu creavi modelli di navi, con legni sottilissimi e pregiati, o intagliavi il legno con la maestria di un ricamatore, non di un intagliatore. Tu autodidatta preciso fino a spaccare il millimetro hai lasciato progetti nelle scatole che sono ancora lì... E non sai quanto vorrei avere un po' di pace in più dentro, un po' di tempo senza pensieri, un po' di spazio senza pensieri, per imparare a calcare le tue orme da intagliatore. Chissà se un giorno mi riuscirà. E' una promessa...

foto di R.B.Between
           






                                   




                                  Mio padre
                   Pola, 27 giugno 1936 - Firenze, 27 marzo 2000

foto di R.B.Between

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